domenica 12 settembre 2010

Uso e abuso dei test Q.I. - parte 2 - Eredità

La degenerazione nell'uso del Quoziente di Intelligenza successiva alla morte di Binet nel 1911, poggia in modo cruciale sul concetto di ereditarietà ed innatismo, quindi penso che sia necessario fare una specie di discorso propedeutico per chiarirci le idee ed avere gli strumenti per un esame critico di ciò che andremo a raccontare nei capitoli successivi.
Giusto nel 1900 vennero scoperti i cromosomi, ed anche ri-scoperti e portati all'attenzione i lavori di Gregor Mendel sugli incroci di piselli odorosi (che penso tutti conoscerete ormai a memoria), pubblicati qualche decennio prima nell'indifferenza generale: la genetica è nata, ma finchè è nella culla, essa non ha ancora le idee molto chiare: i primi decenni del '900 furono quelli della clamorosa fiducia nelle rigorose leggi dell'ereditarietà, e si riteneva che tutta la variazione osservabile in natura fosse riconducibile alla semplice segregazione di determinanti mendeliani.
Si noti anche, come curiosità a margine, che le leggi di Mendel furono prese inizialmente come una secca smentita del darwinismo, poichè "apparve chiaro" che dovevano essere improvvise mutazioni a segregazione mendeliana a determinare cambiamenti evolutivi istantanei, e non la lenta, costante e graduale azione della selezione naturale.
In questo clima di confuso e frenetico entusiasmo, non deve stupire se H.H. Goddard ritenne di avere colto, nel 1914, nelle genealogie delle famiglie da lui esaminate, un gene dell'intelligenza (sic !), naturalmente a segregazione mendeliana semplice, il cui variante recessivo era il "debole di mente" che lui stesso aveva battezzato moron, l'ossessione di tutta la sua vita.
Come dire: se l'unico strumento che sai usare è un martello, tutto ti sembrerà un chiodo.
La cieca fiducia nell'innatismo e nella determinazione strettamente genetica di tutta la variazione umana, compreso lo status culturale e sociale, conobbe (almeno negli Stati Uniti) un momento di parziale declino negli anni 30, con la Grande Depressione. Quando anche i professori universitari diventavano poveri e si trovavano a fare la coda per il pane, essi divenivano improvvisamente restii ad affermare che l'essere poveri fosse il risultato di innata stupidità determinata geneticamente.
Sic transit gloria mundi.

Cominciamo a mettere un pò di ordine.
Se io sono di gruppo sanguigno A, non esiste nessuna condizione ambientale che possa farmi diventare di gruppo B. I gruppi sanguigni sono determinati geneticamente e sono immodificabili. Ma un'espressione dei caratteri così univoca ed invariante è l'eccezione piuttosto che la regola. Sappiamo che in realtà le condizioni che incontriamo nella nostra infanzia, la nostra alimentazione, le nostre attività e tutto ciò che complessivamente chiamiamo il nostro ambiente, possono avere un ruolo più o meno pesante nel definire la nostra struttura corporea o, tanto per dire, il nostro tasso di colesterolo, sebbene essi siano soggetti a determinanti genetici. Tuttavia, anche affermazioni del tipo: "il peso corporeo è determinato per il 40 % dai geni, e per il 60 % dall'ambiente" sono semplicistiche e del tutto inadeguate. In primo luogo, in molti casi alcuni genotipi sono più suscettibili di altri alle variazioni dell'ambiente; e vicecersa, ci sono condizioni ambientali che appiattiscono le differenze fra genotipi, e condizioni che invece le esaltano. Quindi, in un certo senso, l'incidenza dell'effetto dell'ambiente è determinata dai geni, e quella del genotipo è determinata dalle condizioni ambientali: si tratta di un'interazione la cui complessità è in realtà irriducibile, e geni ed ambiente non sono trattabili come cause separate dell'espressione di ciascun carattere.
Inoltre, sebbene i miei vecchi compagni di scuola mi trovino identico ai bei tempi (fingendo benevolmente di non notare gli oltre 10 kg di me che a scuola non sono mai andati), quasi nessuna delle mie molecole di oggi è la stessa di quando ero sui banchi. Noi siamo in continua trasformazione e l'ambiente modifica nel tempo la sua interazione con i nostri geni; e lo stesso tipo di variazione nelle condizioni ambientali può produrre effetti molto diversi se si verifica in momenti diversi della nostra esistenza. La definizione della nostra individualità comprende anche una componente storica.
Le cose si ingarbugliano ulteriormente se si tenta di definire l'ereditarietà di tratti in qualche modo legati al comportamento. I bambini imparano molto per imitazione, ed i modelli che hanno più costantemente a portata di mano sono i genitori, o i nonni. Abbiamo quindi un'ulteriore componente ambientale e non genetica, che però, quando andrò a studiare la variazione di quel carattere, mi risulterà in effetti ereditaria, complicandomi maledettamente le cose.

