mercoledì 23 settembre 2009
La Presa del Potere
Spero di non essermi reso colpevole dell'innesco, tra i pochi sventurati lettori di questo blog, di vortici onirici a sfondo erotico dominati da Maria Stella Gelmini: credo che non potrei mai perdonarmelo. Tenterò una digressione per il rinsavimento degli internauti.
Fui tra il pubblico, molti anni fa, di un'intervista a Michele Serra, durante una Festa de l'Unità a Bologna. Era un'epoca in cui le feste de l'Unità erano ancora feste de l'Unità, con occasioni di incontro e divertente e intelligente dibattito, le signore che facevano le tagliatelle e i tortellini, il bar cubano e il ristorante della DDR. Non era ancora una specie di seduta di preghiera come oggi.
Era anche il tempo in cui era da poco terminata l'esperienza editoriale di "Cuore", poichè il Settimanale di Resistenza Umana, diretto dal succitato, era stato chiuso dall'editore con un colpo di mano piuttosto sospetto.
Tra le molte vicende, anche giudiziarie, del suo ex-settimanale, l'ormai ex-direttore ricordò una delle poche cause che "Cuore" perse in tribunale. In uno dei tanti (quasi continui) momenti in cui la Fiat da una parte lasciava a spasso i suoi operai, e dall'altra batteva cassa dallo Stato per la difesa dell'Industria Nazionale, in ossequio al principio "pubblicizzare le perdite, privatizzare i profitti", Cuore decise di dedicare la prima pagina, di propria iniziativa, ad una pubblicità della principale concorrente dell'epoca delle utilitarie torinesi, la Renault Twingo, decantandone le qualità ed invitando i lettori ad acqustare la piccola francese piuttosto che le Fiat sanguisughe del denaro pubblico.
La Renault intentò una causa contro Cuore per utilizzazione non autorizzata del marchio commerciale, nonostante si dicesse solo del bene del prodotto (in "se voi foste il giudice" de "la settimana enigmistica" questo sarebbe un caso davvero avvincente): ebbene, nel procedimento giudiziario Cuore fu condannato e dovette pagare un risarcimento alla Renault. Michele Serra spiegava: non si può parlare di una merce senza l'autorizzazione del produttore, neanche per parlarne bene. I giornali possono scrivere nei titoli di prima pagina che il Presidente della Repubblica è rincoglionito, che il Capo del Governo è un corruttore (forse non era questa l'immagne proposta allora, mi è venuta così adesso, spontanea), che il Tizio ha rubato, che il Tal altro ha tradito la moglie. Si può scrivere sui giornali: "Arrestato l'assassino del barista", quando il barista è stato appena ucciso e quindi il processo non è ancora iniziato, quindi quello arrestato non è, a termini di legge, l'assassino, ma al massimo un sospettato.
Si può infamare qualsiasi persona a torto (come nella maggior parte dei casi) o a ragione (come nel secondo degli esempi elencati), e non succederà nulla. Ma se commetti l'errore di fare incazzare Coccolino Concentrato... allora sì che ti cacci nei guai per davvero. Perchè le merci (le imprese che le producono) hanno degli uffici legali che sono delle corazzate. Quasi nessun essere umano in carne ed ossa ha la possibilità di mobilitare tante risorse per la tutela dei propri diritti come un detersivo: la maggior parte di noi, se dovesse incappare in qualche disavventura giudiziaria, si dovrebbe affidare al primo avvocato scalcinato trovato sulle Pagine Gialle.
