sabato 8 agosto 2009

Negro a chi ?

Una mia anziana zia, uno o due anni fa, lamentava che le cose peggiori della vita ricicciano sempre come la gramigna, e richiedono molto tempo, molta fatica e molta pazienza per essere debellate completamente. In quel tempo, ella associava: i banchetti appostati all'uscita dei supermercati, finalizzati a raccogliere firme per petizioni dai propositi inconfessabili, dai quali vengono adescate le massaie con l'invito ad apporre una firma "contro la droga", i quali parevano definitivamente scomparsi ed invece mia zia aveva visto ricicciare sotto i suoi occhi; ed i primi precoci tentativi di ricicciamento di Clemente Mastella. D'altra parte ora tenta ripetutamente di ricicciare Luciano Moggi, e leggo in giro in questi giorni che ha felicemente ricicciato anche Paolo Cirino Pomicino, quindi non c'è limite alle capacità degli aspetti più deteriori della società di riemergere dopo le prime effimere bonifiche.
In effetti se, alcuni giorni fa, ho definito morto e sepolto da oltre trent'anni il concetto di classificazione razziale dell'umanità, intendevo questo al netto dei successivi ingiustificati ricicciamenti.
Molti ricorderanno il rumore suscitato, negli anni novanta del secolo appena trascorso, dalla pubblicazione di The Bell Curve di R.J. Herrnstein e C. Murray, che pretendeva di dimostrare l'inferiorità intellettuale innata dei negri americani rispetto ai bianchi.
Quando idee così vecchie e del tutto screditate vengono ripresentate con tanta enfasi, ci si aspetterebbe che sia emerso qualche dato di fatto completamente nuovo, o nuove capacità interpretative dei dati esistenti. Niente di tutto ciò. Herrnstein e Murray basavano tutta la loro ricerca sui valori di QI (Quoziente di Intelligenza); rilevavano che i negri americani mostravano valori mediamente più bassi dei bianchi (niente di nuovo rispetto all'analogo tentativo di Terman ampiamente confutato all'inizio del novecento), e si limitavano a dimostrare che le misure di QI non erano soggette a distorsioni statistiche operative (cioè che il test era eseguito correttamente: e ci mancherebbe altro !). Da tutto ciò concludevano che era inutile che la collettività spendesse soldi per l'istruzione di bambini che tanto non avrebbero mai potuto raggiungere livelli di eccellenza (e quello dell'indirizzo dei fondi pubblici era, infine, il vero nocciolo della questione).
Per poter saltare da quelle premesse a queste conclusioni, è necessaro che:
1) l'intelligenza sia rappresentabile da un solo numero (cioè che sia una grandezza,
come una dimensione, un peso o un'intensità di corrente elettrica), idoneo a classificare le persone in un ordine lineare,
2) che tale valore sia fondato su basi genetiche,
3) che sia immodificabile.
Se solo una di queste condizioni fosse falsa, tutto l'impianto di The Bell Curve crollerebbe. Personalmente, io sono convinto che siano false tutte e tre, ma la cosa più impressionante è che Herrnstein e Murray, in circa ottocento pagine, ponevano questi tre fatti come asserzioni, senza prendersi la briga di dimostrarli (salvo dimostrare una più che discreta ereditabilità ENTRO gruppi, utilizzata in modo fallace per spiegare le differenze TRA gruppi: un errore logico che si ripete in modo troppo sistematico nella pseudoscienza razzista per non avanzare sospetti di malafede pura e semplice) e quasi senza nemmeno discuterli.
Ammesso e niente affatto concesso che l'intelligenza sia un'entità lineare misurabile con un numero, e non un complesso di attitudini molteplici e diverse (logica, intuizione, associazione, ecc.), se pure essa fosse in parte erditabile geneticamente, ma in parte anche il risultato degli stimoli che ogni bambino riceve nel proprio ambiente, i quali dipendono in gran parte dalle condizioni sociali e culturali della famiglia, dagli schemi logici che si acquisiscono attraverso l'apprendimento e l'imitazione delle persone che il bambino frequenta ? Quando The Bell Curve è stato scritto, Martin Luther King era stato ucciso da meno di trent'anni, e nessuno può sostenere che le condizioni sociali e culturali degli statunitensi di colore siano diventate nel frattempo identiche a quelle dei bianchi, anche per quanto riguarda le possibilità di accesso alle scuole migliori. Ecco una sorgente causale di variazione TRA gruppi che non ha niente a che vedere con l'ereditabilità ENTRO gruppi, che può essere alta finchè si vuole. E se il risultato individuale di QI non fosse affatto immodificabile, come spesso accade ai caratteri complessi, ma programmi educativi precoci innalzassero tale risultato come un paio di occhiali corregge un difetto della vista ? Ecco che, non dimostrato per non dimostrato, gli stessi dati usati da Herrnstein e Murray per auspicare tagli nei finanziamenti all'istruzione pubblica, visti da premesse diverse, ma (mi pare) del tutto plausibili, possono benissimo diventare un atto di accusa all'amministrazione degli Stati Uniti per le insufficienti risorse destinate all'istruzione delle classi sociali svantaggiate.
