martedì 26 luglio 2011
Così per gioco
In questi giorni abbiamo avuto sotto gli occhi, quasi senza accorgercene, un vero e proprio manuale della costruzione del pregiudizio.
C'è un attentato, immediatamente seguito da una strage. I primi notiziari attribuiscono in automatico quanto accaduto al "terrorismo islamico". C'era stata, per la verità, una fumosa rivendicazione jihadista, ma mi piacerebbe sapere quante sono in realtà le rivendicazioni spurie ed apocrife che si susseguono di qua e di là nelle ore successive ad eventi di questo genere; rimane il fatto che quella più confacente alle aspettative è stata presa per buona.
Non è un fenomeno nuovo, almeno per noi. Ricordo benissimo, un pò di anni fa, una coppia di fidanzati che massacrò la famiglia di lei a Novi Ligure, e la dolce fanciulla piemontese raccontò che erano stati dei tunisini; nonostante la scarsa credibilità della ricostruzione, tutti bevvero immediatamente e si scatenò la furia collettiva. Gianfranco Fini, ancora lontano dalla recente misteriosa ricostruzione di verginità democratica, chiamò in piazza Alleanza Nazionale ad una grande manifestazione "contro i tunisini" (di passaggio, si noti: un efferato crimine immaginariamente commesso da tre o quattro tunisini suscita una rivolta contro "i tunisini": si chiama categorizzazione, ci torneremo più avanti). Non mi risulta che alcuno abbia mai pensato di chiedere scusa, dopo.
Anche più recentemente, per una faida di vicinato ad Erba, il capofamiglia scampato alla strage fu immediatamente additato come il colpevole perfetto, in quanto nordafricano e con precedenti per piccoli reati; era innocente, ma se non avesse avuto la fortuna di essere stato dimostrabilmente fuori dall'Italia quel giorno, forse sarebbe in galera ancora oggi, e liberi gli autoctoni pluriomicidi.
Non seguo la cronaca nera con la stessa passione delle massaie, e questi fatti mi hanno raggiunto per il clamore suscitato quasi mio malgrado, ma chissà quanti altri esempi si potrebbero fare.
La faciloneria con cui le fobie collettive si incanalano nell'attribuzione di colpe, in via del tutto gratuita ed irrazionale, è un serpente che si morde la coda: i mezzi di informazione alimentano paure per rafforzare il potere, compattando l'opinione pubblica contro immaginari nemici esterni, e poi cadono vittime essi stessi delle medesime fobie, in un circolo di pregiudizio che si autoconferma.
Secondo passaggio. L'azione del terrorismo islamico mette in allarme il mondo, è il prodotto di un'organizzazione tentacolare, ramificata, che può minacciare ogni luogo come una rete sotterranea ostile ed onnipresente. "Loro" (eccoci: categorizzazione) ci attaccano, come messa in atto di un progetto, perchè "loro" sono fatti così (categorizzazione). C'è senz'altro un piano ben strutturato degli "altri" per distruggere "noi", i cattivi si organizzano e complottano per minacciare la serenità dei buoni.
Poi questa raffigurazione così favorevolmente terrorizzante si squaglia di colpo. E allora ? Ecco che si tratta del gesto perverso di un folle, un'aberrazione singolare e unica, praticamente casuale (come vogliamo chiamarla ? De-categorizzazione ? Anti-categorizzazione ?). Eppure non è certamente il primo bombarolo paladino della purezza dell'occidente cristiano.
E' solo il nostro etnocentrismo che ci fa vedere le efferatezze altrui come connaturate ed inevitabili, le nostre come accidenti stravaganti.
