mercoledì 28 agosto 2013

L'Occhio Vigile



Ho la fortuna di essere un automobilista sporadico: tiro fuori abbastanza raramente la vettura dal garage e, per quel poco che circolo, cerco di osservare obblighi e divieti indicati dai cartelli stradali, come fa piacere alla Polizia Stradale ed ai Vigili Urbani, e soprattutto agli altri utenti della strada.
Ripetendo più volte gli stessi percorsi, poi, imparo grossomodo quali sono i limiti di velocità nei diversi tratti del viaggio e non ho più neanche bisogno di dedicare troppa concentrazione all'osservazione dei cartelli.



Immagino che capiti anche a voi, e noi tutti coltiviamo qualche modesta dose di autostima per le nostre facilità di apprendimento e memorizzazione.
Bene, è tempo di scendere giù dal pero, ragazzi.
Un gruppo di ricercatori, in vena di curiosità scientifiche fuori orario di lavoro, ha svolto il seguente esperimento: lungo il tragitto laboratorio - casa si incontrano tratti di strada con diversi limiti di velocità ? Bene.
Ci sono uccelli (passeri, cornacchie, gazze, ecc.) che vengono a cercare cibo sulla strada o sul bordo della carreggiata ? Bene.
Allora ci muniamo di cronometro e, ogni volta che ne avvistiamo qualcuno, misuriamo il tempo che passa da quando l'animale vola via a quando la nostra automobile raggiunge il punto in cui esso si trovava.
Così, in base alla velocità che stavamo tenendo in quel momento, possiamo calcolare la distanza alla quale l'uccello ritiene opportuno spostarsi dalla sua posizione di pericolo. Inoltre, ripeteremo le prove sia a velocità più bassa, sia a velocità più elevata (ahi, ahi !) del limite consentito nei vari tratti.
Una volta raccolto un numero sufficientemente vasto di rilevazioni, ecco a voi i risultati: la "distanza di sicurezza" alla quale gli uccelli scappano via non è sempre la stessa, ma dipende dal limite di velocità in quel tratto di strada. Inoltre, se in quel punto si viaggia più piano o più veloce del limite, la distanza alla quale l'animale si allontana rimane uguale, indipendentemente dalla effettiva velocità della vettura in arrivo (e quindi se correte troppo avete alte probabilità di trarre in inganno il pennuto ed investirlo): vale a dire che l'uccello non valuta la velocità della specifica macchina che sopraggiunge, ma regola la sua distanza di fuga imparando a conoscere i tratti di strada in cui i veicoli viaggiano più velocemente ed è meglio prendersi più spazio di precauzione, e in quali altri tratti essi vanno più adagio e ci si può soffermare a becchettare finchè il pericolo non è nelle vicinanze immediate.
Le cornacchie sono del tutto capaci di imparare i limiti di velocità sulle strade.
Quelli targati Varese no.

giovedì 22 agosto 2013

I nodi continuano a venire al pettine



Per molto tempo è rimasto un mistero quale fosse (o quali fossero: l'ipotesi che si trattasse di un ibrido interspecifico ha goduto di parecchio credito) il precursore selvatico del mais; solo da poche decine di anni è stato identificato nel teosinte, una graminacea di aspetto piuttosto diverso, cespuglioso e ramificato, che produce spighe (spighe, quelle del mais sono spighe) di pochi centimetri e molto sottili, addomesticata dai Maya poche migliaia anni fa, e divenuta il mais che oggi conosciamo grazie a poche fortunate mutazioni.
Anche gli antenati selvatici dei fagioli avevano semi di dimensioni ridottissime rispetto ai fagioli che siamo abituati a consumare, e lo stesso vale per il frumento, che è un ibrido poliploide che produce cariossidi molto più grandi delle specie selvatiche da cui è derivato, eccetera eccetera. Tutte le specie coltivate sono state sottoposte a selezione per caratteristiche economicamente vantaggiose, che quasi sempre le hanno portate ad un habitus piuttosto differente dai propri corrispettivi selvatici.
I caratteri che sono stati accumulati per selezione artificiale perchè utili dal punto di vista dell'agricoltore, ben difficilmente potrebbero risultare favorevoli per la pianta se dovesse esistere in natura in competizione con altre specie: le varietà coltivate possono esistere solo in quanto allevate ed accudite da qualcuno che pulisce dalle erbacce, irriga e libera dai parassiti. Se l'agricoltore abbandonasse il campo all'improvviso, la varietà coltivata, nonostante la prevalenza numerica iniziale, verrebbe sopraffatta dalle piante selvatiche nel giro di poche generazioni.

