martedì 20 marzo 2012

Dimmi cosa mangi...












La soddisfazione che si prova quando ci si imbatte in un fatto che dà qualche appiglio ai nostri preconcetti irrazionali può non essere un sentimento molto nobile, ma pur sempre soddisfazione è.

Forse avrete letto qualcosa degli studi più recenti condotti sulla celebre mummia Otzli, il cacciatore di 5000 anni fa ritrovato conservato sul ghiaccaio del Similaun, che hanno stabilto che era intollerante al lattosio. Questo non dovrebbe meravigliare affatto, essendo del tutto normale che gli adulti non producano più l'enzima lattasi, che scinde il lattosio, lo zucchero del latte, nei suoi due componenti semplici, glucosio e galattosio, rendendolo assorbibile. L'enzima è indispensabile nei bambini poi, con l'età, il gene che lo codifica viene "spento", perchè è inutile consumare energia per fabbricare proteine che non servono.
La mutazione che mantiene attiva la produzione di lattasi anche negli adulti si è diffusa solo nelle ultime migliaia di anni, quasi esclusivamente nelle popolazioni che hanno cominciato per prime ad allevare bovini e ovini (Medio Oriente ed Europa centro-settentrionale come nuclei di origine, e relative aree di migrazione), tanto che ci sono differenze geografiche estremamente cospicue nella frequenza di tali mutanti: nel Nord Europa quasi nessuno è intollerante al lattosio, mentre lo sono pressochè tutti gli Africani del Sud e gli Asiatici orientali (sebbene i Cinesi siano stati forse i primi ad intraprendere l'allevamento di animali, disponevano di suini e pollame, quindi non producevano latte e derivati).
Si può facilmente immaginare una forte pressione della selezione naturale nella propagazione della mutazione: una volta che ho imparato ad allevare la mucca, se non posso digerire il lattosio, per superare il periodo di carestia mi tocca ammazzare la mucca; se invece posso sfangare i tempi duri a latte e formaggi, salvo il bovino e mi assicuro la sopravvivenza anche per l'anno successivo.
Quindi avremmo potuto già immaginare che Otzli fosse intollerante al lattosio, dato che 5000 anni fa l'area alpina era ancora esente da mucche, nè viola nè cromaticamente più credibili, da fabbriche di cioccolato gestite da marmotte, si ignoravano i piaceri dello Sbrinz, e agli Svizzeri andava già bene se potevano raccogliere le loro erbe per sfamarsi in silenzio, senza andare a rompere le palle ai ciccioni nelle saune finlandesi.
Un altro tipo di mutazione il cui successo è evidentemente legato all'alimentazione è quella consistente in una duplicazione in più copie del gene (e quindi una sovraproduzione) dell'amilasi, l'enzima che spezzetta le enormi molecole di amido in zuccheri più semplici, nelle popolazioni che hanno storicamente avuto farine di cereali come base quasi esclusiva della loro dieta.

Come si vede, ciò che mangiamo ha tenuto in funzione i meccanismi della microevoluzione anche nelle poche migliaia di anni che ci separano dagli albori dell'agricoltura; e il tipo di cibo che assumiamo influisce in modo abbastanza rapido e diretto sulla capacità di "accendere" o "spegnere", cioè esprimere o no, geni i cui prodotti intervengono nel metabolismo dei nostri alimenti.

