martedì 10 febbraio 2015

Voi siete qui


L'Isola di Pasqua è il luogo abitabile più lontano da qualsiasi altro luogo abitabile al mondo. A ovest, le isole Pitcairn e Henderson distano quasi 2100 km; a est, la costa del Cile è a 3600 km; ancora più lontani a ovest gli altri arcipelaghi della Polinesia orientale, le Isole della Società e le Marchesi, e le Hawaii a nord-ovest. Pasqua sorge da un cono vulcanico che ha la sua base a circa 2000 m di profondità ed emerge con tre crateri, inattivi da 100mila anni, fino ad un altitudine massima, modesta rispetto alle isole polinesiane, di circa 500 m sul livello del mare, e che delimitano il territorio grossomodo triangolare dell'isola, un pò più di 160 km quadrati. Le coste sono scoscese e non presentano lagune nè barriere coralline.
I primi colonizzatori umani, polinesiani provenienti dalle Isole Marchesi o da Pitcairn, arrivarono sull'isola probabilmente intorno al 900 d.C. Da allora e fino al primo contatto con gli europei nel 1722, non ci sono tracce di scambi commerciali con altri popoli, nè di manufatti provenienti da altre isole. Il popolo di Rapa Nui rimase completamente isolato e potè contare solo sulle risorse disponibili sul proprio territorio.

Anche il pianeta Terra è isolato e qualsiasi eventuale altro luogo abitabile è irraggiungibile, e non è ipotizzabile che i suoi abitanti possano attingere ad altre risorse oltre a quelle disponibili sul pianeta stesso.

Ma rispetto ai terrestri, i Rapa Nui godevano di un certo vantaggio: oltre alle risorse generate dalla produttività primaria dell'isola, cioè dall'energia del sole assorbita con la fotosintesi dalle piante e dalle alghe, che è alla base di tutte le catene alimentari, potevano nutrirsi anche grazie alla pesca; cioè procurarsi risorse generate dalla produttività primaria di altri luoghi. Mancando habitat pescosi sottocosta, dovevano spingersi al largo; ma per gente che aveva traversato mezzo Pacifico per arrivare fin lì, costruire imbarcazioni per la pesca in alto mare era un gioco da ragazzi. Non disponevano di mezzi per impermeabilizzare il fasciame, quindi le canoe polinesiane erano costruite in un pezzo solo: un grande tronco d'albero sagomato a forma di scafo e scavato all'interno per alloggiare gli occupanti. Poi uno o due bilancieri potevano essere fissati ai lati per stabilizzare la barca.
Infatti, i resti contenuti nelle fosse dell'Isola di Pasqua dove venivano gettati i rifiuti, documentano, con ossa di delfini e tonni, una intensa attività di pesca d'altura, almeno per i primi secoli. Poi, gli scarti alimentari da animali d'alto mare via via spariscono.

I terrestri, invece, non possono attingere ad altre risorse che quelle prodotte dalla produttività primaria della Terra stessa. Noi non possiamo andare a "pescare" altrove.

Le valutazioni sul popolamento massimo raggiunto dall'Isola di Pasqua sono molto variabili, ma le più affidabili stimano 15000 abitanti o forse più, quindi una densità vicina ai 100 abitanti/kmq, grossomodo metà di quella dell'Italia attuale. Su quali risorse potevano contare oltre alla pesca ? La spedizione originaria era stata quasi certamente programmata, e i coloni avevano portato con sè il necessario per avviare gli allevamenti tipici delle isole di provenienza. Coltivavano piante da tubero: patate dolci, taro e igname; canna da zucchero; l'isola sarebbe troppo ventosa per la coltivazione del banano, ma riuscivano ugualmente a farlo crescere all'interno delle caldere vulcaniche, al riparo; e portarono come animali da carne polli e ratti (via, non siate schizzinosi: può darsi che anche qualcuno dei nostri nonni ne abbia mangiati durante la guerra; cure richieste per l'allevamento nessuna, si riproducono facilmente... d'altronde è improbabile che siano arrivati come clandestini: una canoa, per grande che sia, può ospitare un ratto per un paio di settimane di navigazione senza che nessuno degli occupanti se ne accorga ?). Gli ossi di pollo e ratto costituivano comunque una frazione molto piccola dei rifiuti stratificati nelle fosse, almeno inizialmente. Prevalevano, oltre ai pesci, i resti di uccelli selvatici. Ce n'erano sei specie terrestri, tutte scomparse, e 25 di uccelli marini, di cui una sola ancora nidificante sull'isola.
La natura vulcanica dell'isola assicurava un suolo ricco di minerali e fertilissimo. Su questo terreno fertile i primi colonizzatori polinesiani trovarono infatti una fitta foresta. I resti di legno bruciato ed i pollini trovati negli strati antichi dei sedimenti fangosi delle paludi testimoniano la presenza di 21 specie di alberi di alto fusto, tra le quali probabilmente la palma più grande del mondo, endemica ed oggi estinta.
Ma all'arrivo dell'esploratore olandese Roggeveen nel 1722, poche migliaia di sopravvissuti vivevano in condizioni miserevoli, e su tutta l'isola, a parte i banani ancora coltivati nei vulcani, non esistevano specie vegetali più grandi di arbusti di un paio di metri.