Questo argomento, che di per sè non fa una grinza, è quello che viene regolarmente utilizzato per esorcizzare il rischio che coltivazioni geneticamente modificate possano trasmettere le loro caratteristiche di resistenza, poniamo ad un erbicida, a specie affini selvatiche mediante ibridazione occasionale, provocando la comparsa di erbe selvatiche "super-infestanti" resistenti. L'ibrido dovrebbe portarsi dietro un carico di caratteristiche sfavorevoli alla sopravvivenza in ambiente selvatico che renderebbero improbabile la sua riproduzione al di fuori del campo coltivato.
In realtà si erano avute notizie di controesempi già negli anni passati, e ne avevamo parlato qui.

Nella maggior parte delle colture geneticamente modificate è stata indotta resistenza ad un erbicida, il glifosate; tale resistenza permette all'agricoltore di liberare il campo dalle piante infestanti intervenendo con l'erbicida anche durante la coltivazione.
Non ve la faccio tanto lunga sui meccanismi: l'erbicida inibisce un enzima importante (e dal nome spaventevole che vi risparmio) per il metabolismo delle piante, che ne muoiono; la resistenza viene indotta mediante una sovraproduzione dell'enzima, ad esempio con l'inserimento di copie multiple del gene che lo codifica; la maggior quantità di enzima permette alla pianta modificata di compensare l'inibizione data dall'erbicida.
In teoria, vale qui lo stesso principio di cui si è detto sopra: gli enzimi sono proteine, e la loro sintesi è un processo energeticamente costoso per la pianta; la produzione in quantità molto superiori al normale di una data proteina dovrebbe costituire una zavorra energetica svantaggiosa per una pianta selvatica, una volta esaurito il vantaggio per la sopravvivenza, cioè al di fuori dell'area trattata con l'erbicida. Quindi, eventuali ibridazioni occasionali con stretti parenti selvatici della pianta coltivata non dovrebbero dare seguito nella propagazione della resistenza a piante selvatiche.

Uno studio appena pubblicato su New Pathologist da Lu Baorong et al. dell'Università di Shangai sembra invece smentire questo assunto. La resistenza al glifosate indotta nel riso (Oryza sativa) mediante modificazione genetica con copie multiple del gene per l'enzima 5-enolpiruvoilscichimato-3-fosfato sintasi (EPSPS: e va bè, mi è scappato), può essere trasferita mediante ibridazione con la varietà selvatica infestante (Oryza sativa f. spontanea); e fin qui, niente di strano. Ma, lasciando reincrociare gli ibridi fra loro, nella generazione successiva, gli ibridi da riso ingegnerizzato, oltre ad avere livelli più elevati di attività enzimatica EPSPS rispetto agli ibridi coltivato-selvatico "normali" (ed anche qui è tutto nelle attese), presentano una serie di caratteri potenzialmente vantaggiosi: maggior numero di steli e pannocchie (pannocchie, quelle del riso sono pannocchie), e quindi di semi, per pianta; più alta percentuale di germinazione dei semi e maggiore attività fotosintetica; in ASSENZA di trattamenti con l'erbicida glifosate.
Si tratta di caratteristiche in grado di incrementare la potenzialità riproduttiva dell'ibrido resistente, e quindi di favorire il passaggio della resistenza alla varietà selvatica mediante reincrocio con quest'ultima.
Teniamo presenti tutte le pinze e le molle con cui dobbiamo maneggiare questa informazione: l'esperimento si svolge in campo in condizioni controllate e non in una situazione di autentica competizione naturale, e non è detto che i caratteri osservati si traducano in un reale vantaggio riproduttivo in un ambiente selvatico, dove altre variabili potrebbero avere un peso diverso.
Tuttavia, lo studio di Lu e colleghi dimostra che questo rischio esiste, ed è più che concreto. La possibilità che piante geneticamente modificate trasmettano i propri caratteri di resistenza a specie affini infestanti non è uno spauracchio agitato da immobilisti dediti a una caccia alle streghe antiscientifica, antimodernista ed antitecnologica, ma un'eventualità realistica da esaminare accuratamente, che piuttosto la fretta delle imprese sementiere di portare sul mercato gli esiti dei propri brevetti vorrebbe indurre a dissimulare e sottovalutare.


lunedì 5 agosto 2013

Anniversari - 5 agosto 1938

«La razza italiana si è mantenuta pura e fiera nonostante qualche invasione»
G. Marro, 1926


Il 5 agosto 1938 iniziava le sue pubblicazioni, al prezzo di copertina di lire 1, la rivista quindicinale La difesa della razza, diretta da Telesio Interlandi, uscita per 117 numeri fino al 20 giugno 1943. A partire dal settembre 1938 segretario di redazione fu Giorgio Almirante; tra i collaboratori della rivista figurarono anche personalità destinate a ruoli di rilievo nelle istituzioni della futura Repubblica, quali Amintore Fanfani e Giovanni Spadolini.

