sabato 29 novembre 2014

Anniversari - 29 novembre 1864 - Occhi turchini e giacca uguale

"...ora i bambini dormono nel letto del Sand Creek"

Il premio più grosso per chi vince la guerra è quello di prendersi la facoltà di scrivere la storia. Così un'invasione di poveracci in cerca di fortuna, reietti, avventurieri e delinquenti di ogni risma, e un incontrollato genocidio senza ritegno, possono trasformarsi nella grande epopea del Far West, con il supporto di apposite letteratura e filmografia, per ridisegnare ex-novo una storia edificante inventata dopo lo sterminio.
Purtroppo ci sono episodi troppo gravi e assassini troppo inveterati per poter essere cancellati del tutto, e allora, paradossalmente, i delitti più abominevoli si trasformano in circostanze preziose, che possono restituirci la reale dimensione dei fatti: piccole falle nel paravento oscurante, fatto di epica del progresso e della civiltà che avanzano con i vincitori, che ci permettono di intravedere frammenti della Storia originale.


Nell'attuale Colorado, che allora non era ancora parte degli Stati Uniti, commissari incaricati dal Governo Federale siglarono con i rappresentanti delle principali tribù indiane il trattato di Fort Laramie nel 1851. Con esso, si assicurava la sicurezza al passaggio di carovane dirette a ovest e il permesso di costruire strade e fortificazioni, in cambio di un'indennità di 50000 dollari all'anno e la piena proprietà degli indiani sulle terre assegnate alle varie tribù, con tutti i diritti di caccia, pesca e transito.
Coloni e militari infransero quasi subito gli accordi appena firmati ma, peggio ancora, nel 1858 fu trovato un giacimento d'oro nei territori indiani. All'afflusso di cercatori a centinaia di migliaia, si aggiunse subito l'opportunistica invasione di allevatori di bestiame europei in un'area vitale per il pascolo delle mandrie di bisonti e quindi per la sopravvivenza degli indiani (su un'area illecitamente sottratta ai nativi nacque l'attuale capitale Denver).
Sotto la pressione dei continui soprusi dei coloni, una decina dei capi Cheyenne e Arapaho accettarono, nel 1861, di firmare il più restrittivo trattato di Fort Wise: in cambio di un ulteriore pagamento, gli indiani rinunciavano a quasi due terzi del territorio a loro precedentemente garantito, confinando i propri villaggi in una riserva povera di selvaggina e difficile da coltivare. Ma il trattato conteneva ambiguità sulla libertà degli indiani di muoversi e cacciare nel precedente territorio, e comunque la non adesione della maggioranza delle tribù ne rendeva difficile l'applicazione.
La stipula del trattato di Fort Wise fu solennizzata con la consegna ai dieci capi firmatari di una bandiera degli Stati Uniti, con l'assicurazione che avrebbero goduto di ogni protezione finchè si fossero posti sotto quel Sacro Emblema della Grande Nazione Americana.

John Milton Chivington (1821-1894) era un pastore della Chiesa metodista che, allo scoppio della Guerra di Secessione, aveva rinunciato all'incarico di cappellano per un ruolo militare più attivo. Nel 1864 lo troviamo colonnello della milizia dei Volontari del Colorado. In aprile aveva attaccato un villaggio Cheyenne incendiando più di 70 tende ed uccidendo quattro soggetti pericolosi: due donne e due bambini. In maggio, inviò i suoi uomini ad attaccare, fuori dai confini del Colorado senza autorizzazione, un grosso campo estivo Cheyenne in Kansas. Il capo Orso Magro era uno dei firmatari del trattato di Fort Wise: uscì dall'accampamento disarmato e andò verso i militari mostrando la sua copia del trattato. Quando si fu avvicinato a sufficienza, gli uomini di Chivington gli spararono e lo uccisero.
In ottobre, circa 800 tra Cheyenne e Arapaho stabilirono il loro campo invernale presso un'ansa del fiume Sand Creek, nelle vicinanze di Fort Lyon. Dopo ripetute provocazioni e violazioni del trattato da parte del comandante del forte, maggiore Anthony, il capo Cheyenne Black Kettle ottenne un incontro e fu rassicurato sul fatto che se gli indiani fossero rimasti nel loro campo sul Sand Creek non avrebbero avuto nulla da temere. Ma intanto Anthony aveva chiesto rinforzi, e questi si presentarono il 26 novembre nella veste del reggimento di Volontari del Colorado guidato dal colonnello Chivington, più altri volontari del New Mexico, più il 3° reggimento di Cavalleria del Colorado, offertosi volontariamente per combattere contro gli indiani, un impegno molto più sicuro, pur di sfuggire al fronte della Guerra di Secessione, ove si rischiava di prenderle dai Confederati, per un totale di circa 800 uomini e due cannoni.
Alcuni dei comandanti si opposero al proposito di Chivington di attaccare un campo di indiani pacifici e che non costituivano alcuna minaccia, ma furono obbligati a seguire la spedizione: «Voglio che li uccidiate e scalpiate tutti, grandi e piccoli: le uova fanno i pidocchi

