martedì 28 settembre 2010

Uso e abuso dei test Q.I. - parte 4 - Il Fato si compie

L'applicazione su vasta scala dei test di Q.I. negli Stati Uniti giunse al suo culmine con l'iniziativa di Robert M. Yerkes di sottoporre a diverse versioni del test di Binet (da lui ulteriormente riarrangiate) 1750000 reclute dell'esercito mobilitate per la prima guerra mondiale, nel 1917. I risultati furono pubblicati in una monumentale (800 pagine) e minuziosa monografia nel 1921, poi ribaditi, con una ulteriore radicalizzazione dell'interpretazione innatista, dal fedele collaboratore Brigham in un testo più riassuntivo del 1923.
Cade qui anche un altro caposaldo di Binet: il test deve essere somministrato individualmente da personale specializzato; le reclute dell'esercito venivano invece ammassate gomito a gomito in grandi stanzoni, con un ufficiale che urlava ordini sui compiti da eseguire e un dimostratore che mostrava esempi alla lavagna, con tempi contingentati al secondo per ogni esercizio.
Non la farò tanto lunga: gli immigrati avevano un Quoziente di Intelligenza più basso degli americani bianchi, in particolare quelli dell'Europa meridionale e orientale risultavano inferiori ai nordici e, manco a dirlo, i negri ottenevano il punteggio medio più basso di tutti. Tutto perfetto.
Superfluo aggiungere che Yerkes, come Goddard e Terman, ritenne di aver misurato un'intelligenza innata e immodificabile, non soggetta a influenze ambientali, e che i suoi risultati dimostrassero differenze di intelligenza reali e caratterizzanti tra gruppi etnici.
L'avere esaminato un campione così ampio gli portava però alla luce qualche fastidiosa discrepanza; Yerkes era vittima di un'ottusità talvolta persino comica e di un pregiudizio accecante, ma era sperimentatore meticoloso e redattore preciso: nei suoi stessi dati si trova quanto basta a smentire le sue conclusioni.
Prima di esporre qualche esempio, occorre aggiungere che già Terman, nel suo ampliamento del test originale di Binet, aveva inserito qualche passaggio piuttosto subdolo, che valutava, più che l'intelligenza, la familiarità con cultura e consuetudini americane: quesiti che vertevano sulle differenze culturali tra pellerossa e coloni bianchi; identificazione di oggetti di uso comune nel nordamerica, ma non necessariamente altrove (una normale lampadina a bulbo, attorno al 1920, non era un oggetto così banale in molte parti del mondo), o l'identificazione, in base all'aspetto, del ruolo dei personaggi raffigurati: un signore in toga e parruccone è riconoscibile come un giudice o un avvocato per gli anglosassoni, e magari per gli europei; per altri risulterà solo un tizio vestito in modo stravagante. Yerkes accentuò ancora di più questa tendenza, inserendo quesiti del tipo:
- Crisco è: - una specialità farmaceutica, - un disinfettante, - un dentifricio, - un prodotto alimentare.
- Washington sta ad Adams come primo sta a . . .
- Christy Mathewson è famoso come: - scrittore, - artista, - giocatore di baseball, - attore.
Io avrei totalizzato un punteggio ben misero se non avessi ripreso questi esempi da Gould, il cui valore come studioso dell'evoluzione può essere avvicinato solo dalla sua competenza sul baseball, per cui ora so che la risposta esatta all'ultima domanda è la terza. Immaginate la recluta Pautasso Gaudenzio da Chivasso, sbarcata in America magari l'anno prima, quanto avrebbe potuto essersi appassionata alle prodezze del signor Mathewson.
Ed eccoci al paradosso: per chi volesse cercare correlazioni tra Quoziente di Intelligenza e condizioni ambientali, il lavoro di Yerkes è una vera miniera.
Assumendo che il successo sociale e lavorativo fosse un effetto dell'intelligenza innata, tentò una suddivisione tra apprendisti, operai e tecnici. Non trovò alcuna correlazione con il Q.I. Concluse che la suddivisione doveva essere errata.
Una correlazione che invece gli ritornava continuamente sotto gli occhi come un incubo, era quella tra Q.I. e livelli di scolarità. Ma se il Q.I. misurava l'intelligenza innata e non l'apprendimento, non doveva essere così; risolse il problema da par suo: "...l'intelligenza innata è uno dei più importanti fattori condizionanti per la continuazione degli studi..."
Ma la correlazione con la scolarità era ancora più accentuata se messa in rapporto alle differenze tra bianchi e negri: Yerkes concluse, ovviamente, che i negri lasciavano la scuola prima dei bianchi perchè erano meno intelligenti. Nessuna ipotesi circa le differenze tra le scuole per bianchi e quelle per negri (con segregazione sancita ufficialmente: siamo nel 1917), o la necessità di andare a lavorare presto.
Negli stati del sud, dove lo schiavismo era ancora fresco, le condizioni sociali dei negri erano peggiori che nel nord. Yerkes organizzò i suoi dati così finemente da mettere in luce gli effetti anche di questa variazione ambientale: i negri del sud avevano un livello di scolarità inferiore ed un Q.I. medio più basso dei negri degli stati del nord. Quale dimostrazione migliore... (che il Q.I. sia un riflesso delle condizioni sociali e culturali ? Ma no, cosa andate a pensare) ...che solo i negri più intelligenti erano stati così in gamba da trasferirsi al nord ?
Un paragrafo che considererei degno di ammirazione, se non fosse per le assurde conclusioni, mette in relazione i valori di Q.I. con i sintomi di alcune malattie; in particolare, malattie legate a condizioni di povertà, sovraffollamento e condizioni sociali difficili, risultarono correlate con valori di Q.I. più bassi rispetto ai non ammalati (in parallelo, sia tra i bianchi che tra i neri). Yerkes è granitico: "Una bassa capacità [intellettiva] innata può determinare tali condizioni di vita da risaltare in un'infezione da anchilostomi." (Gli anchilostomi sono vermi parassiti intestinali: erano detti "vermi dei minatori", non è difficile immaginare le precarie condizioni igieniche all'interno dei pozzi).
Per quanto riguarda gli immigrati, i dati organizzati per paese di origine erano davvero perfetti: i nordeuropei avevano un Q.I. più alto di slavi ed europei meridionali (2 anni di età mentale di differenza media); insorgeva però una fastidiosa difficoltà: l'ondata migratoria di teutonici e scandinavi si era esaurita qualche decennio prima (dopo la metà del XIX secolo era giunta in Europa la peronospora della patata, che aveva provocato carestie disastrose nei paesi in cui questa coltura era la base dell'alimentazione), mentre l'immigrazione di italiani e slavi era nel suo picco massimo in quell'inizio di XX secolo. Ora, il fastidio consisteva nel fatto che emergeva anche un costante aumento del valore di Q.I. degli immigrati in relazione agli anni di permanenza negli Stati Uniti. Le tabulazioni di Yerkes dimostrano che 10 - 15 anni in più di residenza producono un aumento del Q.I. che supera largamente quei fatidici 2 anni, mandando così a monte la comoda e confortante spiegazione razziale. Ecco l'evidenza che il test, così com'era concepito, misurava effettivamente anche la familiarità con le abitudini e gli usi americani.
Ma ormai dovremmo sapere che Yerkes non era tipo da scomporsi: la correlazione con il tempo di permanenza era per lui un artefatto genetico, dato che i nordici superiori erano immigrati prima e i meridionali inferiori erano la massa di più recente acquisizione (trascurando che le differenze erano grossomodo costanti per fasce di 5 anni, le più recenti delle quali erano comunque caratterizzate da immigrazione pressochè esclusivamente meridionale e slava). Ci pensò poi Brigham, nel suo sunto, a lanciare l'allarme: non solo gli Stati Uniti accoglievano la feccia dell'Europa, ma questa si stava presentando in ondate di immigrati di anno in anno sempre più stupidi !

