Il concetto di suddivisione dell'umanità in razze dovrebbe essere definitivamente morto e sepolto almeno dal 1973, quando Richard Lewontin mise a punto il metodo statistico per valutare la distribuzione della variabilità genetica in campioni di popolazioni diverse dei vari continenti, appartenenti alle diverse presunte "razze", e dimostrò che lo 85% della diversità genetica è individuale, entro poplazioni, lo 8% della variazione è tra popolazioni diverse della stessa "razza", e solo il 7% della diversità genetica è attribuibile alle differenze fra razze. Cioè ci sono discrete probabilità che io abbia maggiori differenze genetiche rispetto ad un mio concittadino che rispetto ad un esquimese o a un tanzaniano.
Non mi dilungo adesso su questo argomento particolare perchè sicuramente merita di ritornarci sopra altre volte in futuro in modo più approfondito.
Ma già prima della pubblicazione di Lewontin, il concetto di razza non godeva di buonissima salute; nonostante la notevole convenienza politica (giustificare lo schiavismo, il colonialismo, la segregazione e tutte le forme più becere di nazionalismo), i tentativi di trovare fondamenti scientifici al razzismo avevano prodotto risultati piuttosto miseri (a meno che i dati non venissero spudoratamente contraffatti, e questo è successo più di una volta). Tanto per cominciare, sono emerse subito le difficoltà di definizione: a cavallo tra 1700 e 1800, Cuvier era stato sul semplice: tre razze: bianchi, neri e gialli. Voilà. Ma altri "cataloghi" proponevano differenziazioni più articolate: cinque, sette razze; Deniker nel 1900 classifica 29 razze umane, di cui sei europee; von Eickstedt nel 1937 ne conta 38. Per l'Esposizione Universale del 1933 alla scultrice Malvina Hoffmann viene commissionata una serie di statue che devono rappresentare ciscuna una razza. Lei prende l'incarico molto sul serio, fa il giro del mondo in cerca di modelli, ritorna e realizza 104 statue (1). Può darsi che la Hoffmann sia stata un pò interessata, poichè magari in questo modo avrà ingrassato un pò la sua parcella, ma il suo non è un record: nel XX secolo c'è chi ha ritenuto di differenziare duecento razze umane o forse più. In realtà già dagli albori dell'antropologia gli studiosi più accorti avevano rinunciato a definizioni razziali drastiche osservando che i vari "tipi" umani, apparentemente ben riconoscibili, in realtà sfumano gradualmente l'uno nell'altro e qualsiasi demarcazione netta tra di essi è arbitraria e soggettiva.
L'azienda per la quale lavoro ci sottopone ogni anno ad una vista medica, come prevedono le buone norme di medicina del lavoro. Non avevo mai notato prima di quest'anno (per mia distrazione, non per assenza della definizione) che sul referto, tra i dati personali, insieme a nome, cognome, età, sesso, figura anche la riga: "gruppo etnico: caucasico". Sono rimasto un pò sorpreso e divertito dall'anacronismo, soprattutto perchè il medico non mi ha chiesto nulla sull'origine dei miei ascendenti, e quindi si è fidato di una classificazione ad occhio (a rigore di definizione, correttamente, come vedremo).
Dunque, perchè mai io sarei un caucasico ? L'origine di tale nomenclatura è alquanto curiosa, e merita che il racconto parta da un passo più indietro. Nel suo celebre Systema naturae del 1758, Linneo classifica gli esseri viventi (e per la verità anche i minerali, con esiti meno memorabili) a lui noti in base alle loro rassomiglianze, colloca Homo sapiens tra i Primati, ed identifica all'interno della specie sei varietà: americana, europea, asiatica, africana, selvaggia e mostruosa.
Per un opera così imponente, Linneo non poteva pretendere di verificare sul campo ogni elemento: da scienziato metodico e scrupoloso qual era, prendeva nota dei dati disponibili in letteratura; e a quell'epoca non esisteva una demarcazione chiara tra letteratura d'arte e letteratura scientifica. La varietà selvaggia includeva "uomini delle foreste" che, si capì poi, erano di solito bambini afflitti da infermità mentali abbandonati dai genitori o fuggiti o smarriti e cresciuti in condizioni realmente selvatiche; la varietà mostruosa comprendeva uomini pelosi, uomini con la coda, lupi mannari e simili amenità intorno alle quali i racconti abbondavano, e che Linneo diligentemente registrò. Per le quattro restanti "vere razze" geografiche, non stabilì esplicitamente un ordine gerarchico di valore, sebbene non sfuggisse alle credenze convenzionali di una superiorità europea.
Negli anni successivi prese piede, ed acquisì sempre più credito, una teoria secondo la quale le diverse razze umane erano talmente diverse tra loro da dover essere il prodotto di atti di creazione distinti: prima prova mal riuscita con gli africani, poi tentativi un pò più soddisfacenti con americani e asiatici, fino alla perfezione "ad immagine e somiglianza": gli europei (mal riusciti ? Tentativi ? Ma non era onnipotente, quel Tizio ?).