Grazie ad una segnalazione su Pikaia, ho scoperto un'interessante pubblicazione del 2008 (1), di un gruppo di ricercatori facenti centro sul Max Planck Institut di Lipsia.
Gli interrogativi a cui si cercava risposta erano, in sintesi: in che misura la differenza di alimentazione tra uomini e scimpanzè (maggior quantità di proteine, cottura dei cibi) influisce sull'espressione differenziale di geni; se tali (eventuali) differenze siano risposte fisiologiche o adattamenti genetici fissati dalla selezione, e quindi se le modificazione delle abitudini alimentari (cioè cambiamenti culturali) abbiano avuto un ruolo nella nostra evoluzione biologica a partire dalla separazione dai parenti più prossimi.
Poichè anche i tesisti più sfigati si prestano malvolentieri ad essere utilizzati come cavie, tocca ricorrere ai soliti topi per gli esperimenti di laboratorio.
Quattro gruppi di topi sono stati sottoposti per due settimane a quattro diversi regimi alimentari: il gruppo di controllo ha continuato a seguire la normale dieta dell'allevamento di roditori dell'Istituto; un secondo gruppo è stato nutrito con la dieta di allevamento degli scimpanzè (da quel che ho capito, l'Istituto gestisce anche lo zoo cittadino), a base di frutta, verdure e yogurt; il terzo ha ricevuto l'alimentazione "umana" della Caffetteria dell'Istituto (umana se non si fa mente locale sul fatto di trovarsi in Germania); il quarto gruppo di topi è stato sottoposto al menù del locale McDonald's, povere bestie.
Trascorse le due settimane, si andava a vedere se c'erano differenze tra i quattro gruppi in termini di geni espressi nel fegato e nel cervello (ma intanto annotiamo che i topi che mangiano da McDonald's aumentano di peso più degli altri).


Riassumo in due parole i risultati importanti per saltare poi alla pralina finale. Nel fegato dei topi, due settimane di alimentazione differenziata fanno sì che su oltre 13000 geni espressi, 830, il 6,3 %, siano diversi tra chi mangia come uno scimpanzè e chi come un uomo (senza differenze significative tra frequentatori di caffetteria e fast food). Poichè tra mammiferi la stragrande parte del genoma è simile, quasi tutti tali geni dei topi hanno iloro omologhi nei Primati; e si vede che questi geni "dieta-inducibili" hanno un tasso di divergenza tra uomo e scimpanzè un pochino più elevato rispetto alla generalità delle differenze genetiche tra noi e Cheetah. Quindi sembra che un certo ruolo nella differenziazione le abitudini alimentari lo abbiano avuto. Non si osservano invece particolari differenze nel cervello (sebbene si sappia da tempo che alcune funzioni cerebrali siano influenzate dall'alimentazione)... tranne un dettaglio.


Nel grafico, tratto dall'articolo, l'altezza delle colonne indica la percentuale di geni che si esprimono in modo diverso in confronti a coppie tra diete (nell'ultimo confronto a destra le due alimentazioni umane sono raggruppate insieme); in verde: nel fegato; in azzurro: nel cervello. La parte della colonna in colore più pallido indica quante differenze dovremmo aspettarci se queste fossero dovute solo al caso e non al trattamento alimentare.

Ebbene, le uniche differenze un pò rilevanti nell'espressione di geni nel cervello sono indotte dal cibo del fast food (e non da quello più internazionale della caffetteria, per quanto teutonica).
Non potete immaginare quanto sia irresistibile la tentazione di lascarsi andare ai propri pregiudizi e sostenere che mangiare da McDonald's ci fa rimbecillire; ma ahimè questi risultati, pur interessanti (ed anche inquietanti), non sono certamente sufficienti ad autorizzare (se la si volesse far passare per seria) una conclusione del genere. Quel tipo di alimentazione, protratta per due settimane, determina un'alterazione nella regolazione di alcuni geni nel cervello: è un dato che fa una certa impressione, ma non si può dire altro...
Ma non potrebbe anche essere che un'alimentazione troppo sbilanciata verso la polenta taragna possa portarci ad indossare cravatte verdi, perdere la capacità di elaborare concetti complessi e a limitare l'espressività a movimenti di estensione del dito medio ?

(1) Somel M, Creely H, Franz H, Mueller U, Lachmann M, et al. (2008) Human and Chimpanzee Gene Expression Differences Replicated in Mice Fed Different Diets. PLoS ONE 3(1): e1504. doi:10.1371/journal.pone.0001504

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