giovedì 6 dicembre 2012
Ciurma, è finito il sushi
Per il cuoco, l'aragosta è pesce. In realtà, avrebbe molta più ragione l'aragosta a chiamare pesce il cuoco, poichè, come Vertebrato, egli è molto più strettamente affine ai naselli che avrebbero potuto finire in pentola, in contingenze situazionali alternative che sarebbero state all'aragosta molto gradite, al posto del prelibato Crostaceo, il quale, come Artropode, ha invece qualche parentela con lo scarafaggio testè schiacciato col mestolo, con gesto elegante e fulmineo, dallo chef di classe sopraffina.
Come si vede, quello della pesca è un mondo che va un pò all'incontrario, e infatti, per capire come stanno andando a finire i pesci, converrà iniziare a parlare di mucche.
William Forster Lloyd, matematico dilettante, raffigurò in un pamphlet nel 1833 (1), il seguente scenario: un pascolo comune, a cui possono liberamente accedere, con le loro mucche, tutti i mandriani di un villaggio.
Che cosa succede quando si raggiunge il limite del numero di mucche che quel pascolo può sostentare ?
Se si supera tale limite, il pascolo diventerà sovrasfruttato, l'erba verrà mangiata più velocemente di quanto possa crescere, e peggiorerà la qualità dell'alimentazione di tutti gli animali. Ogni mandriano che si trovi nella possibilità di acquisire una mucca in più si domanderà che cosa gli conviene fare.
Il beneficio di avere una mucca in più sarà tutto suo, mentre il danno del deterioramento del pascolo sarà ripartito fra tutti. Allo stesso modo ragioneranno da uomini razionali tutti gli altri mandriani, e sebbene tutti siano consapevoli di rovinare il pascolo comune, e privarsi così della risorsa fondamentale per la propria sussistenza, non avranno dubbi nell'approfittare dell'opportunità di avere un maggiore profitto.
Il tema fu ripreso da Garrett Hardin nel 1968, in un classico degli albori dell'ecologia, "La tragedia dei beni comuni" (2). Come si può risolvere il dilemma tra massima convenienza personale immediata e conservazione delle risorse che la generano ? Secondo Hardin la questione è "tecnicamente priva di soluzione".
Una delle possibilità più intuitive è quella di suddividere il pascolo comune in tanti appezzamenti, ed ogni mandriano si gestirà il suo come meglio crede: in sostanza: privatizzazione. Ma non tutti i beni comuni possono essere gestiti così.
Si può suddividere un fiume in tanti segmenti gestiti da singoli privati, ma chi sversa rifiuti non inquina il suo pezzettino, ma tutti gli altri a valle.
L'aria non si può recintare, e l'acqua delle falde sotterranee può avere comunicazioni e provenienze quasi imperscrutabili: chi sporca qui, fa danno di là. E come si può lottizzare e privatizzare a beneficio di pochi l'accesso a beni indispensabili per la sopravvivenza di ciascuno ? Memento per il referendum sull'acqua potabile dello scorso anno.
Una possibilità alternativa è quella di una rigida regolamentazione dell'utilizzo dei beni comuni.
In Italia ne abbiamo molti esempi, le comunità locali hanno saputo darsi regole rigorose per la gestione sostenibile delle risorse ed evitare il sovrasfruttamento: dal pascolo al taglio dei boschi, molti di questi regolamenti locali hanno funzionato perfettamente per secoli.
Qualche problema in più si pone oggi, con le risorse per generare profitto che si posssono andare a prendere dall'altra parte del mondo, e i Paesi che, ad esempio, hanno devastato i propri territori in nome dello sviluppo industriale possono sfacciatamente estorcere per quattro soldi terre da coltivare in Africa.
Le risorse ittiche e gli sgangherati e maldestri tentativi di regolarne lo sfruttamento sono una sintesi abbastanza completa della tragedia dei beni comuni.