Il clima politico di quegli anni era propizio, e la propaganda battè la grancassa. Per dare un'idea dell'aria che si respirava, nel 1921 si concluse con la sentenza di condanna il processo-farsa a Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, che presero poi la scossa nel 1927.
I dati militari di Yerkes furono decisivi (nel dibattito al Congresso tutti i relatori li citarono) per l'approvazione dell'Immigration Restriction Act del 1924, che fissava quote massime di immigrazione ad un 2 % annuo per ciascuna nazionalità presente negli Stati Uniti in riferimento al censimento 1890. Perchè prendere come parametro i dati di trent'anni prima ? L'abbiamo detto: il 1890 fu lo spartiacque tra l'immigrazione nordica e quella meridionale e slava, e quindi quelle quote permettevano di restringere in particolare l'afflusso degli indesiderabili (credo che si dicesse "popoli mentalmente non idonei").
Eppure i fatti che dimostravano l'inconsistenza delle asserzioni di Yerkes erano accessibili a tutti, seppelliti in una monografia di 800 pagine che nessun uomo politico lesse mai.

Non abbiamo ancora finito. Goddard finì per trionfare su tutto il fronte. Oltre a tenere le popolazioni meno intelligenti lontane dalle coste americane, il movimento eugenetista ottenne i suoi successi anche all'interno. Tra il 1907 e gli anni '30 più di trenta stati degli U.S.A. adottarono leggi che prevedevano la sterilizzazione obbligata per le persone affette da varie forme di ritardo mentale e vari altri difetti "ereditari", che in alcuni Stati comprendevano l'alcolismo e la tossicodipendenza, in altri anche la cecità e la sordità. Ma le raccomandazioni inascoltate dell'Eugenics Record Office si spingevano ben più in là, includendo "... gli inetti, i senzatetto, gli orfani, i vagabondi e gli indigenti."
Vorrei far notare come non vengano immaginati provvedimenti per limitare la riproduzione dei negri, per i quali ci si limita alla segregazione in scuole diverse, in locali pubblici diversi, in autobus diversi da quelli dei bianchi: la manodopera da poter sfruttare è troppo redditizia per pensare a farla diminuire di numero...
Le leggi eugenetiste americane furono continuamente messe in discussione e in molti stati non vennero messe realmente in pratica. California e Virginia le applicarono invece con grande zelo; riserverò a questo il capitolo finale di questa lunga saga, tra qualche settimana. Per quanto questa affermazione possa risultare urticante per alcuni, io considero sia l'Immigration Restriction Act del 1924 che le leggi eugenetiche statali degli U.S.A. una premessa culturale fondamentale per quel che avvenne in Germania poco più tardi; per non parlare delle disposizioni dell'Eugenics Record Office che furono acquisite esplicitamente nell'Erbgesundheitsrecht nazista (375000 sterilizzazioni forzate in Germania).

E a proposito di nazismo, la restrizione all'immigrazione negli U.S.A. non ebbe solo un ruolo nella creazione di un certo clima culturale: il suo effetto di rimbalzo fu ben più diretto e drammatico quando tanti ebrei tentarono di fuggire dall'Italia, dall'Ungheria, dalla Polonia... e trovarono la strada sbarrata verso gli Stati Uniti dalle quote contingentate particolarmente ridotte per questi paesi. Molti di loro non ebbero nessun altro posto dove poter andare, e furono costretti a restare nei luoghi di origine.
Sappiamo che fine fecero.