Per ciò che accadde quel 29 novembre non occorre andare tanto in là. E' sufficiente Wikipedia:

"All'alba del 29 novembre 1864 la colonna dei soldati giunse al campo Cheyenne e Arapaho sul Sand Creek, ottenendo una completa sorpresa: a parte i guardiani del recinto dei cavalli, gli indiani non avevano messo nessuna sentinella a protezione del campo, tanto erano fiduciosi sul fatto di non avere nulla da temere. L'accampamento era situato in un'ansa a ferro di cavallo del Sand Creek, a nord di un piccolo torrente in quel momento in secca: la tribù di Pentola Nera era accampata al centro, con a ovest i Cheyenne dei capi Antilope Bianca e Copricapo di Guerra e a est, un poco più discosti, gli Arapaho di Mano Sinistra. La maggior parte dei maschi adulti era lontano più a est, a caccia delle mandrie di bisonti nella zona dello Smoky Hill, e circa i due terzi dei 600 indiani presenti nel campo erano donne o bambini; Robert Bent stimò che i guerrieri fossero circa 35, cui sommare un'altra trentina di uomini anziani.

Gli indiani furono svegliati dal rumore dei cavalli della massa dei soldati che galoppava verso il campo; la confusione si sparse rapidamente per l'accampamento mentre donne e bambini uscivano urlando dalle tende e i pochi guerrieri disponibili correvano a prendere le armi. Edmund Guerrier fu svegliato dalle urla delle donne: uscì dalla tenda e si diresse verso l'alloggio del mercante John Smith, anche lui accampato con i Cheyenne insieme alla sua moglie indiana, al suo figlio meticcio Jack e al soldato David Louderback. Quest'ultimo propose di andare incontro ai soldati avanzanti, ma non appena il piccolo gruppo uscì dalla tenda di Smith i cavalleggeri aprirono il fuoco con carabine e pistole: il gruppo fece dietro front e corse a ripararsi dietro la tenda, dove furono raggiunti anche da Charlie Bent. Pentola Nera aveva fatto innalzare accanto al suo tipi un alto palo di legno a cui aveva fissato una grossa bandiera degli Stati Uniti d'America, un dono di quando aveva firmato il trattato di Fort Wise: non appena i soldati si avvicinarono al campo, il vecchio capo urlò alla sua gente di radunarsi sotto alla bandiera e in poco tempo svariate centinaia di donne e bambini si ammassarono intorno al palo, mentre tutt'intorno i soldati facevano fuoco indiscriminatamente.

Ai primi spari il capo Antilope Bianca, un vecchio di 75 anni, si mosse a passo svelto verso i soldati; James Beckwourth, che cavalcava a fianco di Chivington, testimoniò che il capo, disarmato e con le mani in alto, si avvicinò urlando «Fermi! Fermi!» in inglese perfettamente udibile, finché non fu abbattuto a colpi di fucile da parte dei soldati. Il corpo rimase abbandonato sul letto asciutto del torrente: come riferì poi Robert Bent, alcuni soldati vi si avvicinarono e lo mutilarono con i loro coltelli, tagliandogli il naso, le orecchie e i testicoli per farne dei trofei. Risalendo il letto asciutto del torrente, anche gli Arapaho del campo vicino corsero a rifugiarsi sotto la bandiera di Pentola Nera; il capo Mano Sinistra si fermò di fronte ai soldati con le braccia incrociate, dicendo che non avrebbe combattuto contro di loro perché erano amici: fu colpito da una pallottola di fucile, ma riuscì poi a mettersi in salvo.