In quel numero 1 si venne subito al dunque, e venne pubblicato il "manifesto della razza" redatto nella mistica forma del decalogo da, manco a dirlo, 10 eminenti scienziati fascisti (nè altri avrebbero potuto pubblicare alcunchè, d'altronde) di cui per altri versi si ignora l'opera (erano un fisiologo, un neuropsichiatra, un pediatra, un demografo, due antropologi, due patologi e due zoologi). Già da settembre ne sarebbero seguiti, in rapida escalation, gli sbocchi legislativi, culminati nei famigerati "Provvedimenti per la difesa della razza italiana".

Qui di seguito il testo del manifesto pubblicato su La difesa della razza il 5 agosto 1938:

« Il ministro segretario del partito [Achille Starace, n.d.r.] ha ricevuto, il 26 luglio XVI, un gruppo di studiosi fascisti, docenti nelle università italiane, che hanno, sotto l'egida del Ministero della Cultura Popolare, redatto o aderito, alle proposizioni che fissano le basi del razzismo fascista.
1. LE RAZZE UMANE ESISTONO. La esistenza delle razze umane non è già una astrazione del nostro spirito, ma corrisponde a una realtà fenomenica, materiale, percepibile con i nostri sensi. Questa realtà è rappresentata da masse, quasi sempre imponenti di milioni di uomini simili per caratteri fisici e psicologici che furono ereditati e che continuano a ereditarsi. Dire che esistono le razze umane non vuol dire a priori che esistono razze umane superiori o inferiori, ma soltanto che esistono razze umane differenti.
2. ESISTONO GRANDI RAZZE E PICCOLE RAZZE. Non bisogna soltanto ammettere che esistano i gruppi sistematici maggiori, che comunemente sono chiamati razze e che sono individualizzati solo da alcuni caratteri, ma bisogna anche ammettere che esistano gruppi sistematici minori (come per es. i nordici, i mediterranei, i dinarici, ecc.) individualizzati da un maggior numero di caratteri comuni. Questi gruppi costituiscono dal punto di vista biologico le vere razze, la esistenza delle quali è una verità evidente.
3. IL CONCETTO DI RAZZA È CONCETTO PURAMENTE BIOLOGICO. Esso quindi è basato su altre considerazioni che non i concetti di popolo e di nazione, fondati essenzialmente su considerazioni storiche, linguistiche, religiose. Però alla base delle differenze di popolo e di nazione stanno delle differenze di razza. Se gli Italiani sono differenti dai Francesi, dai Tedeschi, dai Turchi, dai Greci, ecc., non è solo perché essi hanno una lingua diversa e una storia diversa, ma perché la costituzione razziale di questi popoli è diversa. Sono state proporzioni diverse di razze differenti, che da tempo molto antico costituiscono i diversi popoli, sia che una razza abbia il dominio assoluto sulle altre, sia che tutte risultino fuse armonicamente, sia, infine, che persistano ancora inassimilate una alle altre le diverse razze.
4. LA POPOLAZIONE DELL'ITALIA ATTUALE È NELLA MAGGIORANZA DI ORIGINE ARIANA E LA SUA CIVILTÀ ARIANA. Questa popolazione a civiltà ariana abita da diversi millenni la nostra penisola; ben poco è rimasto della civiltà delle genti preariane. L'origine degli Italiani attuali parte essenzialmente da elementi di quelle stesse razze che costituiscono e costituirono il tessuto perennemente vivo dell'Europa.
5. È UNA LEGGENDA L'APPORTO DI MASSE INGENTI DI UOMINI IN TEMPI STORICI. Dopo l'invasione dei Longobardi non ci sono stati in Italia altri notevoli movimenti di popoli capaci di influenzare la fisionomia razziale della nazione. Da ciò deriva che, mentre per altre nazioni europee la composizione razziale è variata notevolmente in tempi anche moderni, per l'Italia, nelle sue grandi linee, la composizione razziale di oggi è la stessa di quella che era mille anni fa: i quarantaquattro milioni d'Italiani di oggi rimontano quindi nella assoluta maggioranza a famiglie che abitano l'Italia da almeno un millennio.
6. ESISTE ORMAI UNA PURA "RAZZA ITALIANA". Questo enunciato non è basato sulla confusione del concetto biologico di razza con il concetto storico–linguistico di popolo e di nazione ma sulla purissima parentela di sangue che unisce gli Italiani di oggi alle generazioni che da millenni popolano l'Italia. Questa antica purezza di sangue è il più grande titolo di nobiltà della Nazione italiana.