venerdì 24 settembre 2010

Meno Libro, Più Moschetto


Quando due cervelli di prim'ordine come quelli di Maria Stella Gelmini e di Ignazio La Russa uniscono i loro sforzi, magari assieme ad un chilo di carciofi freschi, non c'è mai da rimanere delusi. Beata Ignoranza ed Olio Di Ricino hanno siglato il progetto formativo "Allenati per la vita" che porterà un centinaio di militari in congedo nelle scuole della Lombardia (ma Piemonte e Veneto sono pronte nella scia: se nell'aria c'è odore di idiozia, certe regioni sono attratte irresistibilmente: è un istinto) a tenere corsi grazie ai quali i ragazzi delle scuole superiori potranno ottenere crediti formativi.
I corsi riguarderanno temi come "cultura militare" (sì, in retorica si chiama ossimoro, come "vittoriosa sconfitta" o "secca umidità"), orientamento, difesa nucleare, batteriologica e chimica, esercitazioni di tiro (con arco e pistole ad aria compressa); il tenente Paolo Montali sottolinea un "uso delle armi limitato". Bontà sua.
E' prevista anche una "gara finale" tra pattuglie di studenti, e chi vuole potrà indossare orgoglioso una tuta mimetica dell'Esercito. Insomma i ragazzi potranno divertirsi da matti a sentirsi in guerra.
Certo, andare in giro nelle scuole con l'elmetto tutto sommato è utile, con i soffitti che potrebbero cascare da un momento all'altro: ma mandiamo a spasso quelli che insegnano Scienze, Matematica, Filosofia e poi portiamo nelle scuole le pistole (certo, a costo zero, i militari insegnano la guerra per volontariato, spirito di servizio, filantropia: la guerra è filantropica), per avvicinare i giovani ai valori (dicono un Generale, tal de Milato, e Giuseppe Colosio, il dirigente scolastico regionale della Lombardia che non ha notato nulla di strano nella scuola di Adro).
"Valori" è la parola chiave. Quali valori ? Il tenente Montali si sbilancia: "Ordine, Disciplina, Gerarchia".
Questa iniziativa dovrebbe, secondo i geniali ideatori, arginare anche il fenomeno del bullismo; scrive Alessandro Robecchi su il manifesto di oggi: "Sai mamma, stamattina a scuola c'era un bullo, ma io l'ho fatto secco". Molto educativo". E ce lo insegnano i militari come eliminare il bullismo ? E da quando ? Nelle caserme, di fenomeni come il nonnismo, tollerati se non apprezzati, nessuno ha mai sentito parlare ?
Qualche anno fa la deriva era iniziata quando l'allora ministro Donna Letizia Moratti aveva introdotto arbitrariamente in ruolo qualche migliaio di insegnanti di religione privi di qualsiasi titolo di cui oggi, se anche rinsavissimo di colpo, non potremmo più sbarazzarci.
Una volta imposto il "Credere" non si poteva dubitare che "Obbedire" e "Combattere" non avrebbero tardato molto.
Perchè faticare per educare dei cittadini quando si possono comodamente avere dei soldati semplici ?
Andate pure a fare ricreazione, ragazzi, ma con il passo dell'oca.

domenica 19 settembre 2010

Uso e abuso dei test Q.I. - parte 3 - Degenerazione

Il test del Quoziente di Intelligenza nacque in Francia, ma trovò la sua più estesa applicazione negli Stati Uniti.
Una delle prime documentazioni di somministrazione del test in America è quella riferita nel 1912 da H.H. Goddard ad Ellis Island, il luogo nel porto di New York dove i transatlantici vomitavano migliaia di immigrati cenciosi provenienti dall'Europa. Goddard scelse un giovane, identificato a vista come possibile moron, e lo sottopose al test di Binet attraverso l'interprete, un immigrato di più vecchia data (purtroppo qui ci sfugge la succosa informazione sulla nazionalità di origine, ma ci rifaremo in seguito). Il candidato ottenne un'età mentale di 8 anni nella scala Binet. L'interprete osservò che neanche lui sarebbe stato in grado di eseguire il test appena sceso dalla nave, scrisse Goddard: "...e sembrava pensare che il test fosse ingiusto. Ma lo convincemmo che il ragazzo era deficiente."
In quale contesto e su quale substrato culturale si svolgevano questi esercizi, che ci appaiono così lontani dalle intenzioni originarie ?
Come si è detto nel capitolo precedente, il paradigma culturale dell'epoca era la riduzione di tutta la variazione presente in natura a determinanti che rispondesseno alle fresche fresche leggi di Mendel, come il colore dei fiori o la grinzosità dei semi di pisello.
In questo contesto, Goddard mise a segno in un colpo solo tutti gli errori che Binet aveva tanto temuto, e fatto di tutto per evitare: assunse che il test fosse la misura di un'entità unica e reale, l'intelligenza; che questa fosse una funzione corporea, con sede nella testa, misurabile come si misura un peso o una resistenza elettrica, ed esprimibile con un numero; e che ogni individuo ne disponesse di una quantità fissa e immutabile, determinata geneticamente. Ma non è ancora tombola: manca un punto fondamentale.
I punti di partenza di Goddard furono essenzialmente due, ed entrambi errati: 1) l'intelligenza misurata era variabile tra gli individui, e quindi la variazione doveva per forza essere ereditaria; 2) egli osservò che le condizioni patologiche di ritardo mentale erano ereditarie (il che, tra l'altro, non è vero: le forme patologiche di deficienza mentale sono varie e molteplici; alcune sono ereditarie ed altre no: ad esempio di origine traumatica o dovute ad accidenti di vario genere che capitano nel corso dello sviluppo), e quindi dedusse che anche le differenze di intelligenza tra persone sane fossero ereditabili allo stesso modo (ricordate l'errore di categoria sulle cause di variazione tra ed entro su cui ho tanto insistito nel precedente capitolo ? Eccoci qua). Poste queste premesse, la conclusione è semplice: se si vuole evitare che l'intelligenza complessiva del popolo americano si abbassi, bisogna impedire ai deboli di mente di procreare. Goddard non disdegnava le sterilizzazioni di massa come soluzione, ma temeva che l'opinione pubblica non fosse ancora pronta ad accettare simili mutilazioni; come ripiego momentaneo, il confinamento in appositi istituti appariva la soluzione migliore. Da qui in avanti, il test di Binet non venne più usato per identificare coloro che avevano bisogno di un aiuto per progredire, ma soltanto per identificare allo scopo di escludere, respingere, segregare. Adesso sì che la tombola è completa.
A questo punto può apparire chiaro perchè Goddard non fosse troppo preoccupato della deficienza mentale conclamata, patologica, facilmente riconoscibile; la sua ossessione era il "debole di mente", il moron (termine coniato da lui), colui che si collocava appena sotto la soglia dei 12 anni nella scala Binet, e che era in grado di svolgere compiti nella società: il tipo border line che, se non identificato, poteva sfuggire e proliferare pericolosamente, minacciando la salute mentale del Paese (secondo Goddard il moron era omozigote recessivo per il gene dell'intelligenza da lui immaginato; e quelli con intelligenza bassa ma normale eterozigoti: tutto facile).
Il programma eugenetico di Goddard non poteva poi trascurare il problema dell'afflusso di nuovi moron per immigrazione (e manco a dirlo trovò ben presto sponde favorevoli in campo politico): ecco il senso della sua presenza ad Ellis Island.
Quei primi assaggi del 1912 furono la premessa per il suo esperimento più celebre:
ottenuti ben presto adeguati finanziamenti, nel 1913 inviò due sue assistenti che trascorsero alcuni mesi ad Ellis Island per sottoporre sistematicamente al test gli immigranti appena sbarcati, per quattro etnie critiche nei flussi migratori. Goddard preferiva che fossero donne a somministrare le prove perchè, secondo lui, avevano una particolare sensibilità nell'individuare a vista il debole di mente (un filino di pregiudizio voi lo notate ?). Pietosamente, non ci addentreremo nel metodo di campionamento, ma i risultati, per tutti e quattro i gruppi scelti per l'esame, furono stupefacenti: l' 83 % degli ebrei, l' 80 % degli ungheresi, il 79 % degli italiani e l' 87 % dei russi erano moron.
E chi l'avrebbe mai detto che quattro nazionalità su quattro fossero composte per 4/5 da deficienti ?
I gruppi politici favorevoli a limitazioni dell'immigrazione esultarono soprattutto per il risultato degli ebrei, sgradevoli ma, secondo il luogo comune, intelligenti; c'era ora un appiglio per precludere l'accesso anche a questo gruppo fastidioso. Goddard, per la verità, si lasciò sfiorare per un attimo dal dubbio che forse c'era qualcosa che non andava nel metodo; poi si scrollò di dosso le perplessità ed accettò i risultati come scientificamente validi.
In verità, si capì poi che gli aggiustamenti che aveva apportato al test di Binet per adattarlo ai suoi scopi lo portavano a sottostimare notevolmente l'età mentale degli esaminati. Ma ciò che sconvolge di più nel "rigore" dell'esperimento, è l'aperta sfida al buon senso: Binet somministrava il suo test ai ragazzi a scuola; nè Goddard, nè le sue gentili collaboratrici dubitarono davvero mai che una persona che ha appena attraversato l'Oceano passando settimane nella stiva di una nave sovraffollata, impaurita, arrivata in un paese nuovo, probabilmente senza aver mai tenuto una matita in mano, possa andare a segno quando una gentile signora gli chiede di disegnare a memoria su un foglio una figura mostratagli poco prima ? O di dire 60 parole qualsiasi nella propria lingua ? O anche solo di dire che giorno è ? (Curiosamente, non furono mai sottoposti a test i passeggeri dei ponti di prima classe).
Ci rimane ancora un velo di curiosità sullo scopo per il quale le donne mettano a frutto, nella loro vita extrascientifica, la loro straordinaria abilità nell'individuare a vista il "debole di mente"; ma temo che sia una di quelle cose che noi uomini faremmo meglio a non domandarci.