Robert Bent descrisse lo scontro come «una carneficina indiscriminata di uomini, donne e bambini». Bent vide un gruppo di trenta o quaranta donne rifugiarsi in un anfratto: una bambina di circa sei anni fu mandata fuori con una bandiera bianca, ma questa fu subito colpita e uccisa dal fuoco dei soldati; tutte le donne ammassate nell'anfratto furono poi passate per le armi senza che potessero opporre resistenza. Tutti i corpi di indiani uccisi che Robert Bent vide erano stati scalpati e molti mutilati dai soldati, una circostanza confermata anche dalla testimonianza del tenente James Connor: i soldati tagliarono le dita delle mani dei morti per impossessarsi di anelli e altri gioielli, oppure asportarono nasi, orecchie e organi sessuali di uomini e donne per farne dei trofei da esporre sui cappelli o sulle selle dei cavalli; nei giorni successivi al massacro molti soldati furono poi visti mettere in mostra questi loro trofei nei saloon della zona di Denver.

Non venne dato nessun quartiere agli indiani feriti, né ai bambini. Robert Bent vide un soldato avvicinarsi a una donna stesa a terra, colpita a una gamba, e spezzarle entrambe le braccia a colpi di spada, lasciandola poi lì a morire dissanguata; sempre Bent riferì di una bambina di cinque anni che, nascosta in un banco di sabbia, fu scoperta da due soldati: questi le spararono a distanza ravvicinata con le loro pistole e poi ne trascinarono il corpo fuori dalla sabbia prendendolo per un braccio. Sia Bent che il capitano Soule videro il corpo di una donna incinta, lasciato sventrato e con il feto abbandonato accanto; Bent riferì di aver visto i corpi di numerosi neonati uccisi con le loro madri, mentre il tenente Connor seppe di un bambino di pochi mesi gettato nella cassetta del fieno di un carro e poi abbandonato a morire sulla strada durante il rientro della colonna al forte.

L'attacco non fu molto coordinato poiché molti soldati erano scarsamente disciplinati e ubriachi dopo le bevute fatte durante la marcia di avvicinamento; parecchi indiani riuscirono quindi a fuggire dal luogo del massacro: quando divenne chiaro che la bandiera alzata da Pentola Nera non era un rifugio sicuro, vari gruppi di indiani fuggirono attraverso il basso corso del Sand Creek cercando rifugio sulla sponda opposta, dirigendo poi a est verso i campi degli Cheyenne andati a caccia sullo Smoky Hill; diversi di loro furono uccisi dal fuoco degli obici da montagna dei soldati che sparavano dalla riva sud del fiume. Pentola Nera si salvò nascondendosi in un burrone, anche se sua moglie fu gravemente ferita; numerosi indiani si nascosero scavando buche e trincee nella riva sabbiosa del torrente in secca, resistendo poi fino a notte: tra questi vi fu George Bent, rimasto separato da fratello Charlie fin dalle prime fasi dello scontro e ferito al fianco da una pallottola di fucile.

Conclusasi la sparatoria la colonna di Chivington fece rapidamente rientro a Fort Lyon; prima di lasciare l'area i soldati presero i cavalli degli indiani e incendiarono le tende del campo. I soldati portarono con sé sette prigionieri: la moglie Cheyenne del commerciante John Smith, la moglie indiana di un bianco che risiedeva a Fort Lyon con i suoi tre bambini e i due meticci Jack Smith e Charlie Bent. Beckwourth riuscì a salvare la vita a Charlie nascondendolo su un carro insieme a un ufficiale rimasto ferito e facendolo poi rilasciare, ma Jack fu ucciso da un soldato che infilò la canna della sua pistola in un buco della tenda dove il prigioniero era detenuto.
"

Nei primi giorni dopo la gloriosa impresa, il colonnello Chivington vantò una vittoria epica, ottenuta uccidendo 500 o 600 valorosi guerrieri Cheyenne e Arapaho. Man mano che cominciarono ad accumularsi testimonianze sul fatto che di guerrieri non ce n'erano, perchè quasi tutti gli uomini giovani erano fuori per la caccia al bisonte, e i coraggiosi Volontari del Colorado si erano limitati a sterminare donne, vecchi e bambini, il numero dei morti di cui vantarsi iniziò bruscamente a diminuire, fino a circa 150, di cui oltre 100 donne e bambini.