Quando coltiviamo una pianta annuale, come un ortaggio qualsiasi, la sfruttiamo per la nostra alimentazione, poi la riseminiamo per la stagione successiva: utilizziamo parte dell'energia accumulata da quella pianta nel corso dello stesso anno. Ma quando si abbatte un albero d'alto fusto per sfruttarne le risorse (legno, corteccia, eccetera) si attinge in un colpo solo ad energia accumulata nel corso di molti decenni: è un pò come contrarre un debito con il nostro ambiente.

La deforestazione dell'Isola di Pasqua procedette inizialmente per guadagnare spazio per le coltivazioni, e per ottenere legna da ardere e grossi tronchi per la costruzione di canoe per la pesca, nonchè funi e tessuti che si ricavavano dalle cortecce. Man mano che le foreste si riducevano, il suolo era sempre più esposto all'erosione dovuta al vento e alla pioggia; veniva a mancare la sostanza organica portata dalle foglie e dal legno marcescenti; e quindi le rese delle coltivazioni diventavano via via inferiori.
Probabilmente la pratica di innalzare i moai, le caratteristiche statue simboliche raffiguranti gli antenati, che dovevano proteggere le rispettive comunità di provenienza, iniziò molto presto, forse tra il 1000 e il 1100; ma lo stato in cui è rimasta "fotografata" questa ritualità nel momento in cui si è interrotta di colpo, è rivelatore: metà degli 800-900 moai esistenti si trovano nella loro sede definitiva, su piattaforme lungo le coste tutto intorno all'isola; l'altra metà è attorno all'unica cava di roccia tufacea dove venivano scolpiti, o incompleti o finiti ma mai trasportati a destinazione. Vuol dire che nel giro di qualche tempo il loro numero sui vari ahu, le piattaforme da dove vegliavano sulle sorti degli isolani, era destinato a raddoppiare: era in atto un disperato parossismo nella fabbricazione di statue propiziatorie.
Il trasporto di queste statue, che pesavano in media 10 tonnellate (e la tendenza era quella di farne sempre più grandi), avveniva ad opera di centinaia di manovratori, che le trascinavano con grosse funi su binari di legno appositamente preparati, che potevano essere lunghi fino a una quindicina di kilometri per raggiungere le piattaforme più lontane dalla cava. La produzione di funi e binari richiedeva ulteriori sacrifici di alberi.
Scenario che possiamo immaginare facilmente: a seguito della deforestazione, l'agricoltura diventa sempre più povera, e si abbattono sempre più alberi per guadagnare nuova terra da coltivare; di conseguenza gli uccelli selvatici scompaiono, e anche la caccia fornisce sempre meno cibo; i sacerdoti, che vantano un canale di comunicazione privilegiato con il cielo, promettono un futuro di prosperità a condizione di guadagnarsi la benevolenza del regno dei morti, onorando gli antenati con statue votive; questa pratica dissipa un'enorme quantità di energie ed aumenta il fabbisogno alimentare, e contemporaneamente richiede l'abbattimento di un numero sempre maggiore di alberi, peggiorando sempre di più la crisi ambientale dell'isola. La progressiva riduzione del numero degli alberi non permette più la costruzione di canoe per pescare, e nemmeno per andarsene. La deforestazione si completa intorno al 1500 o poco dopo; l'agricoltura dà raccolti sempre più miseri, e non ci sono altre risorse se non i polli e i ratti. Non fosse per i moai, l'Isola di Pasqua sarebbe probabilmente famosa per i pollai: vere e proprie strutture fortificate, tutte in pietra e circondate di mura per impedire furti, molto più solidi delle case di legno e paglia.
Intorno al 1680, un colpo di stato militare abbatte, visto lo scarso rendimento nell'assicurazione di prosperità, la casta dei sacerdoti, e si scatena la guerra civile tra i vari clan. Dopo i ratti, l'altra specie di mammifero presente sull'isola, fino allora inutilizzata, diventa fonte di cibo. Ancora oggi l'insulto più sanguinoso che i nativi possono rivolgersi, suona come: "Mi è rimasta fra i denti un pò di carne di tua madre".
Gli ossi stratificati nelle fosse dei rifiuti parlano chiaro.