Insisto molto su questi punti per due motivi: il primo è che il QI è una caratteristca estremamente sfuggente, essendo una misura di un qualche cosa che non si sa bene cosa sia, e probabilmente rappresenta una miscellanea di attitudini diverse, non si sa come e quanto correlate e/o interagenti fra di loro; quindi una stima della sua ereditabilità richiederebbe una prudenza estrema nella valutazione di tutte le variabili in gioco, in particolare l'eredità familiare culturale non genetica; e vedremo invece con quanta superficialità la questione sia stata affrontata nell'ultimo secolo. Il secondo è che dovremmo tenere sempre bene in mente che genetico non significa affatto immutabile o fissato una volta per tutte. Ci sono milioni di persone che hanno difetti della vista determinati geneticamente e vedono correttamente attraverso un paio di semplici lenti, così come altrettante persone correggono con appositi esercizi ginnici piccole disproporzioni del proprio corpo o imperfezioni della propria colonna vertebrale, tanto per fare qualche esempio a casaccio.

C'è però un ultimo argomento ancora da affrontare, che è fondamentale per le teorie razziali del QI (poi giuro che la smetto). Prendo pari pari un esempio di Gould.
Supponiamo che io mi metta a misurare la statura di due popolazioni, diciamo di una provincia europea e di un gruppo di villaggi poveri dell'Africa centrale. Diciamo che nella prima popolazione troverò una statura media di 1,75 m, e nella seconda di 1,65 m. Naturalmente all'interno di ciascuna popolazione ci sarà diversità di statura, presumibilmente con una elevata frequenza di individui vicini alla media e frequenze via via decrescenti di soggetti un pò più alti o un pò più bassi, fino all'estrema rarità di soggetti altissimi o bassissimi; se vado a controllare quanto la statura è ereditabile, troverò che genitori alti tenderanno ad avere figli alti e genitori bassi tenderanno ad avere figli bassi; e probabilmente troverò anche che il tipo di relazione che lega la statura dei genitori con quella dei figli è grossomodo la stessa nelle due popolazioni.
Avrò allora stabilito (sì, ho fatto il furbo: lo sapevamo già) che la statura è un carattere ereditario con forte determinazione genetica (oltre il 90 %). Quindi posso dedurre che i 10 cm di differenza nella statura media delle due popolazioni siano determinati geneticamente ?
La risposta è no.
Se potessi trasferire le due popolazioni l'una nell'ambiente dell'altra, può darsi che gli abitanti dei villaggi poveri, magari con un'alimentazione più completa, raggiungano, nella generazione successiva, la stessa statura degli europei; oppure può darsi che diventino ancora più alti; oppure la differenza attuale potrebbe mantenersi inalterata. Molto semplicemente: non lo so. Conoscere le cause della variazione entro gruppi non mi permette di fare nessuna assunzione sulle cause della variazione tra gruppi.
La qualità principale di un esempio dovrebbe essere la semplicità, e quindi il caso presentato dovrebbe essere risultato lampante; tuttavia, si presentano spesso nella pratica schemi di variazione più complessi che possono rendere facile scivolare su quello che appare intuitivo a prima vista, inducendoci ad errori logici grossolani.
Però chiunque abbia un pò di pratica nella sperimentazione adopera quasi quotidianamente questo criterio fondamentale di distinzione della variazione tra ed entro gruppi (spesso in modo talmente routinario ed automatico da non rifletterci neanche troppo su), salvo utilizzarlo nella prospettiva inversa.
Tenterò ora l'impresa di fare un semplice discorsino di statistica senza utilizzare neanche una formula matematica.
Supponiamo che io stia per mettere in commercio la nuovissima crema anticellulite Leggiadry, a base di Olio di Fegato di Libellula. Con una presentazione così, sono già certo di avere code, ressa e sgomitamenti davanti a tutti i cosmeticivendoli, ma immaginiamo che io sia un produttore inusitatamente onesto e mi prenda lo scrupolo non necessario di verificare se funziona davvero.
Una volta stabilita una scala di misura dei sintomi di cellulite, in modo da poterli esprimere con un numero, prenderò due campioni sufficientemente ampi di persone, uno dei quali sarà stato trattato con il mio prodotto, e l'altro no (gruppo di controllo). Se trovo una certa differenza nella media dei sintomi fra i due gruppi, come faccio a stabilire se essa è insignificante, casuale, o dovuta all'efficacia dell'applicazione ?
In genere il sistema utilizzato si basa sull'analisi della varianza: si calcola la variazione esistente all'interno dei gruppi, e la si confronta con la differenza tra i gruppi. Se quest'ultima non si differenzia troppo dalla variazione entro, non posso sostenere di avere dimostrato che la mia crema funzioni.
Vale a dire: in questo caso, sono io che introduco artificialmente una causa di variazione tra gruppi; e solo se la variazione tra gruppi risulta chiaramente una cosa diversa dalla variazione entro, la mia suddivisione in gruppi sarà legittima. Altrimenti i gruppi (trattato e non) rimarranno indistinguibili, cioè Leggiadry non avrà funzionato (ma tanto la venderò lo stesso).
E' curioso che lo stesso principio (le cause di variazione tra gruppi sono diverse da quelle entro gruppi) venga dato per scontato quando viene applicato quasi quotidianamente a fini sperimentali, e poi diventi così inafferrabile ed invisibile quando si elaborano teorie razziali: ma vedremo che si tratta spesso di cecità volontaria.
E con questi appunti nel taschino, siamo finalmente pronti per affrontare Goddard e Terman, Jensen e Murray...

Nessun commento:

Posta un commento