7. È TEMPO CHE GLI ITALIANI SI PROCLAMINO FRANCAMENTE RAZZISTI. Tutta l'opera che finora ha fatto il Regime in Italia è in fondo del razzismo. Frequentissimo è stato sempre nei discorsi del Capo il richiamo ai concetti di razza. La questione del razzismo in Italia deve essere trattata da un punto di vista puramente biologico, senza intenzioni filosofiche o religiose. La concezione del razzismo in Italia deve essere essenzialmente italiana e l'indirizzo ariano–nordico. Questo non vuole dire però introdurre in Italia le teorie del razzismo tedesco come sono o affermare che gli Italiani e gli Scandinavi sono la stessa cosa. Ma vuole soltanto additare agli Italiani un modello fisico e soprattutto psicologico di razza umana che per i suoi caratteri puramente europei si stacca completamente da tutte le razze extra–europee, questo vuol dire elevare l'italiano a un ideale di superiore coscienza di sé stesso e di maggiore responsabilità.
8. È NECESSARIO FARE UNA NETTA DISTINZIONE FRA I MEDITERRANEI D'EUROPA (OCCIDENTALI) DA UNA PARTE E GLI ORIENTALI E GLI AFRICANI DALL'ALTRA. Sono perciò da considerarsi pericolose le teorie che sostengono l'origine africana di alcuni popoli europei e comprendono in una comune razza mediterranea anche le popolazioni semitiche e camitiche stabilendo relazioni e simpatie ideologiche assolutamente inammissibili.
9. GLI EBREI NON APPARTENGONO ALLA RAZZA ITALIANA. Dei semiti che nel corso dei secoli sono approdati sul sacro suolo della nostra Patria nulla in generale è rimasto. Anche l'occupazione araba della Sicilia nulla ha lasciato all'infuori del ricordo di qualche nome; e del resto il processo di assimilazione fu sempre rapidissimo in Italia. Gli ebrei rappresentano l'unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia perché essa è costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli elementi che hanno dato origine agli Italiani.
10. I CARATTERI FISICI E PSICOLOGICI PURAMENTE EUROPEI DEGLI ITALIANI NON DEVONO ESSERE ALTERATI IN NESSUN MODO. L'unione è ammissibile solo nell'ambito delle razze europee, nel quale caso non si deve parlare di vero e proprio ibridismo, dato che queste razze appartengono a un ceppo comune e differiscono solo per alcuni caratteri, mentre sono uguali per moltissimi altri. Il carattere puramente europeo degli Italiani viene alterato dall'incrocio con qualsiasi razza extra–europea e portatrice di una civiltà diversa dalla millenaria civiltà degli ariani.
»

Non dovrebbe valere la pena neanche di esaminare questi enunciati, se potessimo tranquillamente liquidarli per quello che sono: sciocchezze propagandistiche senza senso appartenenti ad un passato che non tornerà più.
E invece, purtroppo, dobbiamo prestare ancora attenzione.
Innanzi tutto, contestualizziamo: nulla nasce dal nulla. La "Società tedesca per l'igiene della razza" era stata fondata da Alfred Ploetz nel 1905, ed il primo corso di insegnamento in "Igiene della razza" era stato istituito nell'Università di Monaco da Fritz Lenz nel 1923, ben prima dell'avvento del nazismo.
I tentativi di ordinare i gruppi umani secondo una scala di inferiorità / superiorità risalgono almeno al XVIII secolo, e nei primi anni del novecento la combinazione dell'evoluzionismo con i primi passi della genetica fu colta come una possibilità strumentale per dare a tali tentativi una giustificazione obiettiva e scientifica (con il vantaggio di poter estendere il principio a tutte le possibili classificazioni: tra sessi, tra classi sociali... qualsiasi suddivisione in gruppi si poteva prestare alla definizione di una scala di valori stabilita biologicamente e quindi ineluttabile, il cui punto più elevato era assegnato invariabilmente al gruppo a cui apparteneva l'ideatore della scala).
Quindi l'affermazione al punto 1 del manifesto, che oggi sappiamo priva di qualsiasi legittimità scientifica, era allora condivisa e riconosciuta, se non altro come programma di ricerca di criteri oggettivi di classificazione (e tanto oggettivi furono i criteri, che i diversi tentativi di classificazione dell'umanità produssero numeri di razze variabili da due a più di duecento). E diventava dunque facile sbracare nel punto 2, ove con le "piccole razze", necessarie a giustificare una improponibile "razza italiana", inizia la vera arrampicata sugli specchi. Inutile porre l'accento sui fatti empirici con cui si vorrebbero dimostrare le affermazioni: "percepibile con i nostri sensi", "è una verità evidente". Fine delle dimostrazioni.
Saltiamo velocemente i punti dal 7 al 10, che sono solo una caotica accozzaglia di frasi vuote, utili soltanto a preparare le leggi razziali contro gli ebrei in servile ossequio al più robusto alleato; ma se volete una confutazione più puntuale, la trovate qui.