Non pretendo che Calderoli vada in giro a predicare di radere al suolo tutte le chiese per fermare la minaccia del terrorismo cristiano, come coerenza gli imporrebbe (oggi ci ha pensato Borghezio, a dire la sua, ma l'ha sparata talmente grossa che persino i suoi colleghi smeraldin-cravattuti sono riusciti a comprendere che era una cretinata; e perchè ci arrivino persino loro, ce ne vuole). Ma basta annusare l'aria che tira, basta farsi un giretto in internet tra le migliaia di pagine che vomitano odio xenofobo, basta leggere Libero o La Padania, basterebbe anche solo tendere l'orecchio alle chiacchiere che si sentono al bar, per capire che il signor Breivik non è semplicemente un pazzo, un'eccezione aberrante: probabilmente lo è anche, ma soprattutto è un prodotto di quell'odio, accuratamente alimentato, che fa gridare 'terrorismo islamico' ogni volta che si ha notizia di uno scoppio.
A popolare il proprio orizzonte di nemici e di mostri che spuntano sempre più minacciosi ad ogni quadro del videogame, alla fine si trova qualcuno che vuole giocare la partita.
mercoledì 20 luglio 2011
Anniversari - 20 luglio 1893
Articolo intitolato «Il disastro di ieri alla ferrovia – l'aberrazione di un macchinista», pubblicato su Il Resto del Carlino del 21 luglio 1893.
«Poco prima delle 5 pomeridiane di ieri, l'Ufficio Telegrafico della stazione [di Bologna] riceveva dalla stazione di Poggio Renatico un dispaccio urgentissimo (ore 4,45) annunziante che la locomotiva del treno merci 1343 era in fuga da Poggio verso Bologna. Lo stesso dispaccio era stato comunicato a tutte le stazioni della linea, perché venissero prese le disposizioni opportune per mettere la locomotiva fuggente in binari sgombri dandole libero il passo in modo da evitare urti, scontri o disgrazie. [...] Capo stazione, ingegneri e personale del movimento furono sossopra e chi diede ordini, chi si lanciò lungo la linea verso il bivio incontro alla locomotiva che stava per giungere. Non si sapeva ancora se la macchina in fuga era scortata da qualcuno del personale; e solo i telegrammi successivi delle stazioni di San Pietro in Casale e Castelmaggiore, che annunziavano il fulmineo passaggio della locomotiva, potevano constatare che su di essi stava un macchinista e un fuochista. Ma la corsa continuava e la preoccupazione alla ferrovia cresceva... [...] Alle 5,10 [la locomotiva] entrava dal bivio e passava davanti allo scalo, fischiando disperatamente, con una velocità superiore ai 50 km. Sulla macchina c'era un uomo che, invece di dare il freno, cercare di fermare, metteva carbone.... Era un uomo che correva, che voleva correre alla morte! Il personale lungo la linea agitando le braccia, gridando, gli faceva cenno di fermare, di dare il freno; taluno gli urlò di gettarsi a terra, ma egli rimaneva imperterrito nella locomotiva. Un esperto macchinista, il Mazzoni, che era lungo la linea e lo vedeva correre incontro a morte sicura, gli gridò: "buttati a terra!"; ma il giovanotto - che giovane era lo sciagurato - dalla banchina a lato della piazza tubolare della caldaia tenendosi alla maniglia di ottone, si portò sul davanti della locomotiva sotto il fanale di fronte, attaccato sempre alla maniglia e colla schiena verso la stazione dov'era il pericolo. Al momento dell'urto egli era sulla fronte della macchina e i presenti che lo videro esterrefatti passare dinanzi a loro affermano che proprio al momento dell'urto egli si sporse in fuori, volgendo la testa verso la vettura, contro alla quale andava a dar di cozzo. L'urto, disastroso per la macchina e i carri, fu tremendo per l'uomo. Egli rimase preso fra la macchina e il vagone di la classe schiacciato orribilmente. Accorsero funzionari delle ferrovie, di P.S., guardie, personale viaggiante e manovali e il disgraziato fu tosto riconosciuto. È certo Pietro Rigosi di Bologna, di anni 28, fuochista da parecchi anni e buon impiegato... a Poggio Renatico, mentre il macchinista Rimondini Carlo era sceso un momento, il Rigosi aveva sganciato la locomotiva del treno merci e poi l'aveva lanciata a tutta velocità legando la valvola del fischio, per modo che destò l'allarme per tutta la corsa. Avrebbe potuto pentirsi durante il tragitto e dare il freno (che funzionava bene anche dopo la catastrofe) ma egli non volle. Probabilmente un'improvvisa alterazione di cervello che lo rese crudele contro se stesso, perché, per quanti pensieri di famiglia egli avesse, non giustificavano certo un tentativo di suicidio che poteva costare la vita a molte altre persone».
