mercoledì 14 aprile 2010

Le disgrazie non vengono mai sole: excursus dal matrimonio all'estinzione


Una collega recentemente tornata dal viaggio di nozze a Mauritius mi ha raccontato di essersi imbattuta per la prima volta, grazie alla copiosa iconografia disponibile sull'isola, nel dodo e nelle vicende della sua estinzione.
Mi sono così reso conto che la storia della prima estinzione documentata, avvenuta in epoca moderna, per sicure cause antropogene, tanto da diventare il simbolo di tutte le estinzioni, non è poi così risaputa come mi sarei aspettato. Vale la pena quindi di fare un rapido riassunto, tanto più che, vista nel dettaglio, la sparizione del dodo assume toni ancora più tristi del racconto scolastico (e non del tutto esatto) del grosso uccello terricolo insulare sterminato da marinai-cacciatori per approvigionarsi di carne fresca durante le lunghe traversate nell'Oceano Indiano, e offre lo spunto per qualche riflessione un pò più generale.
(Riconosco di avere ancora una volta fatto il furbo con i titoli: il ruolo del matrimonio in tutto questo discorso si è esaurito dopo la prima riga.)
Il dodo (Raphus cucullatus) era una delle tre specie che componevano la famiglia dei Rafidi, ciascuna propria di una delle tre isole Mascarene, assieme al solitario di Rodriguez ed al solitario di Reuniòn; tutte e tre estinte tra la fine del diciassettesimo e l'inizio del diciannovesimo secolo. I Rafidi appartenevano all'Ordine dei Colombiformi, erano quindi imparentati con piccioni e tortore, ma una volta colonizzate queste isole sperdute, prive di predatori ed irraggiungibili da possibili competitori mammiferi (con la sola eccezione dei pipistrelli), avevano perso l'attitudine al volo e si erano adattate ad una vita terricola da raccoglitori nelle foreste, acquisendo grandi dimensioni (intorno ai venti chili), probabilmente perchè molto del cibo disponibile era costituito da frutta secca e grossi semi difficili da ingoiare per uccelli più piccoli; e, in conseguenza sia dell'assenza di predatori, sia della taglia che comportava una lungo periodo di sviluppo per i pulcini, un ritmo riproduttivo decisamente lento: presumibilmente ogni femmina deponeva un singolo uovo ogni due anni, in un nido costruito a terra.
Il dodo ha prosperato a Mauritius, probabilmente per diversi milioni di anni; i primi cenni pervenuti dai marinai portoghesi del sedicesimo secolo, e i resoconti olandesi, più dettagliati, della prima metà del diciassettesimo, concordano su una popolazione di questi grossi uccelli straordinariamente numerosa.
Naturalmente, per navi che trascorrevano mesi in mare aperto con rare possibilità di approvvigionarsi di cibi freschi, un piccione di venti chili, incapace di volare, facilissimo da catturare anche a mani nude perchè camminava lentamente e che per di più non aveva paura dell'uomo e si lasciava avvicinare tranquillamente, era una ricchezza alimentare irrinunciabile.
In realtà solo alcune parti avevano un sapore gradevole; per il resto la carne del dodo è descritta come "untuosa" e decisamente poco appetibile, ma era pur sempre meglio di una dieta a base di gallette (i marinai olandesi lo chiamavano walgvogel, "uccello nauseante").
E qui troviamo la prima triste ironia della storia: se fosse stato una prelibatezza per palati fini, probabilmente il dodo avrebbe finito per essere allevato e si sarebbe salvato dall'estinzione, pur se con la mesta sorte dell'animale ineludibilmente destinato alla macelleria.
Man mano che Mauritius acquisiva importanza come scalo sulle rotte commerciali portoghesi prima, olandesi poi, la presenza umana si fece sempre più frequente e stabile, e vennero introdotti sull'isola cani, scimmie, ratti (consueti passeggeri clandestini), e maiali.
Questi ultimi (seconda triste ironia) vennero importati come fonte di carne fresca alternativa, e di gusto più piacevole: avrebbero quindi potuto essere la salvezza del dodo. In realtà, assieme agli altri mammiferi alloctoni, trovarono una fonte di cibo molto facile nelle uova comodamente accessibili nei nidi sul suolo, e furono con ogni probabilità la vera causa diretta dell'estinzione del dodo, che non fu quindi la caccia, ma la perturbazione dell'ambiente causata dall'introduzione di nuove specie da parte dell'uomo.