Da Goddard in avanti, la via è tutta in discesa: Lewis Terman, dell'Università di Stanford, ampliò il test di Binet, portando gli esercizi da 54 a 90 ed estendendolo agli "adulti superiori"; ed introdusse la correzione per l'età in modo da standardizzare i punteggi con media di 100 e deviazione standard 15; lo Stanford-Binet divenne il riferimento per tutte le edizioni successive dei test Q.I. Inoltre propagandò attivamente l'applicazione sistematica del test a tutti gli studenti. Con trenta minuti e cinque test si poteva finalmente marchiare il destino educativo di un bambino per tutta la vita.
La visione ideale di Terman era un "nuovo" ordine sociale con assegnazione di mansioni lavorative rigidamente affidata al valore intellettivo di ciascuno, e quindi una definizione (o piuttosto una conferma) delle classi sociali su basi oggettive e scientifiche (e, ça va sans dir, ereditarie). Il suo innatismo poggiava esattamente sugli stessi errori di Goddard: necessità non dimostrata dell'ereditabilità dell'intelligenza; ed estrapolazione non valida dalle cause genetiche da casi di ritardo mentale patologico alla variazione ordinaria. L'ampia estensione dei dati raccolti da Terman, da una parte segnò un punto a favore delle donne: "sorprendentemente", ragazze cresciute nello stesso ambiente sociale e culturale dei loro fratelli, ottenevano risultati identici a quelli dei maschi; posto che fino ad allora il tema della discussione antropologica era stato se le donne andassero collocate un gradino sopra o un gradino sotto rispetto ai negri, Terman biasimò lo spreco di talento che la società stava perpetrando, relegando la sua parte femminile a ruoli secondari e sottovalutati; dall'altra, non altrettanta fortuna ebbereo negri e ispanici, i cui valori medi di Q.I. risultarono più bassi rispetto agli americani bianchi. Non bisogna sforzarsi per intuire quale potesse esserne la spiegazione: intelligenza innata ereditaria ineluttabilmente inferiore. Possiamo forse pensare che si prendessero in considerazione le differenze nelle condizioni sociali, le possibilità di accesso a scuola e cultura, la prosperità delle famiglie ?
[Per dare un'idea della propensione generale a tenere conto delle condizioni ambientali da parte degli scienziati dell'epoca, vale la pena di raccontare un esempio che con il Q.I. non ha nulla a che fare: agli albori del '900, il Governo degli Stati Uniti decise di finanziare uno studio per individuare le cause della pellagra, una grave malattia che oggi sappiamo essere una carenza di niacina (una vitamina del gruppo B), dovuta quindi a scarsità di cibi freschi: era molto diffusa anche in Italia tra le popolazioni che avevano la polenta come alimento pressochè esclusivo. Ebbene, dopo un giro di indagini nel sud degli Stati Uniti, la commissione medica concluse che la pellagra doveva essere una malattia ereditaria, poichè si ripresentava con una certa regolarità tra membri delle stesse famiglie: il dettaglio che anche povertà e malnutrizione fossero caratteristiche condivise all'interno delle famiglie sfuggì del tutto all'ossevazione].
In verità, proprio per la vastità dei dati raccolti, Terman dovette fare i conti anche con qualche dettaglio fastidioso: ad esempio, fu esaminato anche un campione di venti ragazzi cresciuti in un orfanotrofio, i cui punteggi di Q.I. erano decisamente più bassi della media. Forse che la situazione ambientale di essere cresciuti in assenza dei genitori...? Ma no, un buon innatista non si arrende per così poco: "...l'orfanotrofio in questione è ragionevolmente buono e offre un ambiente che è stimolante per un normale sviluppo mentale come la vita familiare che si conduce nelle classi medie." E quindi: "La maggior parte, sebbene non tutti per ammissione generale, sono bambini di classi sociali inferiori." (1916) E pertanto portano le tare ereditarie che hanno confinato i loro antenati ad un basso livello sociale (il tutto per pura congettura e senza aver minimamente verificato).