E con l'accumularsi di testimonianze sui fatti, il colonnello John Milton Chivington finì sotto inchiesta. La commissione investigativa del Congresso degli Stati Uniti concluse le indagini nel 1865 con parole molto dure sull'operato di Chivington, ma contro di lui non fu mai preso alcun provvedimento. Uno dei suoi principali accusatori, Silas Soule, uno dei comandanti contrari all'attacco di Sand Creek, fu assassinato pochi giorni dopo la sua testimonianza. La persona accusata dell'omicidio, Charles Squier, un fedelissimo sodale di Chivington, non fu mai sottoposta a processo.

Preclusa dalle polemiche la carriera politica a cui puntava, John Milton Chivington concluse il suo onorato servizio agli Stati Uniti d'America come sceriffo, e fu il primo Gran Maestro della Massoneria del Colorado.

martedì 25 novembre 2014

Anniversari - 24 novembre 1974 - Buon compleanno Lucy !

(Scusate il ritardo)


Il 24 novembre 1974 Donald Johanson, alla guida di una spedizione in cerca di fossili ad Hadar, lungo il fiume Awash nella regione di Afar, nel nord dell'Etiopia, scrisse sul suo diario: "Mi sento molto fortunato". Presentiva l'imminenza di una scoperta importante. D'altra parte, il sito fossilifero si era dimostrato davvero interessante già da precedenti spedizioni (lo stesso Johanson c'era già stato nell'anno precedente). Uno dei suoi colleghi etiopi aveva già trovato diversi reperti di mascelle e denti, e il personale coinvolto nelle ricerche stava acquisendo sempre maggiore esperienza e capacità.
Tuttavia, quella mattina non aveva in programma di recarsi sul campo; fu convinto a fare un giro dal suo collaboratore Tom Gray, che aveva l'incarico di dettagliare la mappa dell'area. Sulla via del ritorno, come sempre, si guardava in terra, perchè è lì che si trovano le cose. Fu un'occhiata occasionale verso l'alto che portò lo sguardo di Johanson lungo la costa del pendio, da dove emergeva un piccolo, bellissimo gomito con la sua brava ulna.
L'orizzonte in cui si scavava corrispondeva a circa 3 milioni di anni fa, e i reperti di ominini di quell'epoca fino ad allora conosciuti si contavano sulle dita di una mano: poche mascelle, qualche dente, minimi frammenti di arti, e nulla di davvero diagnostico.
Ma a partire da quel gomito, nelle due settimane successive, fu dissotterrrato lo scheletro di ominino antico più completo mai visto fino ad allora, tanto da essere rimasto il più famoso di tutti ancora oggi, pure se negli ultimi vent'anni scoperte non meno straordinarie si sono moltiplicate ad un ritmo entusiasmante.
Il fossile era di una femmina di 3,2 milioni di anni fa, la cui specie fu battezzata Australopithecus afarensis; ma la straordinaria integrità dello scheletro indusse tutti i ricercatori sul campo a riconoscerla quasi come una persona, e a chiamarla familiarmente Lucy.


"Lucy" fu il primo pilastro solido della moderna paleoantropologia: la presenza delle articolazioni dell'anca, del ginocchio e parte della caviglia dimostravano che quell'antico, piccolo (poco più di un metro) ominide, dall'aspetto e dal volume cranico tutto sommato molto simili a quelli di un attuale scimpanzè, camminava dritto in piedi proprio come noi.
Ora, 40 anni dopo, i reperti di Australopithecus afarensis raccolti sono circa 400, e abbiamo ormai identificato una ventina di specie diverse nel fitto e ramificato cespuglio dell'evoluzione dall'ultimo antenato che abbiamo in comune con gli scimpanzè, circa 6 milioni di anni fa, fino a noi. Ma, un pò per il prestigio della primogenitura, un pò perchè oggi possiamo dirci ragionevolmente sicuri che, in quelle fitte ramificazioni di discendenze, A. afarensis sia tra le specie nostre dirette progenitrici, il fascino di Lucy rimane tuttora intatto.