La Costituzione Europea, abortita nel 2005 per la bocciatura di francesi e olandesi, è stata un prototipo di quadro legislativo interamente rivolto alla tutela dei diritti delle merci e dei commerci, con totale disinteresse alla tutela dei diritti delle persone (basti ricordare l'inserimento delle voci relative a previdenza e assistenza nel capitolo "solidarietà", cioè "elemosine", e non nel capitolo "diritti"), e l'attuale trattato di Lisbona non modifica sostanzialmente nulla. Io credo, anzi voglio sperare, che la bocciatura popolare nei referendum di Francia e Paesi Bassi sia stata dovuta in misura fondamentale al rifiuto di questa visone dell'Europa di mercanti e mercati, anzichè di persone e culture, ma mi pare che i mezzi di informazione abbiano accuratamente evitato di indagare ed approfondire questo aspetto.
Oggi esiste un organismo internazonale con il quale (quasi) nessun Governo al mondo oserebbe entrare in conflitto: non è l'ONU, della quale tutti, a partire dal principale beneficiario storico Israele, si infischiano allegramente: è il WTO (World Trade Organization), l'Organizzazione Mondiale per il Commercio.
Le funzioni del WTO sono quelle di rendere sempre più liberi i commerci internazionali, riducendo progressivamente i dazi e ogni altra forma di protezionismo. Formalmente, tali aperture vengono accettate liberamente a seguito di trattative paritarie tra i rappresentanti delle Nazioni, ma non occorre essere dei geni dell'economia politica per comprendere che i paesi più ricchi hanno, in queste trattative, un potere contrattuale o, per meglio dire, ricattatorio, infinitamente superiore a quello dei paesi più poveri.
Agli Stati Uniti o al Giappone, che hanno, in barba alla retorica liberista, i sistemi doganali più rigidamente protezionistici al mondo, bastano concessioni minime sui propri dazi esorbitanti per ottenere in cambio accesso alle risorse, ad esempio minerarie ed estrattive, dei paesi più poveri, a prezzi irrisori.
Questo meccanismo perverso di (falsamente) libera circolazione delle merci genera un flusso netto di risorse dal terzo mondo ai paesi industrializzati, e permette ai ricchi della terra di diventare sempre più ricchi a spese del sempre più drammatico impoverimento dei più poveri.
Noi accogliamo a braccia aperte questo flusso di risorse che contribuiscono al nostro benessere, ma guai se sono gli esseri umani ad azzardarsi a seguire lo stesso flusso.
Le merci devono poter circolare liberamente e produrre la nostra ricchezza, ma le persone in carne ed ossa non possono inseguire questa corrente di risorse per sfuggire alla povertà a cui li condanniamo. Respinti.
Le merci hanno preso il potere e ci governano.
Uomini, ribellatevi.
venerdì 18 settembre 2009
Capitale Morale
Leggo sulla pagina di Milano e dintorni de il Manifesto, in un articolo di Giorgio Salvetti (dovrei stare più attento a queste cronache dello Sprofondo Nord, sono istruttive): il Comune di Milano (ricordo al lettore meno avveduto, o saggiamente non interessato alle vicende di un'area culturalmente marginale ed arretrata: sindaco Letizia Moratti, ex Ministro della Pubblica Istruzione che ha commesso ogni turpitudine contro la logica e contro la Costituzione a proposito dell'ora di religione, ha ampiamente contribuito all'impoverimento delle risorse per le scuole pubbliche a favore di quelle private, e ha mostrato come unico interesse per l'edilizia scolastica quello di inchiodare, avvitare, incollare, saldare, murare i crocifissi nelle aule; essa opera in simbiosi con il Presidente della regione Lombardia Formigoni - Comunione e Liberazione, non c'è bisogno di aggiungere altro -).
Dicevo, l'assessorato alla salute del Comune di Milano ha lanciato lo S.O.S. sesso, ed ha prima inviato una lettera a 400mila famiglie, corroborata da manifestini sui mezzi pubblici, ed infine, verosimilmente per l'interesse dell'assessore a sviscerare ben bene la questione, la letterina è diventata un opuscolo di 15 pagine pubblicato in 300mila copie.
Il problema a quanto pare è di una gravità inaudita: sembra che le ragazzine milanesi si concedano volentieri ai piaceri della carne, e a volte richiedano anche qualche regalino in cambio. L'avreste mai detto ? Diaboliche Lolite tentatrici.