Il pescabile può essere assoggetato a regole e ripartizioni nelle acque territoriali degli Stati mentre, libero negli oceani, è un bene comune accessibile a tutti.
E il dilemma equivalente all'aggiungere una mucca in più nel pascolo è quello di pescare un pesce in più rispetto alla capacità riproduttiva della popolazione. Sebbene ciascun pescatore sappia di depauperare ed erodere irrimediabilmente la propria fonte di sussistenza, nessuno rinuncerà a pescare di più.
Guardiamo più da vicino.
La pesca artigianale, su piccola scala locale, ha scarto pressochè zero (praticamente tutto il pescato viene venduto o comunque utilizzato), e storicamente ha fornito buona parte dell'apporto proteico nell'alimentazione di molti paesi del sud del mondo, in Africa e in Asia; e inoltre ha offerto preziose alternative per l'approvvigionamento di cibo in aree colpite da siccità che mettono in ginocchio l'economia agricola e pastorale, come più volte è avvenuto nel Corno d'Africa negli ultimi decenni, ad esempio.
Ma oggi si aggirano per i mari enormi pescherecci che sono delle vere industrie galleggianti di Europa, Giappone, Russia, Corea del Sud e ormai anche Cina, che tirano su in una notte quello che i piccoli pescatori locali catturano in un anno. Come se non bastasse, nella pesca industriale più della metà, se non i due terzi, del pescato è considerato scarto e viene gettato via perchè di valore commerciale insufficiente.
Come risultato, attualmente si cattura due volte e mezzo quanto le specie pescate siano in grado di riprodurre. Negli ultimi vent'anni, la biomassa complessiva del merluzzo in Africa Occidentale è diminuita dell'80% e quella dello sgombro nel Pacifico meridionale addirittura del 90%. Queste rilevazioni si sono fatte più attente dopo lo shock subito dai canadesi di Terranova negli anni '70. L'isola di Terranova viveva principalmente della pesca e dell'industria del merluzzo: aveva qualcosa come 20 impianti per la produzione di olio di fegato di merluzzo (argh !). Da 400 anni o più i pescatori baschi e bretoni si spingevano fino all'estremità nordoccidentale dell'Atlantico per attingere a quegli imponenti banchi che già avevano imparato a conoscere.
Con il popolamento europeo di Terranova, la pesca del merluzzo divenne sempre più fiorente: da 100mila esemplari all'anno nel '700, le magnifiche sorti e progressive portarono il prelievo a 300mila tonnellate all'anno a metà del '900, nella felice idea che le risorse marine fossero pressochè illimitate, fino a 800mila tonnellate a fine anni '60, nel crescendo di ricchezza e floridità che doveva essere ineluttabile. Poi basta. I grandi banchi di merluzzi di Terranova, dagli anni '70 sono scomparsi. Esauriti. Finiti. Chiuse le fabbriche di olio di fegato (tiè !). Dal 1992 vige una moratoria, nell'ulteriore felice idea che basti smettere di pescare per un pò perchè i pesci ritornino. Ma drastiche alterazioni nelle catene alimentari hanno di solito effetti irreversibili. Oggi la sussistenza dell'isola volge le spalle al mare e guarda verso i boschi dell'entroterra per la produzione di carta, perchè i merluzzi non sono mai tornati.
Ebbene, oggi che sappiamo per certo che le risorse dei mari non sono affatto inesauribili, e che il sovrasfruttamento le depaupera irrimediabilmente, come ci comportiamo, forti di tale consapevolezza ?
Peschiamo sempre più intensivamente.
L'Unione Europea, tra i principali responsabili del sovrasfruttamento, applica da 40 anni una politica basata sulle quote, analoga a quella per l'agricoltura. Ma i totali di prelievo ammessi sono più alti di circa il 50% rispetto a quanto raccomandato dagli scienziati, e per di più i controlli chiudono un occhio, e ancor più volentieri tutti e due, sugli sforamenti.