Ed è a questo punto che entra in scena Blumenbach, considerato il padre della canonica classificazione razziale dell'umanità. Egli sosteneva risolutamente l'unità della specie umana, avversava la credenza comune di una superiorità intellettuale e morale dei bianchi (possedeva una biblioteca dedicata eslusivamente ad opere scritte da autori neri) era un fautore dell'abolizione dello schiavismo in un'epoca in cui tale posizione era a dir poco controcorrente, ed anzi affermò esplicitamente la superiorità morale degli schiavi rispetto ai trafficanti negrieri; riteneva inoltre che tutte le differenze morfologiche, ed eventualmente anche comportamentali, tra le razze, fossero dovute all'ambiente ed alle usanze locali, e che fossero, in linea di principio, facilmente alterabili, se non del tutto reversibili, mediante migrazioni in altri luoghi.
Come ha potuto un uomo mosso da tali principi fondare le fortune della peggiore antropologia razzista del secolo e mezzo successivo ?
Ebbene, per affermare l'unicità dell'atto di creazione della specie umana, e l'effetto dell'ambiente e del clima nella diversificazione delle razze, Blumenbach sostenne che gli uomini che erano rimasti vicini al luogo della creazione dovevano aver mantenuto la maggiore vicinanza alla perfezione, e che allontanandosi verso altri climi ed altri luoghi, l'immagine e somiglianza di Dio dovevano essersi un pò deteriorate. Stabilì quindi una gerarchia nella classificazione delle razze in base alla loro bellezza (che oggi un criterio di classificazione così soggettivo appaia niente più che ridicolo, testimonia se non altro che due secoli di pratica nella letteratura scientifica forse non sono passati invano).
Partendo dall'elenco delle razze di Linneo, epurato del selvatico e del mostruoso, nella terza edizione (1795) del suo trattato De generis humani varietate nativa, Blumenbach aggiunse una quinta razza, quella malese, per includere le popolazioni di pelle scura dell'Australia e del sud-est asiatico, il che gli permise di completare la sua gerarchia simmetrica: al vertice la razza più bella, quella europea (avevate dubbi ? Non penso sia necessario dire che Blumenbach era tedesco); per di più Blumenbach andò a cercare i più belli tra i belli, e ritenne di trovarli tra gli abitanti del Caucaso, "...perchè la sua regione, in special modo sulle sue pendici rivolte a mezzogiorno, produce la più bella razza di esseri umani..."(parole sue). In nome di tale eccellenza, egli battezzò "caucasica" la razza europea, e da ciò inferì che il Caucaso doveva, con ogni probabilità, essere stato il luogo della creazione dell'uomo (e quindi, coloro che oggi chiamiamo armeni, azeri e georgiani recherebbero le migliori tracce di immagine e somiglianza di Dio - ulteriore nota: quindi anche Stalin...-). Da tale vertice, l'allontanamento dalle condizioni di origine produce due linee di graduale deterioramento estetico: una dall'americano all'asiatico (che nella nomenclatura di Blumenbach diventa "mongolo"), e una dal malese all'africano (ora "etiopico"). La gradualità dei passaggi di degenerazione serviva a Blumenbach a sottolineare la sostanziale unità della specie umana, e l'impossibilità di stabilire separazioni nette; e vale la pena di ripetere sia che egli considerava tali differenze potenzialmente e facilmente reversibili, sia che la sua scala gerarchica era basata su valutazioni di solo carattere estetico, senza alcuna implicazione nè attitudinale nè morale.
Ma la via dell'inferno è lastricata di buone intenzioni, e una volta indicata una scala gerarchica di valore, la frittata è fatta. Dal pregio estetico alle attitudini comportamentali e al valore morale o intellettuale il passo è breve, ed hanno avuto buon gioco coloro che hanno sfruttato la gerarchia di Blumenbach per solleticare i peggiori istinti umani di diffidenza verso coloro con cui non si ha familiarità. Non occorre nè intelligenza nè un grande sforzo di propaganda per trasformare la diffidenza in aperta avversione e il "non familiare" in "diverso" o "inferiore".
E solo sessant'anni dopo il trauma del più feroce crimine premeditato, su base razziale, dell'umanità, oggi in Italia riportiamo alla guida del paese soggetti con la faccia da fesso e la cravatta verde che ripercorrono la stessa facile strada di aizzare i penultimi della società all'odio verso gli ultimi, che per il potere è la migliore assicurazione a prevenzione di qualsiasi cambiamento sociale.
Mentre io considero già un insperato successo l'essere classificato come "caucasico" solo per la mia bellezza.
(1): Guido Barbujani - L'invenzione delle razze - Bompiani 2008
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