domenica 23 novembre 2014

Dernier cri


La signora era appena uscita dalla porta del medico, il suo medico di fiducia, 40 Euro per ogni sillaba di diagnosi, più altri 80 a ricetta; si fidava solo di lui, perchè aveva lo studio in uno dei palazzi più signorili del centro, con lo scalone liberty, tutto sinuoso, o no, forse si chiama rococò quando è fatto così, o magari barocco, adesso non le viene in mente, e i soffiti pieni di stucchi, tanto belli, e le poltroncine eleganti nella sala di attesa. Impossibile non fidarsi.
Prima era stata a fare un pò di shopping, giusto due cosette, con il suo occhio infallibile quanto un calibro di precisione aveva valutato al millimetro la giusta altezza di tacco delle sue nuove scarpine diademate; poi un paio di mutande, almeno 60 Euro altrimenti bisogna rifiutarsi di indossarle, sono cose delicate quelle lì, mica si può andare su merce dozzinale; un paio di vestitini firmatissimi, scelti dopo avere scartato tutta una inutile pletora di vestitini non sufficientemente firmati.
Perciò era stata una giornata intensa ed intellettualmente impegnativa; impegnativa anche fisicamente, con tutto quell'entrare e uscire dai negozi più chic della città, senza mai perdere la giusta postura suggerita, per valorizzare al meglio la linea dell'abito indossato, da quell'interessantissimo articolo su Vanity Fair della settimana scorsa.
Ma tutto sommato, anche se faticosa e stressante, sarebbe stata una giornata soddisfacente, se non fosse stato per i 160 Euro peggio spesi di sempre, per le quattro sillabe di diagnosi.
"Come sarebbe a dire cervicale ? Con tutto quel dolore che mi prende da qui a qui, e anche quando alzo il braccio per mettere la gruccia nel guardaroba ? Solo una cervicale così, qualsiasi ? e cosa racconto alle mie amiche di un malanno che non ha nulla di particolare ? Come quella della giornalaia ? Dice che ci ha la cervicale anche la signora del primo piano che esce di casa con le pantofole e i pantaloni presi dai cinesi, e ci ho la stessa cosa pure io, uguale ? Ma la mia sarà un pò di più, mica proprio come la sua... Ma insomma adesso che va tanto di moda l'Ebola, che ne parlano tutti, è una cosa trendy insomma, e io pensavo magari di essere la prima della città ad avercelo... questi doloretti qua e qua... magari... ma che si deve fare per essere ammalati un pò alla moda ? Tutte le volte che pubblicano una dieta nuova su Cosmopolitan io la faccio subito, per due o tre giorni, mi tengo sempre aggiornata su quelle cose lì della salute, leggo sempre anche l'oroscopo, mangio anche la farina di carrube, una fatica per trovarla, che ho letto che fa bene per un sacco di cose che adesso non mi ricordo neanche più bene quali, e poi ? Per che cosa ? Cervicale... uffa. Che banalità, così ordinaria... Pensa che figura si potrebbe fare dal parrucchiere: - Sai che ho preso l'Ebola ? - Sono cose nuove, malattie moderne, che attirano l'attenzione, fanno tendenza... 'Sti dottori antiquati non capiscono niente. Non hanno stile, non hanno stile."

