lunedì 20 gennaio 2014
Tenetevi la vostra crescita
La notizia è di novembre, ma evidentemente era talmente pericolosa da dovere essere fatta passare sotto silenzio sulla stampa occidentale: le maggiori città cinesi, asfissiate da un inquinamento dell'aria insopportabile, hanno stabilito un limite massimo alle immatricolazioni di nuove automobili private.
Ad esempio Pechino, oltre a stabilire un limite annuo all'immatricolazione di nuove automobili, ha fissato un tetto massimo invalicabile di non più di 6 milioni di autovetture circolanti (oggi sono circa 5 e mezzo); inoltre, sul contingente fissato per le nuove immatricolazioni, il 40 % è riservato a veicoli alimentati con "nuove energie" (elettrici, ibridi, ecc.).
A Pechino, capitale tradizionalista ed egualitaria, le nuove targhe disponibili vengono attribuite per sorteggio; il proverbiale senso degli affari dei cinesi del sud fa sì che a Shanghai le targhe da assegnare siano invece messe all'asta.
Qualche collega che frequenta la Cina per lavoro mi ha raccontato che c'è già una certa proliferazione di Ferrari nuove fiammanti che circolano senza targa: i capimafia di varie risme possono sempre contare su molti complici occhi chiusi per aggirare le limitazioni impunemente ed in tutta tranquillità.
Ma, al di là dei privilegi personali, l'imposizione di un limite all'espansione dei consumi, proprio nel più vasto e ricco dei famosi "nuovi mercati", ci rende necessaria qualche riflessione. Innanzi tutto, una minima, tardiva e forse velleitaria, salvaguardia dell'aria da respirare rende necessario bloccare le vendite di una delle merci più ricche e profittevoli. Di fronte allo stato di necessità, l'automobile (merce) deve cedere il passo alla salute (bene). Tanto per ricordarci di non cadere nel tranello della pretesa sinonimia tra beni e merci. Le merci sono (come dice la parola) ciò che si commercia, si compra e si vende, e non necessariamente sono beni; i beni possono, ma non necessariamente, essere merci e non necessariamente si vendono o si consumano.
In secondo luogo, questa vicenda è il paradigma di quanto la crisi economica di questi anni sia prima di tutto una crisi ambientale. Non è possibile pretendere di continuare ad espandere i consumi all'infinito. Abbiamo ampiamente superato il punto di saturazione consentito dalle dimensioni del pianeta, e bisogna semplicemente rassegnarsi a trovare un nuovo punto di equilibrio economico su un livello di consumi molto più basso dell'attuale.
Gli economisti possono ancora esercitarsi nei loro salti mortali teorici sulla ripresa della crescita, ma i fisici dovrebbero rimetterli sull'attenti (e magari anche schiaffeggiarli per miglior salute): l'economia non può violare le leggi della fisica.
Per ultimo ma non da ultimo, bisogna osservare che sono gli ex - "paesi in via di sviluppo" che si trovano oggi a sperimentare più direttamente questi limiti fisici ed ambientali. La strada che l'Occidente ha sempre percorso, nel paio di secoli della sua industrializzazione impetuosa, è stata quella di scaricare su altre parti del mondo sia i costi sociali che quelli ambientali dei propri profitti, tra colonialismo, post-colonialismo ed imposizione forzata del modello economico liberista. Paesi, come la Cina o l'India o il Brasile, che si affacciano oggi a quei tassi insostenibili di incremento dei consumi, hanno addosso il peso di avere già subito quei gravami, da parte nostra; e non hanno (quasi) più altre parti del mondo su cui scaricarli ulteriormente.
E quindi si scontrano faccia a faccia, molto più di quanto abbiamo fatto noi, con quei limiti fisici che vincolano lo sviluppo economico; e sono costretti ad adeguarsi, non certo per spirito umanitario, nè per raffinata coscienza ambientalista, ma per pura e semplice necessità. La limitazione all'immatricolazione di automobili nelle grandi città ne è un emblema: minore aumento di ricchezza, e più benessere reale, nel senso di migliori (o meno disastrose) condizioni di vita. Meno automobili, aria meno appestata. Meno merci, più beni.
E salutatemi il signor Marchionne.
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