domenica 3 luglio 2011
L'individualità del dividuo
Dictyostelium discoideum è ormai una vecchia conoscenza per i lettori di questo blog. Se ne era parlato qualche tempo fa, a proposito della capacità di alcune di queste amebe di seminare i batteri di cui si nutrono nei nuovi substrati che vanno a colonizzare. Riassumo brevemente: questo microrganismo trascorre la sua quieta routine come ameba unicellulare, cibandosi dei batteri che trova nella sostanza organica in decomposizione. Quando le condizioni ambientali si fanno sfavorevoli, emette un segnale chimico che induce le singole cellule ad aggregarsi a migliaia, formando un corpo cellulare unico con moltissimi nuclei (pseudoplasmodio), il quale emigra strisciando in cerca di nuove aree da colonizzare. Qui viene prodotto un corpo fruttifero che libera le spore destinate a produrre le nuova generazione di amebe unicellulari (e le cellule che formano la base e lo stelo, cioè le parti non riproduttive del corpo fruttifero, si "sacrificano" in favore delle sorelle).
Nel post precedente si era posta l'attenzione sul fatto che alcune di queste amebe, prima di aggregarsi per migrare, trattengono batteri vivi da portare con sè e disseminare nel nuovo substrato, e si erano anche messe in evidenza alcune differenze di comportamento tra le colonie "allevatrici" e quelle "non allevatrici".
Rimaneva però aperta una questione: perchè, al momento della "chiamata" per l'aggregazione non si formano pseudoplasmodi misti, ed i gruppi di "allevatori" e "non allevatori" tendono a rimanere separati ?
In realtà esistono dei sistemi di riconoscimento sulla superficie delle cellule che permettono alle amebe di aggregarsi preferenzialmente con le proprie 'parenti' più strette e quindi di mantenere una certa tendenza alla conservazione di proprie caratteristiche di "individualità". Uno studio recentemente pubblicato da Hirose et al. identifica tale sistema (o uno dei sistemi) con due proteine altamente polimorfiche (che cioè possono esistere in molte forme diverse in individui diversi), le quali hanno carattersitiche molto simili al complesso maggiore di istocompatibilità degli organismi superiori (il nostro sistema di anticorpi, in parole molto povere).
Il primo straordinario senso di fascinazione è dato dal fatto che i meccansimi basilari del riconoscimento del "sè" dal "non-sè" siano addirittura precedenti alla costituzione di un qualche cosa che possa essere propriamente chiamato individuo, fin dalle prime "aspirazioni" ad una vita pluricellulare, e che siano mantenuti grossomodo simili in tutta la varietà delle ramificazioni della vita.
Ma la seconda considerazione è: qual è il vantaggio della riaggregazione tra 'consanguinei' ? Non sarebbe meglio avere colonie dotate già in partenza di una certa variabilità genetica al proprio interno, e quindi dotate di una maggiore potenzialità adattativa complessiva ?
L'ipotesi di Hirose e dei suoi colleghi è che la tendenza alla conservazione dell'uniformità possa essere un meccanismo di difesa da possibili linee cellulari "profittatrici", specializzate nella formazione di spore riproduttive e non al "sacrificio" della formazione dello stelo del corpo fruttifero: il meccanismo del riconosimento del "sè" potrebbe essere quindi una rinuncia ad una diversificazione potenzialmente utile, per difendersi dagli egoisti.
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