venerdì 14 novembre 2014

Viva la Musica


Ho scattato questa fotografia un paio di anni fa: raffigura due reperti davvero notevoli della mostra Homo sapiens, curata da Telmo Pievani.
L'oggetto di destra è un osso (un omero) di avvoltoio grifone, su cui, ad intervalli regolari, sono stati aperti dei forellini ruotando uno strumento tagliente, che ha lasciato le sue tracce sui bordi. Viene dal sito di Hohle Fels, in Germania, e risale a ben 35000 anni fa. Ne è stato ricavato un calco, su cui sono state ricostruite le estremità mancanti, che ha confermato che è proprio ciò che sembra: suona. E' un flauto: il più antico strumento musicale accertato.
Nella sala veniva diffuso in sottofondo il suono prodotto con la ricostruzione dello strumento. Non era precisamente armonico, ma tutto sommato si trattava di musica non sgradevole.
Quello a sinistra è un osso di orso, anche questo forato volontariamente utilizzando uno strumento, ed è ancora più antico, 50000 anni fa. E' stato rinvenuto in Slovenia, in un sito (Divje Babe) che contiene esclusivamente resti di Homo neanderthalensis. In questo caso non è possibile stabilire con sicurezza che si tratti di un flauto, poichè il reperto è molto incompleto, uno dei due fori è passante e l'altro no, ed è più difficile ricostruirne la funzione, ma non si può fare a meno di pensarlo.
Non ne abbiamo quindi la certezza, ma è possibile che lo strumento musicale più antico di cui abbiamo, ad oggi, conoscenza sia stato prodotto da una specie diversa dalla nostra: un "flauto di Neanderthal".
Homo neanderthalensis era comunque capace di rappresentazioni simboliche e realizzava manufatti con funzioni puramente estetiche e decorative. Non siamo certi delle sue capacità verbali e di elaborazione di un linguaggio, e trovare in questi nostri parenti stretti la produzione di forme di musica ha certamente qualche cosa di straordinario, ma tutto sommato non appare del tutto estraneo alle espressioni culturali proprie di questa specie.
Ma la condivisione di qualche forma di cultura musicale con specie extraumane può portarci molto più lontano.
Difficilmente ad un uomo può capitare di trovare moglie solo grazie alle armoniose melodie del proprio canto; anzi, se l'esibizione di vocalizzi sotto la doccia risultasse insistentemente cacofonica, potrebbe risultare più probabile un esito di tipo contrario.
Tuttavia, che si sia abili o meno abili esecutori, il nostro orecchio sa riconoscere come gradevoli scale di note e accordi armonici. E' un'arbitraria questione di gusti l'attribuzione delle etichette "armonica" o "disarmonica" ad una sequenza di note musicali ? No: è legata al fatto che le frequenze dei diversi suoni siano in rapporti numerici semplici, cioè tra numeri interi piccoli.
Ogni nota di un'ottava più acuta ha frequenza doppia della stessa nota dell'ottava più bassa; nel più canonico degli intervalli, quello di quinta (Do-Sol, per esempio) il rapporto delle frequenze delle due note è 2:3; significa che se le due note vengono eseguite in successione, le sollecitazioni percepite dal nostro orecchio ogni tre oscillazioni della più acuta riproducono la stessa frequenza di due oscillazioni della più grave; in un semplice accordo maggiore (ad es. Do-Mi-Sol), le frequenze delle tre note sono nel semplice rapporto 4:5:6, e se suonate assieme, le tre vibrazioni giungono al nostro orecchio in sincrono ogni quattro oscillazioni della nota grave, e così via. Noi riconosciamo come gradevoli queste regolarità di frequenze; rapporti definiti da numeri via via più alti rendono invece sempre più rare le vibrazioni "in fase", e sottopongono l'orecchio ad una continuità di sollecitazioni tra loro sfasate, che percepiamo come fastidiose. Differenti tradizioni culturali hanno elaborato canoni di armonia leggermente differenti da quelli occidentali, ma che non si discostano da questo fondamento fisico universale. Poi, un'educazione musicale più affinata permette di apprezzare anche la funzione delle dissonanze all'interno di un tessuto sonoro più complesso.
Uno studio pubblicato recentemente ha rilevato gli spettrogrammi delle frequenze nel canto del tordo eremita (Catharus guttatus), un comune e rinomato uccello canoro del Nordamerica, ed ha dimostrato che su 71 "canzoni" di più di 10 note, 57 seguono gli stessi tipi di rapporti numerici semplici, che li avvicinano molto alle serie armoniche delle convenzioni musicali umane. E' il primo studio di questo tipo, e non è da escludere che altri uccelli utilizzino, nei loro canti, schemi armonici analoghi.
Ma se è così, è possibile affermare che i canoni delle armonie musicali non sono convenzioni culturali elaborate dalla specie umana grazie alle sue peculiari capacità di concettualizzazione ed astrazione, ma preferenze che hanno una base biologica, che hanno il loro fondamento in un principio fisico.
E quindi, dovremmo concludere che persino una elaborazione estetica che siamo abituati a qualificare come prodotto culturale "alto" per eccellenza, come la musica, ha origine da meccanismi basilari di percezione ben presenti al di fuori della specie umana attuale; è poi la ridondanza di capacità elaborativa del nostro cervello che ci permette di sfruttare tali meccanismi per portarne il valore estetico a livelli di maggiore complessità e gradevolezza.
Le pur condivisibili scelte melodiche del tordo eremita non lo renderanno mai in grado di comporre la sinfonia "Pastorale"; ma dovranno comunque essere sufficientemente perfezionate da permettergli di affrontare con successo la critica musicale più spietata: la femmina di tordo eremita.