Chissà quali dibattiti accompagnarono l'abbattimento degli ultimi alberi rimasti. Chissà se qualcuno avrà manifestato confidenza nella capacità della tecnologia di risolvere in un prossimo futuro qualsiasi problema si stesse generando; magari qualche altezzoso capetto periferico avrà inveito contro gufi e rosiconi che seminano disfattismo e ostacolano lo sviluppo economico del Paese. Qualcuno avrà sostenuto che non era il caso di alterare i comportamenti usuali, poichè non era sufficientemente dimostrato che la scomparsa degli alberi avrebbe prodotto effetti tanto disastrosi.
Anche sulla Terra hanno assunto ruoli-guida dei mistici inspiegabilmente autorevoli che alimentano false credenze secondo cui dobbiamo continuamente aumentare i nostri consumi per assicurarci un futuro di prosperità e benessere.

Si potrà dire che il collasso della civiltà di Rapa Nui, da florida comunità di decine di migliaia di persone prosperata in completo isolamento, a un paio di migliaia di derelitti sopravvissuti alla disperazione del cannibalismo nel momento del primo contatto con gli europei, sia la triste storia della mancanza di consapevolezza sulle conseguenze di ciò che si sta facendo sul proprio ambiente. Noi oggi, abitanti della isolata Terra, abbiamo dalla nostra un bagaglio di conoscenze e di tecnologia che i più marginali dei polinesiani non potevano avere.
Infatti, cinque anni fa, un vasto gruppo di scienziati di diverse nazioni ha provato ad individuare nove parametri cruciali nel deterioramento del pianeta (1. Perdità di biodiversità; 2. Consumo di suolo; 3. Consumo di acqua dolce; 4. Cicli dell'azoto e del fosforo; 5. Ozono nella stratosfera; 6. Acidificazione degli oceani; 7. Effetto serra e cambiamento climatico; 8. Inquinamento chimico; 9. Accumulo di aerosol in atmosfera), provando a definire per ciascuno di essi delle soglie di sicurezza da non oltrepassare per il mantenimento di una ragionevole vivibilità della Terra.

Oggi, a cinque anni di distanza, noi terrestri consapevoli ed istruiti abbiamo già sforato quattro di questi nove limiti di pericolo: concentrazione di CO2 in atmosfera, il fattore-guida dell'effetto serra (7); sversamento di azoto nelle acque superficiali (principalmente da dilavamento di fertilizzanti) (4); tasso di estinzione di specie e perdita di biodiversità (1); e, da quest'anno, tasso di deforestazione (2).

Nel mappamondo, in giallo le zone in cui le aree forestali si stanno perdendo a ritmo potenzialmente pericoloso; in rosso le aree già gravemente oltre la soglia di rischio.
E i sacerdoti della superstizione del libero mercato continuano ad allettarci con immaginari futuri di benessere, a condizione di consumare sempre di più, "crescere" alimentare lo "sviluppo"; impavidamente e volontariamente incuranti della limitatezza del nostro sferico contenitore roteante nell'universo.
Voi intanto studiatevi la ricetta del ratto alla panna (vi assicuro che esiste). Tanto, cucinarsi gli Homo sapiens pare essere facile. In tutti i sensi.

Bibliografia:

- Jared Diamond - Collasso - Einaudi 2007
- http://blogs.scientificamerican.com/observations/2010/03/19/is-earth-past-the-tipping-point/
- http://blogs.scientificamerican.com/observations/2015/01/15/humans-cross-another-danger-line-for-the-planet/

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