E se tutto ciò vi pare orribile, sappiate che il peggio deve ancora venire.

giovedì 16 settembre 2010

1974, esterno giorno. Nitido.

Ho recuperato da qualche parte nella rete una breve intervista a Pier Paolo Pasolini che ho visto qualche giorno fa tra le chicche che ogni tanto trasmette Rai Extra.
E' del 1974, ma le considerazioni finali sull'appiattimento culturale dell'Italia sarebbero più attuali oggi che allora.
Il fatto è che Pasolini si dimostra un inguaribile ottimista, affermando che quando ce ne accorgeremo sarà troppo tardi. L'annichilimento culturale del paese si è già completato da un pezzo e sembra che nessuno si sia mai accorto di nulla.

Bello e sfortunato


Hippocampus zosterae è la più piccola specie vivente di cavalluccio marino, raggiungendo una lunghezza massima di 2,5 cm; vive solo nel Golfo del Messico, ed è probabilmente la specie più fortemente minacciata di estinzione a causa del gigantesco sversamento di petrolio, poichè ha un'areale di distribuzione limitato, scarsissime capacità di migrazione, vive prevalentemente sulle alghe galleggianti, quindi vicino alla superficie, dove si stratificano sia il petrolio, sia i tensioattivi usati per disperderlo, sia il fuoco con cui si è tentato di ridurre l'inquinamento. Come se non bastasse, il disastro della piattaforma della BP è avvenuto nel pieno della stagione riproduttiva, e per di più H. zosterae è rigidamente monogamo, quindi basta che muoia un elemento della coppia perchè anche l'altro non si riproduca più. Lo stiamo perdendo.

domenica 12 settembre 2010

Uso e abuso dei test Q.I. - parte 2 - Eredità

La degenerazione nell'uso del Quoziente di Intelligenza successiva alla morte di Binet nel 1911, poggia in modo cruciale sul concetto di ereditarietà ed innatismo, quindi penso che sia necessario fare una specie di discorso propedeutico per chiarirci le idee ed avere gli strumenti per un esame critico di ciò che andremo a raccontare nei capitoli successivi.
Giusto nel 1900 vennero scoperti i cromosomi, ed anche ri-scoperti e portati all'attenzione i lavori di Gregor Mendel sugli incroci di piselli odorosi (che penso tutti conoscerete ormai a memoria), pubblicati qualche decennio prima nell'indifferenza generale: la genetica è nata, ma finchè è nella culla, essa non ha ancora le idee molto chiare: i primi decenni del '900 furono quelli della clamorosa fiducia nelle rigorose leggi dell'ereditarietà, e si riteneva che tutta la variazione osservabile in natura fosse riconducibile alla semplice segregazione di determinanti mendeliani.
Si noti anche, come curiosità a margine, che le leggi di Mendel furono prese inizialmente come una secca smentita del darwinismo, poichè "apparve chiaro" che dovevano essere improvvise mutazioni a segregazione mendeliana a determinare cambiamenti evolutivi istantanei, e non la lenta, costante e graduale azione della selezione naturale.
In questo clima di confuso e frenetico entusiasmo, non deve stupire se H.H. Goddard ritenne di avere colto, nel 1914, nelle genealogie delle famiglie da lui esaminate, un gene dell'intelligenza (sic !), naturalmente a segregazione mendeliana semplice, il cui variante recessivo era il "debole di mente" che lui stesso aveva battezzato moron, l'ossessione di tutta la sua vita.
Come dire: se l'unico strumento che sai usare è un martello, tutto ti sembrerà un chiodo.
La cieca fiducia nell'innatismo e nella determinazione strettamente genetica di tutta la variazione umana, compreso lo status culturale e sociale, conobbe (almeno negli Stati Uniti) un momento di parziale declino negli anni 30, con la Grande Depressione. Quando anche i professori universitari diventavano poveri e si trovavano a fare la coda per il pane, essi divenivano improvvisamente restii ad affermare che l'essere poveri fosse il risultato di innata stupidità determinata geneticamente.
Sic transit gloria mundi.

Cominciamo a mettere un pò di ordine.
Se io sono di gruppo sanguigno A, non esiste nessuna condizione ambientale che possa farmi diventare di gruppo B. I gruppi sanguigni sono determinati geneticamente e sono immodificabili. Ma un'espressione dei caratteri così univoca ed invariante è l'eccezione piuttosto che la regola. Sappiamo che in realtà le condizioni che incontriamo nella nostra infanzia, la nostra alimentazione, le nostre attività e tutto ciò che complessivamente chiamiamo il nostro ambiente, possono avere un ruolo più o meno pesante nel definire la nostra struttura corporea o, tanto per dire, il nostro tasso di colesterolo, sebbene essi siano soggetti a determinanti genetici. Tuttavia, anche affermazioni del tipo: "il peso corporeo è determinato per il 40 % dai geni, e per il 60 % dall'ambiente" sono semplicistiche e del tutto inadeguate. In primo luogo, in molti casi alcuni genotipi sono più suscettibili di altri alle variazioni dell'ambiente; e vicecersa, ci sono condizioni ambientali che appiattiscono le differenze fra genotipi, e condizioni che invece le esaltano. Quindi, in un certo senso, l'incidenza dell'effetto dell'ambiente è determinata dai geni, e quella del genotipo è determinata dalle condizioni ambientali: si tratta di un'interazione la cui complessità è in realtà irriducibile, e geni ed ambiente non sono trattabili come cause separate dell'espressione di ciascun carattere.
Inoltre, sebbene i miei vecchi compagni di scuola mi trovino identico ai bei tempi (fingendo benevolmente di non notare gli oltre 10 kg di me che a scuola non sono mai andati), quasi nessuna delle mie molecole di oggi è la stessa di quando ero sui banchi. Noi siamo in continua trasformazione e l'ambiente modifica nel tempo la sua interazione con i nostri geni; e lo stesso tipo di variazione nelle condizioni ambientali può produrre effetti molto diversi se si verifica in momenti diversi della nostra esistenza. La definizione della nostra individualità comprende anche una componente storica.
Le cose si ingarbugliano ulteriormente se si tenta di definire l'ereditarietà di tratti in qualche modo legati al comportamento. I bambini imparano molto per imitazione, ed i modelli che hanno più costantemente a portata di mano sono i genitori, o i nonni. Abbiamo quindi un'ulteriore componente ambientale e non genetica, che però, quando andrò a studiare la variazione di quel carattere, mi risulterà in effetti ereditaria, complicandomi maledettamente le cose.