Gli ultimi esemplari vivi di dodo furono osservati su un'isoletta minore a nord di Mauritius nel 1683; nel 1693 una intensa ricerca non produsse l'avvistamento di nessun esemplare. La conoscenza diretta tra uomo e dodo era durata meno di due secoli.
Terza triste ironia: di un animale che viveva prospero meno di 400 anni fa, la cui estinzione avrebbe potuto essere facilmente evitata, che tanti uomini dell'evo moderno hanno visto (e mangiato), ci rimane poco più che nulla. Ci sono specie estinte da milioni di anni delle quali abbiamo una documentazione più completa.
Un unico esemplare impagliato all'Ashmolean Museum di Oxford, più che conservato era lì abbandonato; il reperto si deteriorò e non venne tentato alcun intervento di restauro: nel 1755 l'ultimo dei dodo fu gettato via. Oggi, oltre a pochi dipinti e disegni, avremmo solo qualche becco e una o due zampe conservati qua e là in diversi musei europei, se dopo il 1850 non fossero stati ritrovati alcuni parziali scheletri fossili e varie ossa sparse in alcune paludi di Mauritius.
Una possibile spiegazione di tanta noncuranza si può trovare nei nostri criteri antropocentrici ed impropri nei giudizi di valore sugli altri abitanti del nostro pianeta: tutte le descrizioni scritte, sia prima che dopo l'estinzione del dodo, calcano la mano sull'inadeguatezza e la goffaggine di un animale che, invece, aveva assunto un ruolo dominante nel proprio ambiente naturale: è sicuramente molto comodo scaricare su presunte manchevolezze delle vittime le colpe dei carnefici (soprattutto perchè sono generalmente questi ultimi a scrivere poi la storia), quasi che il dodo si fosse auto-condannato all'estinzione per la colpa di essersi adattato al suo ambiente anzichè al nostro. Per dare un'idea del senso di disprezzo, basterà ricordare le due etimologie più accreditate (oltre ad un'ipotetica origine onomatopeica legata al suo verso, di cui però nulla sappiamo) per il nome dodo: una possibile derivazione dal portoghese doudo, che potremmo tradurre come "fessacchiotto, tontolone" (improbabile, poichè non esistono menzioni del nome dell'animale di fonte portoghese); oppure dal gergale nederlandese dodaarse, che potrebbe essere reso in italiano con "culone, sedere grasso". Una parte consistente dell'iconografia caricaturale sul dodo pesa anche sulla coscienza di Lewis Carroll, che rappresenta se stesso in Alice nel Paese delle Meraviglie sotto tali piumate spoglie (e in questo caso l'onomatopea è verosimile: Lewis Carroll aveva come vero cognome Dodgson, ed era balbuziente; è un'ipotesi molto accreditata che per autoraffigurarsi nel libro abbia scelto l'animale il cui nome riproduceva quel che gli riusciva di pronunciare nell'atto di presentarsi: "Do-Do-Dodgson").

Ma perchè mai (mi sembra già di sentire in sottofondo il vociare della solita maggioranza superficiale e niente affatto silenziosa) disperarsi tanto per l'estinzione di una specie ? Tutte le specie si estinguono, prima o poi. Cosa abbiamo mai perso, in fondo ? Non è forse nel corso naturale dell'evoluzione che le specie di minor valore adattativo si estinguano ? Dalle grandi estinzioni di massa non è forse rifiorita una ancor maggiore diversità di specie ancor più perfezionate ?
Capita, in ogni ambito dello scibile umano, di scontrarsi con analoghi argomenti rivestiti di una sottile patina di apparente consistenza tecnica, ma utilizzati in modo del tutto distorto e inappropriato, quando non palesemente in malafede, quasi quotidianamente, specialmente quando si discute con razzisti, fautori dello sviluppo industriale senza limiti, e sostenitori della Juventus (in ordine crescente di frequenza).
