domenica 3 luglio 2011

L'individualità del dividuo



Dictyostelium discoideum è ormai una vecchia conoscenza per i lettori di questo blog. Se ne era parlato qualche tempo fa, a proposito della capacità di alcune di queste amebe di seminare i batteri di cui si nutrono nei nuovi substrati che vanno a colonizzare. Riassumo brevemente: questo microrganismo trascorre la sua quieta routine come ameba unicellulare, cibandosi dei batteri che trova nella sostanza organica in decomposizione. Quando le condizioni ambientali si fanno sfavorevoli, emette un segnale chimico che induce le singole cellule ad aggregarsi a migliaia, formando un corpo cellulare unico con moltissimi nuclei (pseudoplasmodio), il quale emigra strisciando in cerca di nuove aree da colonizzare. Qui viene prodotto un corpo fruttifero che libera le spore destinate a produrre le nuova generazione di amebe unicellulari (e le cellule che formano la base e lo stelo, cioè le parti non riproduttive del corpo fruttifero, si "sacrificano" in favore delle sorelle).
Nel post precedente si era posta l'attenzione sul fatto che alcune di queste amebe, prima di aggregarsi per migrare, trattengono batteri vivi da portare con sè e disseminare nel nuovo substrato, e si erano anche messe in evidenza alcune differenze di comportamento tra le colonie "allevatrici" e quelle "non allevatrici".
Rimaneva però aperta una questione: perchè, al momento della "chiamata" per l'aggregazione non si formano pseudoplasmodi misti, ed i gruppi di "allevatori" e "non allevatori" tendono a rimanere separati ?
In realtà esistono dei sistemi di riconoscimento sulla superficie delle cellule che permettono alle amebe di aggregarsi preferenzialmente con le proprie 'parenti' più strette e quindi di mantenere una certa tendenza alla conservazione di proprie caratteristiche di "individualità". Uno studio recentemente pubblicato da Hirose et al. identifica tale sistema (o uno dei sistemi) con due proteine altamente polimorfiche (che cioè possono esistere in molte forme diverse in individui diversi), le quali hanno carattersitiche molto simili al complesso maggiore di istocompatibilità degli organismi superiori (il nostro sistema di anticorpi, in parole molto povere).
Il primo straordinario senso di fascinazione è dato dal fatto che i meccansimi basilari del riconoscimento del "sè" dal "non-sè" siano addirittura precedenti alla costituzione di un qualche cosa che possa essere propriamente chiamato individuo, fin dalle prime "aspirazioni" ad una vita pluricellulare, e che siano mantenuti grossomodo simili in tutta la varietà delle ramificazioni della vita.
Ma la seconda considerazione è: qual è il vantaggio della riaggregazione tra 'consanguinei' ? Non sarebbe meglio avere colonie dotate già in partenza di una certa variabilità genetica al proprio interno, e quindi dotate di una maggiore potenzialità adattativa complessiva ?
L'ipotesi di Hirose e dei suoi colleghi è che la tendenza alla conservazione dell'uniformità possa essere un meccanismo di difesa da possibili linee cellulari "profittatrici", specializzate nella formazione di spore riproduttive e non al "sacrificio" della formazione dello stelo del corpo fruttifero: il meccanismo del riconosimento del "sè" potrebbe essere quindi una rinuncia ad una diversificazione potenzialmente utile, per difendersi dagli egoisti.

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