Insisto molto su questi punti per due motivi: il primo è che il QI è una caratteristca estremamente sfuggente, essendo una misura di un qualche cosa che non si sa bene cosa sia, e probabilmente rappresenta una miscellanea di attitudini diverse, non si sa come e quanto correlate e/o interagenti fra di loro; quindi una stima della sua ereditabilità richiederebbe una prudenza estrema nella valutazione di tutte le variabili in gioco, in particolare l'eredità familiare culturale non genetica; e vedremo invece con quanta superficialità la questione sia stata affrontata nell'ultimo secolo. Il secondo è che dovremmo tenere sempre bene in mente che genetico non significa affatto immutabile o fissato una volta per tutte. Ci sono milioni di persone che hanno difetti della vista determinati geneticamente e vedono correttamente attraverso un paio di semplici lenti, così come altrettante persone correggono con appositi esercizi ginnici piccole disproporzioni del proprio corpo o imperfezioni della propria colonna vertebrale, tanto per fare qualche esempio a casaccio.

C'è però un ultimo argomento ancora da affrontare, che è fondamentale per le teorie razziali del QI (poi giuro che la smetto). Prendo pari pari un esempio di Gould.
Supponiamo che io mi metta a misurare la statura di due popolazioni, diciamo di una provincia europea e di un gruppo di villaggi poveri dell'Africa centrale. Diciamo che nella prima popolazione troverò una statura media di 1,75 m, e nella seconda di 1,65 m. Naturalmente all'interno di ciascuna popolazione ci sarà diversità di statura, presumibilmente con una elevata frequenza di individui vicini alla media e frequenze via via decrescenti di soggetti un pò più alti o un pò più bassi, fino all'estrema rarità di soggetti altissimi o bassissimi; se vado a controllare quanto la statura è ereditabile, troverò che genitori alti tenderanno ad avere figli alti e genitori bassi tenderanno ad avere figli bassi; e probabilmente troverò anche che il tipo di relazione che lega la statura dei genitori con quella dei figli è grossomodo la stessa nelle due popolazioni.
Avrò allora stabilito (sì, ho fatto il furbo: lo sapevamo già) che la statura è un carattere ereditario con forte determinazione genetica (oltre il 90 %). Quindi posso dedurre che i 10 cm di differenza nella statura media delle due popolazioni siano determinati geneticamente ?
La risposta è no.
Se potessi trasferire le due popolazioni l'una nell'ambiente dell'altra, può darsi che gli abitanti dei villaggi poveri, magari con un'alimentazione più completa, raggiungano, nella generazione successiva, la stessa statura degli europei; oppure può darsi che diventino ancora più alti; oppure la differenza attuale potrebbe mantenersi inalterata. Molto semplicemente: non lo so. Conoscere le cause della variazione entro gruppi non mi permette di fare nessuna assunzione sulle cause della variazione tra gruppi.
La qualità principale di un esempio dovrebbe essere la semplicità, e quindi il caso presentato dovrebbe essere risultato lampante; tuttavia, si presentano spesso nella pratica schemi di variazione più complessi che possono rendere facile scivolare su quello che appare intuitivo a prima vista, inducendoci ad errori logici grossolani.
Però chiunque abbia un pò di pratica nella sperimentazione adopera quasi quotidianamente questo criterio fondamentale di distinzione della variazione tra ed entro gruppi (spesso in modo talmente routinario ed automatico da non rifletterci neanche troppo su), salvo utilizzarlo nella prospettiva inversa.
Tenterò ora l'impresa di fare un semplice discorsino di statistica senza utilizzare neanche una formula matematica.
Supponiamo che io stia per mettere in commercio la nuovissima crema anticellulite Leggiadry, a base di Olio di Fegato di Libellula. Con una presentazione così, sono già certo di avere code, ressa e sgomitamenti davanti a tutti i cosmeticivendoli, ma immaginiamo che io sia un produttore inusitatamente onesto e mi prenda lo scrupolo non necessario di verificare se funziona davvero.
Una volta stabilita una scala di misura dei sintomi di cellulite, in modo da poterli esprimere con un numero, prenderò due campioni sufficientemente ampi di persone, uno dei quali sarà stato trattato con il mio prodotto, e l'altro no (gruppo di controllo). Se trovo una certa differenza nella media dei sintomi fra i due gruppi, come faccio a stabilire se essa è insignificante, casuale, o dovuta all'efficacia dell'applicazione ?
In genere il sistema utilizzato si basa sull'analisi della varianza: si calcola la variazione esistente all'interno dei gruppi, e la si confronta con la differenza tra i gruppi. Se quest'ultima non si differenzia troppo dalla variazione entro, non posso sostenere di avere dimostrato che la mia crema funzioni.
Vale a dire: in questo caso, sono io che introduco artificialmente una causa di variazione tra gruppi; e solo se la variazione tra gruppi risulta chiaramente una cosa diversa dalla variazione entro, la mia suddivisione in gruppi sarà legittima. Altrimenti i gruppi (trattato e non) rimarranno indistinguibili, cioè Leggiadry non avrà funzionato (ma tanto la venderò lo stesso).
E' curioso che lo stesso principio (le cause di variazione tra gruppi sono diverse da quelle entro gruppi) venga dato per scontato quando viene applicato quasi quotidianamente a fini sperimentali, e poi diventi così inafferrabile ed invisibile quando si elaborano teorie razziali: ma vedremo che si tratta spesso di cecità volontaria.
E con questi appunti nel taschino, siamo finalmente pronti per affrontare Goddard e Terman, Jensen e Murray...