domenica 9 novembre 2014

Nino non aver paura


Quasi tutti, in una serie di otto lanci di moneta, considererebbero più improbabile il verificarsi della sequenza di risultati "testa-testa-testa-testa-croce-croce-croce-croce" rispetto alla sequenza "croce-testa-testa-croce-testa-croce-croce-testa"; e, dopo tre "teste" consecutive, quasi tutti sarebbero portati a scommettere con convinzione su "croce" per il prossimo lancio. In realtà, è ovvio che le probabilità di ottenere una "testa" o una "croce" non si scostano mai dal 50%, e non possono essere modificate in nessun modo da qualunque serie di risultati precedenti. Le due sequenze ipotizzate sopra hanno esattamente la stessa probabilità di verificarsi (1/256), e l'idea che una serie di risultati uguali faccia aumentare la probabilità del verificarsi del risultato opposto è un errore molto diffuso, probabilmente connaturato al nostro modo di percepire la casualità, poichè esso è presente un pò in tutte le culture ed è piuttosto indipendente dall'educazione e dalla dimestichezza con i numeri, almeno fino a che non si arrivi ad approcci formali alla statistica ed alla teoria del caso. Questo tipo di errore viene generalmente chiamato "fallacia dello scommettitore", ed è lo stesso che commettono, ad esempio, coloro che giocano sui numeri ritardatari al Lotto.
In generale, scommettere su uno o un altro di eventi che hanno la stessa probabilità di verificarsi non comporta un particolare danno, se non quello della speranza destinata a rimanere delusa: un numero del Lotto vale l'altro, e che la scelta sia fatta a caso o in base a leggi statistiche inesistenti non cambia le probabilità di successo nè in bene nè in male. Però, in alcuni casi di "ritardi" storici dei numeri del Lotto, la convinzione errata che la prolungata assenza comportasse un aumento di probabilità di estrazione per il numero ritardatario ha talvolta indotto persone a scommettere somme importanti, e via via maggiori ad ogni estrazione successiva; in casi come questi, la "fallacia dello scommettitore" ha potuto provocare danni patrimoniali anche molto rilevanti.

Uno studio che ha trovato posto
nientemeno che sulla rivista Current Biology nello scorso agosto rivela che anche i portieri di calcio incappano facilmente nella "fallacia dello scommettitore", non tanto per le connivenze con combriccole di malaffare che pilotano i risultati degli incontri, ma quando devono tentare di parare un calcio di rigore.
La competizione tra tiratore e portiere in un calcio di rigore è, in fin dei conti, un gioco a mosse simultanee: il calciatore non deve lasciar intuire in anticipo in quale direzione tirerà, e il portiere deve lanciarsi da una parte o dall'altra ancora prima di poter vedere la direzione presa dal pallone, altrimenti sarà troppo tardi per potere raggiungere un tiro ben piazzato, ma non tanto in anticipo da dare al tiratore il tempo per regolarsi di conseguenza. E qualsiasi comportamento dell'uno o dell'altro che conferisca un margine di prevedibilità alle proprie scelte offrirebbe un evidente vantaggio all'avversario.