Intanto, ogni specie biologica ha un suo valore intrinseco come entità complessa unica ed irripetibile, che in ogni caso arricchisce e conferisce decoro al pianeta sul quale viviamo (e questo vale anche per i milioni di specie delle quali non siamo neppure a conoscenza, e che mai vedremo nella nostra vita) e la sua scomparsa contiene, come minimo, il dramma della irreversibilità. E l'argomento che tutte le specie siano comunque destinate all'estinzione ha lo stesso valore logico dell'inutilità di ospedali e cure mediche, tanto le persone prima o poi muoiono comunque.
In secondo luogo, non c'è nulla di più fuorviante che concepire l'evoluzione come una scala lineare di progresso, con l'attribuzione di valori assoluti crescenti dal "meno evoluto" al "più evoluto", ed estinzione ed affermazione di nuove specie come un processo di sostituzione di un elemento di minor valore con uno più progredito. La storia delle infinite diversificazioni della vita è fatto di contingenze storiche occasionali, separazioni di popolazioni dalla specie originaria per accidenti imprevedibili, e soprattutto adattamenti che sono, per definizione, locali, non espressioni di valore assoluto: la selezione naturale agisce in funzione del "qui ed ora", non ai fini di un perfezionamento astratto; ciò che appare perfetto per il "qui ed ora" avrebbe buone probabilità di risultare goffo ed inadeguato un pò più in là ed in un altro momento. Ogni specie è un prodotto della sua peculiare storia, e non possiamo in alcun modo "misurarla" secondo criteri dettati dal nostro antropocentrismo. Una specie che si estingue perchè perde il suo habitat non ha nessuna "colpa" per la sua presunta inadeguatezza, e la sua scomparsa non è un sintomo di progresso, è semplicemente una perdita di ricchezza e di diversità. Noi, che abbiamo dalla nostra sia la nostra coscienza, che ci permette di valutare le conseguenze delle nostre scelte, sia una capacità di modificare il nostro ambiente che pochi organismi hanno mai avuto (forse solo i primi batteri fotosintetici, che intossicarono l'atmosfera 3 miliardi di anni fa, producendo quell'ossigeno così ben utilizzato oggi da una vasta maggioranza di organismi repiratori), dovremmo assumerci con maggiore attenzione le nostre responsabilità nei confronti delle centinaia di specie che condanniamo continuamente all'estinzione con le nostre attività.
Infine: la storia della Terra ha già visto diversi episodi di grandi estinzioni di massa, ed ogni volta la vita è rifiorita producendo ulteriore diversità. Vero. Quindi, se anche l'azione dell'uomo provocasse un numero elevatissimo di estinzioni, chissà quali nuove affascinanti specie potrebbero trovare spazio per sorgere. Vero. Nel breve (su scala geologica) volgere di poche decine di milioni di anni, nuove flore e nuove faune risorgerebbero dalla catastrofe. Quando anche noi non ci saremo più (le specie animali terrestri, in genere, non durano più della decina di milioni di anni). E cosa ce ne faremo, noi allora estinti, di questo brillante risorgimento ? (Questo grossolano errore di scala temporale è molto frequente quando si discutono fenomeni che riguardano l'immensità del tempo geologico: lo incontreremo di nuovo quando mi deciderò a scrivere qualche riflessione su effetto serra e riscaldamento del pianeta: mi sono diverito molto a scrivere "La signora" agli esordi di questo blog, ma vorrei tornare sull'argomento in modo più approfondito). Noi dovremmo preoccuparci di assicurare il mondo migliore possibile a noi stessi e ai nostri discendenti, alla nostra appropriata scala temporale delle centinaia, migliaia, o centinaia di migliaia di anni; tra decine di milioni di anni, la vita sulla Terra andrà avanti comunque, senza di noi e certamente senza alcun bisogno delle argomentazioni sciocche di chi non riesce a porre i fenomeni nella loro giusta scala nel tempo geologico. Noi dobbiamo salvaguardare il NOSTRO ambiente nella NOSTRA epoca, e la diversità delle specie che vivono sul pianeta con noi ora, non quelle che comunque, indipendentemente dalle nostre scelte, esisteranno in un futuro lontano. La Terra non ha bisogno di noi e procederà indifferente, siamo noi che abbiamo bisogno di lei.

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