Tra le misure previste per arginare il futuro collasso del settore, prevale, manco a dirlo, quella più liberista: l'equivalente della lottizzazione e privatizzazione.
Concessioni di pesca trasferibili, cioè quote che i pescatori potranno rivendere. L'esito più ovvio è che queste finiranno per concentrarsi nelle mani di pochi colossi industriali man mano che i piccoli pescatori artigianali getteranno la spugna; vale a dire che si favorisce la pratica più dannosa a spese di quella più rispettosa per la risorsa che si vorrebbe salvaguardare.
Ma noi abbiamo sempre qualcuno su cui scaricare i disastri della nostra avidità: il sud del mondo.
Dal 1979, l'Unione Europea stipula accordi di partnerariato con una quindicina di Paesi di Africa, Caraibi, Pacifico, con i quali noi, nella nostra infinita generosità, incentiviamo lo sviluppo della loro Pesca.
Funzionano grossomodo così: in cambio di un pò di soldi ai Governi di tali Paesi (e senza troppe preoccupazioni nè su come i fondi verranno impiegati nè su come tali Governi detengano il potere), gli Europei acquisiscono concessioni di pesca per quantità ben definite che tanto nessuno sarà mai in grado di controllare. E le grandi navi della nostra pesca industriale vanno a fare concorrenza ed impoveriscono i piccoli pescatori locali. Niente male come incentivo allo sviluppo.
Ma può anche andare peggio. Dove lo Stato si è di fatto dissolto, in Somalia, gli Europei pescano su scala industriale senza alcuna licenza, o con permessi fasulli dei vari signorotti e feudatari delle mafie locali.
Da anni sentiamo parlare dei "pirati somali" e delle loro imprese ai danni dei commerci occidentali, e forse ci ha affascinato l'idea romantica che all'alba del ventunesimo secolo potessero ancora esistere i pirati, come da fumettone eroico, anche se magari lo stereotipo sarà ormai orfano dei gadget più folkloristici, quali gambe di legno, protesi uncinate e bandiere nere con teschio e tibie.
E da dove saranno mai spuntati fuori, i pirati in Somalia ?
Per la maggior parte sono ex-pescatori, a cui la pesca industriale condotta indiscriminatamente da Europei e Giapponesi ha sottratto i mezzi di sussistenza, e che si sono riconvertiti nella pirateria per sopravvivere e per difendere le loro coste.
Dal 2008, l'Unione Europea difende i traffici marittimi nella zona con l'operazione "Atalanta" (150 milioni di Euro l'anno), che impegna incrociatori ed aerei da pattugliamento per prevenire gli attacchi dei pirati.
Già che sono lì, le marine militari europee interverranno anche a contrastare la pesca industriale illegale ? Purtroppo no: "non fa parte del mandato" (3).
(1) W.F. Lloyd, Two Lectures on the Checks to Population (Oxford University Press), 1833
(2) G. Hardin, The Tragedy of the Commons (Science, 13, Vol. 162, N.3859, pagg. 1243-1248), 1968
(3) Jean-Sébastien Mora, Le devastazioni della pesca industriale in Africa (Le monde diplomatique, novembre 2012, pagg. 10-11)
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Dalla teoria, che mi ha fatto ricordare quel poco che ho capito leggendo "Governing the Commons” di Elinor Ostrom (premio Nobel per l'economia 2009), fino alle ricadute pratiche sulla pesca del disastroso approccio liberista a qualsiasi attività umana.
RispondiEliminaUn bel post completo che spiega quanto siamo colpevoli: sappiamo che stiamo segando il ramo dove siamo seduti e, nonostante questa nostra consapevolezza, continuiamo a farlo.
Dopo i merluzzi, prima o poi, lo shock sarà per la nostra specie. La differenza tra noi e i merluzzi sarà che noi i problemi ce li siamo cercati.
Esattamente, Gimmi. Come sempre, grazie per l'attenzione.
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