giovedì 22 agosto 2013

I nodi continuano a venire al pettine



Per molto tempo è rimasto un mistero quale fosse (o quali fossero: l'ipotesi che si trattasse di un ibrido interspecifico ha goduto di parecchio credito) il precursore selvatico del mais; solo da poche decine di anni è stato identificato nel teosinte, una graminacea di aspetto piuttosto diverso, cespuglioso e ramificato, che produce spighe (spighe, quelle del mais sono spighe) di pochi centimetri e molto sottili, addomesticata dai Maya poche migliaia anni fa, e divenuta il mais che oggi conosciamo grazie a poche fortunate mutazioni.
Anche gli antenati selvatici dei fagioli avevano semi di dimensioni ridottissime rispetto ai fagioli che siamo abituati a consumare, e lo stesso vale per il frumento, che è un ibrido poliploide che produce cariossidi molto più grandi delle specie selvatiche da cui è derivato, eccetera eccetera. Tutte le specie coltivate sono state sottoposte a selezione per caratteristiche economicamente vantaggiose, che quasi sempre le hanno portate ad un habitus piuttosto differente dai propri corrispettivi selvatici.
I caratteri che sono stati accumulati per selezione artificiale perchè utili dal punto di vista dell'agricoltore, ben difficilmente potrebbero risultare favorevoli per la pianta se dovesse esistere in natura in competizione con altre specie: le varietà coltivate possono esistere solo in quanto allevate ed accudite da qualcuno che pulisce dalle erbacce, irriga e libera dai parassiti. Se l'agricoltore abbandonasse il campo all'improvviso, la varietà coltivata, nonostante la prevalenza numerica iniziale, verrebbe sopraffatta dalle piante selvatiche nel giro di poche generazioni.

Questo argomento, che di per sè non fa una grinza, è quello che viene regolarmente utilizzato per esorcizzare il rischio che coltivazioni geneticamente modificate possano trasmettere le loro caratteristiche di resistenza, poniamo ad un erbicida, a specie affini selvatiche mediante ibridazione occasionale, provocando la comparsa di erbe selvatiche "super-infestanti" resistenti. L'ibrido dovrebbe portarsi dietro un carico di caratteristiche sfavorevoli alla sopravvivenza in ambiente selvatico che renderebbero improbabile la sua riproduzione al di fuori del campo coltivato.
In realtà si erano avute notizie di controesempi già negli anni passati, e ne avevamo parlato qui.

Nella maggior parte delle colture geneticamente modificate è stata indotta resistenza ad un erbicida, il glifosate; tale resistenza permette all'agricoltore di liberare il campo dalle piante infestanti intervenendo con l'erbicida anche durante la coltivazione.
Non ve la faccio tanto lunga sui meccanismi: l'erbicida inibisce un enzima importante (e dal nome spaventevole che vi risparmio) per il metabolismo delle piante, che ne muoiono; la resistenza viene indotta mediante una sovraproduzione dell'enzima, ad esempio con l'inserimento di copie multiple del gene che lo codifica; la maggior quantità di enzima permette alla pianta modificata di compensare l'inibizione data dall'erbicida.
In teoria, vale qui lo stesso principio di cui si è detto sopra: gli enzimi sono proteine, e la loro sintesi è un processo energeticamente costoso per la pianta; la produzione in quantità molto superiori al normale di una data proteina dovrebbe costituire una zavorra energetica svantaggiosa per una pianta selvatica, una volta esaurito il vantaggio per la sopravvivenza, cioè al di fuori dell'area trattata con l'erbicida. Quindi, eventuali ibridazioni occasionali con stretti parenti selvatici della pianta coltivata non dovrebbero dare seguito nella propagazione della resistenza a piante selvatiche.

Uno studio appena pubblicato su New Pathologist da Lu Baorong et al. dell'Università di Shangai sembra invece smentire questo assunto. La resistenza al glifosate indotta nel riso (Oryza sativa) mediante modificazione genetica con copie multiple del gene per l'enzima 5-enolpiruvoilscichimato-3-fosfato sintasi (EPSPS: e va bè, mi è scappato), può essere trasferita mediante ibridazione con la varietà selvatica infestante (Oryza sativa f. spontanea); e fin qui, niente di strano. Ma, lasciando reincrociare gli ibridi fra loro, nella generazione successiva, gli ibridi da riso ingegnerizzato, oltre ad avere livelli più elevati di attività enzimatica EPSPS rispetto agli ibridi coltivato-selvatico "normali" (ed anche qui è tutto nelle attese), presentano una serie di caratteri potenzialmente vantaggiosi: maggior numero di steli e pannocchie (pannocchie, quelle del riso sono pannocchie), e quindi di semi, per pianta; più alta percentuale di germinazione dei semi e maggiore attività fotosintetica; in ASSENZA di trattamenti con l'erbicida glifosate.
Si tratta di caratteristiche in grado di incrementare la potenzialità riproduttiva dell'ibrido resistente, e quindi di favorire il passaggio della resistenza alla varietà selvatica mediante reincrocio con quest'ultima.
Teniamo presenti tutte le pinze e le molle con cui dobbiamo maneggiare questa informazione: l'esperimento si svolge in campo in condizioni controllate e non in una situazione di autentica competizione naturale, e non è detto che i caratteri osservati si traducano in un reale vantaggio riproduttivo in un ambiente selvatico, dove altre variabili potrebbero avere un peso diverso.
Tuttavia, lo studio di Lu e colleghi dimostra che questo rischio esiste, ed è più che concreto. La possibilità che piante geneticamente modificate trasmettano i propri caratteri di resistenza a specie affini infestanti non è uno spauracchio agitato da immobilisti dediti a una caccia alle streghe antiscientifica, antimodernista ed antitecnologica, ma un'eventualità realistica da esaminare accuratamente, che piuttosto la fretta delle imprese sementiere di portare sul mercato gli esiti dei propri brevetti vorrebbe indurre a dissimulare e sottovalutare.


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