E ritorniamo, per concludere il discorso, ai punti che mi sembrano più interessanti da rileggere indossando gli occhiali di oggi. Il punto 3 è una chiave: fonda esplicitamente il concetto di razza su basi biologiche, ereditarie, genetiche e non culturali (linguistiche o religiose). Si mira al bersaglio grosso, ritenendo una differenziazione così fondata come ineluttabile e definitiva. Ma come si può differenziare una "razza pura" in un Paese che è una piattaforma sul Mediterraneo, punto di incrocio ideale di genti di ogni provenienza ? Basta negare l'evidenza: punto 5. Ci si appella ad una (del tutto presunta) assenza di flussi migratori rilevanti per "almeno un millennio", vale a dire poche decine di generazioni, cioè un nulla, in termini biologici: un clamoroso errore di scala temporale, per quello che si pretenderebbe di dimostrare. Da queste due asserzioni deriva infine l'esistenza di una "pura razza italiana" definita biologicamente e non culturalmente, enunciata al punto 6. La distinzione ha la sua ragione di essere nel fatto che gli elementi culturali cambiano, si scambiano, si imparano, si abbandonano o si acquisiscono molto velocemente; una razza definita su basi culturali, storiche, tradizionali o religiose sarebbe terribilmente instabile e cangiante: persino i dieci sconosciuti luminari fascisti se ne rendevano conto perfettamente.
Del resto, il dilemma "natura / cultura" si è trascinato fino ai giorni nostri nei tentativi di interpretare le origini delle caratteristiche mentali e comportamentali degli individui.
Ed il fatto che l'educazione di una intera generazione di italiani abbia potuto essere fondata su concetti che oggi vediamo in tutta la loro vacuità, è una dimostrazione di quanto rapidamente le presunte "identità culturali" siano destinate a modificarsi ed alterarsi, plasmate dai tempi e dalle nuove acquisizioni.
D'altronde, qualsiasi cultura collettiva che rinunciasse a scambiarsi continuamente pezzi, frammenti e cocci con le altre, sarebbe destinata a morire e ad auto-fossilizzarsi; diventerebbe un pò come quella degli Amish dell'Ohio: interessante, per carità, ma solo come reperto museale.
E' questo il punto rilevante se si pensa al presente.
Oggi, che il concetto di razza umana è stato espulso dalla scienza per dimostrata inconsistenza, e che il bersaglio grosso delle differenziazioni su base biologica non è più raggiungibile, cosa rimane al razzismo dei giorni nostri per escludere e respingere ogni diversità e non-omologazione ?
Quale sarà mai il bersaglio di ripiego ?
Provate ad eliminare quel punto 3, e a rileggere il decalogo, con gli opportuni riarrangiamenti, sostituendo il concetto di razza appunto con quello di "identità culturale"...
Ed ecco che per il resto si possono riciclare ancora tutte le stesse mercanzie ideologiche di 75 anni fa: non avvertite degli echi familiari ?
Non vi sovvengono immagini di semianalfabeti in cravatta verde ? Soli delle Alpi ? Padanie ? O bigottismi nazionalistici ? Un La Russa tricoloreggiante qua, un Giovanardi baciapileggiante là... tutti a difendere "identità culturali" limpide e sacre, intoccabili e immutabili (ma destinate a sorprendere i loro stessi paladini e difensori, relegandoli in un inguardabile ed evanescente passato prima che se ne accorgano).