venerdì 10 settembre 2010

Core de mamma


Interrompo per un attimo la saga dei test del Quoziente di Intelligenza, che riprenderà prestissimo, a favore dell'attualità.
Si ha una sensazione di strana sorpresa quando idee che si sono rimuginate spesso e senza particolare costrutto, nè intenzioni costruttive, si ritrovano come oggetto di ricerche scientifiche.
Avevo sempre avuto la sensazione che le donne tendessero ad assommare al loro proverbiale altruismo verso i membri della propria famiglia, una certa indifferenza, per non dire cinismo, nei confronti di tutto il resto del mondo qualificabile come 'estraneo', mentre gli uomini mi paiono più propensi a tenere conto di tutto l'insieme, se non dell'umanità, almeno della loro collettività in senso più generale; ed avevo anche idea che questa differenza fosse più o meno universale, e non legata al particolare substrato della cultura italica.
Io l'ho sempre considerata come una dimostrazione che nessuno di noi ha capacità illimitate: lo tsunami dell'amore materno comporterà aree di siccità da qualche altra parte, come una sorta di compensazione; per i figli ci si butta nel fuoco, ai vicini si presta il sale, quelli di un altro quartiere possono andare a morire ammazzati in blocco (più o meno: si tratta ovviamente di generalizzazioni che non possono essere altro che molto approssimative). Non mi sono mai interrogato troppo sulle possibili cause di tale (presunto) menefreghismo sociale delle gentili signore, ma sarei stato incline ad identificarle nella differente educazione che hanno bambini e bambine.

Ora scopro che qualcuno ha studiato le origini del fenomeno e quindi questa differenza nell'identificazione di 'amici' e 'indifferenti' tra uomini e donne sembra reale (o quantomeno c'è un paio di altri tizi che la vede come me).
Stando ad un articolo recente pubblicato sulla rivista Evolution, di cui, al solito, è liberamente leggibile solo il riassunto, e quindi bisogna fidarsi un pò delle recensioni, saremmo di fronte nientemeno che al solito gene egoista in uno dei suoi più riusciti travestimenti.
Si tratterebbe di "imprinting genetico", un complesso meccanismo di regolazione per cui, a seconda del nostro sesso, siamo in grado (ovviamente inconsapevolmente) di attivare preferenzialmente la nostra copia di origine paterna o materna dello stesso gene. E le donne sarebbero portatrici di geni che inducono comportamenti egoistici nei confronti degli estranei della propria comunità, mentre gli uomini sarebbero più portati ad agire nell'interesse collettivo: dentro ciascuno di noi queste tendenze sarebbero in costante conflitto, ma con prevalenza della tendenza materna nelle femmine e di quella paterna nei maschi.
Ma perchè mai si sarebbero sviluppate queste differenze ?
Perchè, storicamente, le donne hanno avuto una maggiore mobilità sociale rispetto agli uomini (in senso orizzontale, ovviamente, giammai verticale: non sia mai detto che una donna possa diventare capo - villaggio): a seguito del matrimonio, erano di solito le donne a spostarsi da un gruppo familiare all'altro, da un clan all'altro, da una tribù all'altra; e quindi si trovavano a vivere un una comunità con la quale non avevano legami di parentela (e quindi l'astuto gene egoista le induce a concentrare gli slanci altruistici solo verso la ristretta cerchia utilitaria dei parenti e vicini più stretti, in primis ovviamente i figli). Viceversa gli uomini, spostandosi meno da un gruppo all'altro, tendevano ad essere, dopo un pò di generazioni, più 'imparentati' un pò con tutti e quindi ad avere copie dei propri geni sparse qua e là nella comunità.

Sulle reali cause genetiche vorrei vederci più chiaro (ormai avrete capito che di questi determinismi rigidi non mi fido un gran che); però la spiegazione storica mi pare affascinante.
E soprattutto è stuzzicante l'idea di avere sempre appollaiati sulle spalle, da una parte l'angioletto maschile che ti invoglia a fare il bene della collettività, e dall'altra il diavoletto femminile che ti induce ad infischiartene.

Stella


Marì - Stellina nostra che magari fossi nei cieli, che il Signore ti richiami a sè al più presto, ha annunciato oggi di volere eliminare una annosa piaga sociale: i precari.
Ah, eterna confusione tra sostanza (sostantivo) ed apparenza, attribuzione (aggettivo); tra essere ed apparire; tra causa ed effetto; tra faccia e specchio; tra essere un Ministro o una che passa di lì per caso.
La piaga sociale non sono i precari, è la precarietà. E adesso chi glie lo spiega ? Più difficile: chi glie lo fa capire ?
Bondi in versi ?
Capezzone con la logica ?
Marcegaglia con la pratica ?
Bonanni e Angeletti dietro lauto compenso ?
Il Partito Democratico (sempre coerente con se stesso) con l'assenza ?

