Insomma, il concetto stesso di "sovranità alimentare" sarebbe stato già abbastanza ridicolo per conto suo, anche se non si fosse piazzato a dirigere il Dicastero, tanto per esaltare l'effetto comico, un guitto da baraccone che di professione fa il cognato. Si ignora quali altri titoli possa vantare.
La scorsa settimana il Ministro ha vantato la sua iniziativa di proibire, per proteggere noi consumatori non si sa bene da che cosa, la carne coltivata in vitro. Riconosco che l'idea di mangiare carne ottenuta da colture cellulari di mucca o di maiale può piacere o non piacere, ma non si capisce proprio dove sia il pericolo. Colture cellulari umane, ad esempio di pelle (derma più epidermide) o di cartilagini, vengono ormai comunemente utilizzate in medicina per rigenerare tessuti lesionati, quindi ci sono tanti pazienti che le hanno incorporate nel proprio corpo; non si vede quale problema ci sia a mangiare cellule coltivate di pollo o di babirussa.
Infatti il Ministro, nella sua auto-apologia davanti ai microfoni, non ha saputo fornire alcuna spiegazione minimamente ragionevole; non è riuscito a dire altro che "non fa parte delle nostre tradizioni".
Ne segue che, secondo la forma mentis (ammesso che ne abbia una) del Ministro, tutto ciò che "non fa parte delle nostre tradizioni" va proibito.
La prima considerazione, ovvia, è che se avessimo sempre applicato questo principio ci troveremmo ancora nell'età della pietra.
Ma c'è qualcosa di più. Questo Ministro è lo stesso che mesi fa paventava "sostituzioni etniche", che fomentava il razzismo con il pretesto che la parola "razza" è presente nella Costituzione (è presente solo per indicarla come fattore di cui non tenere conto), e allora si capisce che anche l'idea che ciò che non è conforme alle tradizioni debba essere vietato è un prodotto dello stesso tarlo mentale, che si mangia i pensieri sempre nello stesso modo: l'idea della famigerata "identità", che a volte assume i contorni del biologico, a volte quelli del culturale, ma è sempre il miraggio, del tutto illusorio, di una qualche eredità più o meno sacra, pervenuta da una immaginaria età dell'oro del passato e che bisogna conservare in purezza evitando ogni contaminazione. C'è il rifiuto di riconoscere l'ovvio: noi tutti siamo, sia dal punto di vista dell'eredità biologica sia da quello dell'eredità culturale, pur se per vie e meccanismi diversi, dei vestiti di Arlecchino, fatti di pezze, toppe, stracci, scampoli e rimasugli delle provenienze più diverse; e quegli "altri" da cui pensiamo di doverci difendere sono vestiti di Arlecchino quanto noi, chi con la toppa blu più grande e quella gialla più piccola, che con più pezze rosse e meno pezze verdi. E se la nostra eredità biologica (i nostri geni) si modifica molto lentamente, al contrario la nostra eredità culturale (le nostre tradizioni) si trasforma a ritmi vorticosi. Di fatto, ogni generazione può scegliere cosa tenere e cosa gettare via delle usanze della generazione precedente. Dicesi tradizione quella cosa che viene abbandonata e dimenticata quando ci si rende conto che non serve a nulla, o magari è anche dannosa (e per fortuna !).
Cosa mai abbiamo perso del nostro essere quando abbiamo abbandonato le tuniche per iniziare a indossare i pantaloni, uso introdotto in Europa dai Mongoli di Gengis Khan nel XIII secolo ? Siamo meno noi stessi da quando abbiamo importato gli agrumi dall'Asia o il pomodoro dall'America ?
E' il tarlo mentale dell'identità che porta a impiccarsi alle tradizioni: non è salvaguardia di una cultura, perché la cultura non è mai una, ma sempre plurima; è il suicidio culturale.
P.S.: Il Nostro aggiorna i suo curriculum giorno per giorno e mi costringe a un'aggiunta serale: non riesce neanche a conformarsi alla tradizione del meno acuto e più autoritario dei suoi antenati politici e a fare arrivare i treni in orario.