Chiudo il discorso con solo alcune delle informazioni che erano perfettamente disponibili, e che Herrnstein e Murray hanno ignorato, ritengo volutamente: a) un precedente studio aveva ricercato differenze nelle capacità cognitive dei figli illegittimi che i soldati statunitensi avevano disseminato in Germania durante la seconda guerra mondiale, senza rilevare alcuna diversità tra figli di soldati neri e bianchi, cresciuti in famiglie tedesche di condizioni socioeconomiche omogenee; b) in diverse nazioni europee, con il miglioramento dell'istruzione e delle condizioni sociali dopo la seconda guerra mondiale, il QI medio è aumentato, guarda caso, di quindici punti, giusto la differenza che The Bell Curve rilevava tra bianchi e neri negli Stati Uniti (1).
Più recentemente, il concetto di razza ha ricicciato in versione soft nella forma di un articolo di Armand Marie Leroi pubblicato su The New York Times il 14 marzo 2005.
Leroi, in sintesi, sostiene che il concetto di razza è imperfetto, ma utile a suddividere le persone in gruppi abbastanza riconoscibili, e poichè tra tali gruppi possono esserci differenze medie nella frequenza di certe malattie, e anche nella risposta a certi tipi di farmaci, identificare le persone in base alla razza, per quanto essa sia mal definita, può essere utile a fini medici. Tuttavia la sua idea di razza è piuttosto ondivaga, e oscilla, a seconda delle convenienze del momento, dai grandi gruppi continentali "alla Blumenbach" alle piccole popolazioni locali come i Baschi o i Negritos delle Isole Andamane, a conferma della indefinitezza del concetto (2). In sostanza, Leroi fa una gran confusione fra razze e biodiversità. Se un tipo di predisposizione genetica ad una malattia è più diffusa in una certa popolazione (ad esempio il morbo di Tai-Sachs tra gli ebrei ashkenaziti, o l'anemia falciforme tra gli africani occidentali, o talassemie che sono rare nella maggior parte dell'Asia, ma raggiungono la più alta frequenza conosciuta -80%- tra i nepalesi), sarà più utile domandare al paziente fin dove può risalire all'origine dei suoi antenati piuttosto che guardare se è negro o bianco (tra l'altro: poichè, tra i molti geni che contribuiscono a determinare il colore della pelle, gli alleli che inducono pelle più scura tendono, in generale, ad essere dominanti, in un paese di grandi mescolamenti come gli Stati Uniti, uno che a colpo d'occhio viene considerato negro può benissimo avere tra i suoi antenati una prevalenza di bianchi). E se i negri americani rispondono MEDIAMENTE meno bene dei bianchi ad un certo tipo di farmaco, osservare il colore della pelle non mi dirà comunque nulla su come reagirà QUEL particolare paziente. E qui si ritorna al classico lavoro di Lewontin: la grandissima maggioranza della variabilità genetica è variazione individuale, non legata nè alla popolazione nè alla razza [ritorno volentieri su questo studio, poichè nel precedente post "Caucasico a chi ?", nel citarlo a memoria, ho commesso due errori (ed evitando il primo avrei potuto comodamente risparmiarmi il secondo): uno metodologico, grave: non ho riportato il riferimento bibliografico; ed uno fattuale, veniale: ho sbagliato l'anno della pubblicazione. Rimedierò tardivamente qui in fondo (3)].
E lo studio della distribuzione della variazione genetica, che ha acquisito una grande mole di dati negli ultimi decenni, ci porta ora alla pralina finale con cui intendo concludere questo lungo discorso. E' oggi chiaro che la maggiore quantità di variabiltà genetica si trova in Africa. Questo è del tutto comprensibile: poichè l'accumulo di mutazioni è, in una certa misura, funzione del tempo, la maggior quantità di diversità si troverà nel luogo in cui la specie ha avuto origine e nel quale ha prosperato per il tempo più lungo. Poi, non prima di circa 100000 anni fa, solo un piccolo sottoinsieme della popolazione africana è uscito dal continente ed è andato a colonizzare il Medio Oriente, e da lì l'Asia e l'Australia, l'Europa, ed infine, dall'Asia, l'America. Il resto della popolazione mondiale non è che un solo ramo, rigoglioso ma singolo, di un albero genealogico che è del tutto africano. Quindi, in un certo senso, è come se gli africani fossero il mazzo di carte, e noi europei solo il fante di coppe. Il fante di coppe non ha alcuna possibilità di definire il mazzo di carte come un qualche cosa di omogeneo, uniforme, e distinto da sè. E se le persone classificate come "negri" non formano un gruppo genealogicamente distinto, ovviamente non possiamo attribuire loro alcuna caratteristica esclusiva ed innata per eredità.


(1) "Critica a The Bell Curve" in: Stephen Jay Gould - Intelligenza e pregiudizio - Il Saggiatore, 1998.

(2) Sia l'articolo di Leroi che molte risposte da esso suscitate, sia favorevoli che contrarie (tra le quali quella dello stesso Lewontin), sono disponibili (ovviamente in inglese) su: http://raceandgenomics.ssrc.org

(3) Lewontin, R.C. (1972). The Apportionment of Human Diversity. Evolutionary Biology, vol. 6, pp. 381-398.

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