Gli autori Misirlisoy e Haggard, presumibilmente appassionati della materia, hanno tralasciato i calci di rigore assegnati durante le partite, sporadici e generalmente parecchio distanziati nel tempo, ed hanno esaminato sistematicamente le serie di calci di rigore di spareggio che si giocano quando neanche i tempi supplementari sono sufficienti a definire un vincitore: 37 casi dal 1976 (quando questo sistema di spareggio fu introdotto: la prima finale importante decisa ai calci di rigore fu Cecoslovacchia - Germania Ovest nei Campionati Europei del 1976; prima di allora, da ultima la finale di Coppa dei Campioni 1974, Bayern Monaco - Atletico Madrid, la finale veniva ri-giocata 48 ore dopo, mentre nei turni precedenti il vincitore veniva stabilito con il lancio della monetina), fino al 2012, per un totale di 361 calci di rigore battuti, nei tornei più importanti della UEFA e della FIFA.
Nei calci di rigore di spareggio, i tiri si susseguono rapidamente, ed è più facile e ragionevole ricercare eventuali condizionamenti e regolarità nelle scelte di tiratori e portieri a seguito dei tiri precedenti.
Complessivamente, i rigori tirati a destra o a sinistra non si discostano dalle aspettative di scelta casuale, come le direzioni scelte dai portieri (46-47% sinistra, 53-54% destra); così pure la frequenza con la quale i portieri si tuffano nella direzione giusta (53%), non è significativamente diversa dal 50% che si otterrebbe per caso: in sostanza i portieri non sono in grado di prevedere efficacemente in quale direzione il tiratore calcerà il pallone.
Ma mentre le direzioni scelte dai tiratori (i quali si alternano ed eseguono un solo calcio a testa) continuano a non discostarsi dalla casualità 50-50, indipendentemente dalle scelte precedenti sia degli altri tiratori che dei portieri, il portiere (che è sempre lo stesso), aumenta progressivamente la frequenza con la quale si tuffa nella direzione opposta dopo uno (159 casi), due (66 casi) o tre (16 casi) tiri consecutivi nella stessa direzione; dopo tre tiri dalla stessa parte, la frequenza con cui i portieri si buttano dalla parte opposta raggiunge il 70% e scende al di sotto della canonica soglia del 5% di probabilità che tale scostamento dalle attese sia casuale.
E' curioso che in un mondo ormai iper-professionalizzato, dove si conta ogni caloria ingerita ed ogni metro percorso, e nel quale ogni filo d'erba viene esaminato prima di ogni gara, un elemento determinante della squadra nei momenti più decisivi di un torneo si affidi alle stese aspettative farlocche dell'omarino che va a giocare il 26 sulla ruota di Venezia perchè non esce da 98 settimane. E' vero che, anche in questo caso, l'aspettativa infondata non modifica (per ora) le probabilità di successo: i calciatori continuano a tirare indifferentemente a destra o a sinistra e il portiere avrà le stesse probabilità di salvare la sua squadra; ma solo perchè, nel mondo iper-professionalizato eccetera eccetera, non ci si era ancora accorti di questa prevedibilità di comportamento. Forse capiremo, nella prossima occasione in cui i giornalisti sportivi, inesorabili maestri di ripetitività, sentiranno, fin dalla metà del secondo tempo, aleggiare lo spettro dei supplementari e si giungerà infine alla lotteria dei rigori, se gli allenatori di calcio leggono Current Biology.

martedì 4 novembre 2014

Odor di cometa


Per quel poco che ne so io, le comete sono grandi vagabondi dello spazio. Originate chissà da dove, dalle più estreme periferie del sistema solare, da spazi romanzeschi come la Nube di Oort, girovagano lungo traiettorie chiuse, e allora ritornano regolarmente, magari ad intervalli di tempo lunghissimi; oppure aperte, e si presentano a noi una sola volta, lasciandosi poi proiettare da un campo gravitazionale all'altro qua e là per la galassia.
Le loro apparizioni sono da sempre avvolte in romantici aloni di mistero: segnali divini, annunci di sventura, incongruenza sorprendente nelle geometriche regolarità dei moti celesti.
Oggi abbiamo in ballo una sonda spaziale, che in questo mese di novembre si poserà sulla cometa Churyomov-Gerasimenko (67P). La sonda è stata battezzata Rosetta, con riferimento alla storica e pessima italianizzazione della località di Rashid, nei pressi del delta del Nilo, ove fu rinvenuta la stele che consentì, grazie ad una preziosissima traduzione del testo in greco presente sullo stesso documento litico, di decifrare i geroglifici egizi.
L'auspicio è quello di poter decifrare le informazioni che le comete ci portano dallo spazio profondo con la loro stessa composizione, magari sull'origine stessa dell'Universo.
Ora Rosetta si sta avvicinando alla cometa Churyomov-Gerasimenko nel vasto spazio tra le orbite di Marte e Giove, dove sta cominciando a formarsi la coda per effetto del vento solare. E già ha rilevato che non è solo anidride carbonica a comporre l'affascinante pennacchio, ma sono presenti anche formaldeide, metanolo, ammonio e acido solfidrico.
La coda di 67P odora dunque di uova marce e cacca di gatto. E anche un pò di mandorle amare, poichè Rosetta ha "annusato" anche piccole tracce di letale acido cianidrico.
Aspettando ulteriori e più aromatiche notizie dall'approdo della sonda sul nucleo solido, potremmo forse abbandonare il sognante sguardo poetico con cui accompagnano il passaggio delle comete, ma il profumo delle lontane origini dell'Universo ci ammalierà comunque per quello che è.