sabato 4 settembre 2010

Uso e abuso dei test Q.I. - parte 1 - Genesi

L'avere nominato il professor Richard Lynn (Università dell'Ulster: si occupa principalmente di Quoziente di Intelligenza e differenze fra razze. Ha pubblicato nel 2002 QI e ricchezza delle nazioni, ed ha fatto un pò di rumore anche in Italia all'inizio di quest'anno pubblicando uno studio dal quale risultava che il QI nell'Italia meridionale è più basso che nel nord, e la causa era attribuita alla mescolanza con razze meno intelligenti, quali arabi ed africani: tanto per dare un'idea del personaggio) in un post precedente, mi ha fornito lo spunto per riprendere in mano Intelligenza e pregiudizio, senz'altro il mio libro preferito di sempre, e potere apprezzare ancora, a distanza di anni, il valore e la forza immutati delle argomentazioni di S.J. Gould su determinismo biologico e "razzismo scientifico". Il fatto che quel libro, la cui ultima edizione risale a una quindicina di anni fa, rimanga ancora così vivo ed attuale, nasconde in realtà anche qualcosa di triste e sconfortante: le cicliche ondate di popolarità di pubblicazioni tendenti ad ordinare i gruppi umani secondo una scala di valore, nella quale invariabilmente il posto più alto spetta al gruppo al quale appartiene l'autore della pubblicazione, possono essere affrontate e smontate sempre con le stesse, e del tutto adeguate ed efficaci, armi di logica e conoscenza. Eppure, invariabilmente, esse ritornano tali e quali a distanza di qualche anno. Non alla luce di chissà quali nuovi dati o clamorose svolte innovative, o di perfezionamenti procedurali mai messi in atto prima, ma sempre rimasticando gli stessi concetti e riproponendo sempre gli stessi errori metodologici ed interpretativi; e puntualmente ritornano a fare breccia nell'opinione pubblica.
Gould scrive, nell'introduzione: "Quale argomentazione contro la possibilità di mutamenti sociali potrebbe essere più cinicamente probante dell'affermazione secondo cui l'ordine sociale prestabilito, con alcuni gruppi ai vertici e gli altri in basso, esiste in quanto esatto riflesso delle innate ed immutabili capacità intellettuali degli individui così classificati ?"
Ci armiamo di logica, conoscenza e ragionamento e riusciamo molto agevolmente a spegnere il focolaio (poichè si mostra facilmente, per tornare alla citazione qui sopra, che quelle capacità potrebbero essere innate solo in piccola parte, non essere affatto immutabili, e che il metodo di misura e classificazione è improprio), ma l'incendio tornerà a divampare ancora tra qualche tempo chiamandoci di nuovo all'opera. Nel mio piccolo, non mi stancherò di contribuire a spegnere questi fuochi, ma riusciremo mai a costituire nella nostra società gli anticorpi che possano metterci definitivamente al riparo da queste cicliche eruzioni di pseudoscienza razzista ? Non sarebbe affatto difficile, eppure...
Eppure prevale, in primo luogo nei periodi di crisi, la spinta a conservare egoisticamente i propri privilegi, per quanto minuscoli essi possano essere: perchè dissipare risorse per favorire l'integrazione e tutelare i settori più deboli della società, se questi sono composti da individui intrinsecamente ed irrecuperabilmente peggiori, fatti con cervelli scadenti e geni cattivi ?
Un tempo era compito della Chiesa (e delle religioni in genere) quello di conservare e perpetuare lo status quo sociale: i nobili sono nobili ed i servi della gleba sono servi perchè Dio così vuole, e le fiamme dell'inferno accoglieranno chi volesse tentare di stravolgere l'ordine costituito. E che oggi sia la scienza ad assumersi lo stesso ruolo mi fa veramente cascare le braccia.
Come si vede l'argomento è vasto, e richiederà certamente diversi capitoli. Cominciamo quindi dalle origini.

Poniamo l'inizio della nostra storia al 1904, quando il Ministero della Pubblica Istruzione di Francia incaricò Alfred Binet, direttore del laboratorio di psicologia alla Sorbona, di studiare qualche tecnica per individuare precocemente bambini con difficoltà di apprendimento che potevano avere bisogno di percorsi educativi particolari. Binet aveva praticato la craniometria, scienza principe dell'antropologia ottocentesa, ricavandone frustrazione per l'inconsistenza dei risultati ottenibili e per il peso che il pregiudizio degli sperimentatori poteva avere nell'influenzare i risultati stessi (una volta o l'altra bisognerà parlare degli orrori dell'antropologia del XIX secolo, dai craniometristi a Cesare Lombroso: se ne ricaverà un bestiario persino spassoso - se non ci avesse lasciato una fastidiosa eredità di luoghi comuni che imperversano tuttora -).
Per questo incarico Binet scelse volutamente un approccio pragmatico e strettamente empirico: mise insieme una lunga serie di piccoli problemi, in sequenze di difficoltà crescente, legati a capacità di base come "direzione (ordinare), comprensione, capacità inventiva, critica (correggere)...", escludendo esplicitamente dal test tutte le capacità apprese, come la lettura o la scrittura. I livelli crescenti di difficoltà corrispondevano ad età teoriche alle quali un bambino normale dovrebbe essere in grado di risolvere quel tipo di problemi.
La serie di test permetteva di ottenere una "età mentale" (il livello oltre il quale il bambino non era più in grado di andare avanti a risolvere quesiti), che Binet sottraeva dalla reale età cronologica. Fu il tedesco Stern, nel 1912, che apportò la giusta correzione di dividere, e non sottrarre, l'età mentale per quella cronologica, varando il quoziente di intelligenza (che venne poi moltiplicato per 100 per eliminare i decimali, e diventò in realtà, a rigore di termini, una percentuale).
Il senso del lavoro di Binet fu quello di mettere insieme il maggior numero e la maggior varietà possibile di esercizi, per avere un'esplorazione ampia delle capacità generali del bambino, ma era ben cosciente che il numerino che otteneva come risultato del test non era espressione di un'entità reale e unitaria, ma solo un riassunto di una varietà di prestazioni diverse, utile solo per le finalità pratiche che il Ministero gli aveva richiesto. Rifiutò sempre in modo chiaro l'identificazione della misura dell'intelligenza con il risultato del suo test: "Parlando propriamente, la scala non permette una misurazione dell'intelligenza, perchè le qualità intellettuali non sono sovrapponibili, e quindi non possono essere misurate come può essere misurata una superficie..." (1905).
Ancor più importante era lo scopo: individuare i bambini con difficoltà per avviarli a percorsi formativi più adatti (ad esempio con esercizi specifici per migliorare le capacità di attenzione, o con la formazione di apposite classi di 15-20 alunni, contro i 60-80 che erano allora frequenti nelle aule scolastiche dei quartieri più poveri); la valutazione era finalizzata al miglioramento, non doveva diventare un'etichettatura dei bambini meno capaci: l'inventore del test dava per scontato che l'intelligenza (qualunque significato avesse) potesse essere migliorata da un'educazione adeguata, e non poteva essere una quantità fissa e innata, e si compiacque dei buoni risultati ottenuti dai suoi corsi speciali. Ma nello stesso tempo Binet stesso fiutò il pericolo del "marchio indelebile" e mise in guardia da insegnanti che avrebbero potuto trovare una buona scusa ber sbarazzarsi dei bambini che creano problemi, o dal test che diventa una di quelle profezie che si auto-avverano, modificando l'atteggiamento dell'insegnante e quindi dirottando il comportamento e i risultati del bambino.
Vedremo nelle prossime puntate che i suoi presagi nefasti non erano affatto infondati.

Principali fonti bibliografiche, per questo e i prossimi post su questo tema:

- Stephen Jay Gould: Intelligenza e pregiudizio. Il Saggiatore, 1996.
- Richard Lewontin: La diversità umana. Zanichelli, 1987.