E tutto questo prodigarsi di campagne informative a tappeto è rivolto naturalmente ai genitori, isostituibile baluardo della famiglia tradizionale. L'assessore Landi di Chiavenna (verrebbe da dire nomen est omen, ma sarebbe troppo facile) scrive: "Cari genitori, ho scoperto che si pratica sesso a scuola e che c'è mercimonio del corpo per ottenere beni di consumo".
Insomma, cari milanesi, sappiate che le vostre figliole sono un pò zoccole.
(Ma lo stupore dell'assessore per la incredibile scoperta del sesso a scuola, sarà più amarezza per la decadenza morale, o più rimpianto per le occasioni perdute ? Chissà.)
Non essendo un catto-comunista, poichè mi manca almeno una delle componenti di questa ibridazione nefanda, io penserei subito ad istituire campagne di educazione sessuale nelle scuole: metodi anticoncezionali, uso del profilattico, prevenzione delle malattie a trasmissione sessuale, ecc..., ma mi rendo conto di vivere in un altro pianeta, quasi reale, lontano anni luce dalla galassia virtuale che disinformazione e modelli culturali menzogneri ci hanno costruito intorno.
Il sindaco Moratti per parte sua, non si sa se proprio con intenti purificatori verso questi luoghi di peccato e perdizione, di tanto in tanto chiude qualche scuola (dev'essere un vero chiodo fisso il suo), preparando così la generazione dei milanesi del futuro: ignoranti come capre, ma casti.
L'inguaribile ipocrisia dei catto-cattolici li obbliga a fare finta di stupirsi, fare finta di preoccuparsi e fare finta di indignarsi; ma in realtà quali modelli comportamentali hanno davanti queste peccaminose fornicatrici in erba ? Se il ruolo dirigenziale a cui ambire, riservato solo a donne adeguatamente ambiziose e determinate, è quello di velina, se la città puritana che si preoccupa della virtù delle sue fanciulle esprime il meglio di sè, in qualità di migliore statista degli ultimi 150 anni, nel puttaniere a reti unificate, l'avvocato del quale (a sua volta avente ruolo legiferante in questo sfortunato Paese) ne rivendica la non punibilità in quanto "utilizzatore finale", dimostrando di non avere neanche capito da quale parte stia il problema: queste giovani educate ed indottrinate solo in quanto telespettatrici, consumatrici, e possibilmente future elettrici del signor utilizzatore finale o dei suoi discendenti, e non certo in quanto persone, perchè mai dovrebbero pensare "per una comparsata televisiva sì, per un i-Pod no" ? Cosa faranno mai di male le ragazzine (che non credo sia poi nulla di diverso da ciò che si è sempre fatto), se tanto si può anche ragionevolmente dubitare di come viene selezionata la classe dirigente del Paese ? In base a quali criteri il signor utilizzatore finale avrà assegnato poltrone ministeriali alla signora Carfagna, alla signora Brambilla, alla signora Gel...
no.
La Gelmini no. Non ce la vedo. La Gelmini non è contemplabile in alcun tipo di fantasia...
...a meno che...
...in un festino del tipo sadomaso...
...a Villa Certosa tra gente ignuda legata, fruste e stivali...
Sul più bello, irrompe la Gelmini vestita da suora brandendo un crocifisso. Sì, ripensandoci, magari ci può stare.
Nella totale banalizzazione dell'immaginario erotico che si compie nel mondo artificiale del Cavalier utilizzatore finale, anche la Gelmini la sua porca figura potrebbe farla.
mercoledì 9 settembre 2009
Storie di liberismo: William Jardine
Ci sono poche cose più istruttive di storie di epoche lontane ed apparentemente del tutto superate, nelle quali poter trovare i germi del nostro presente.
William Jardine (1784 - 1843), scozzese, potrebbe essere considerato non solo un eroe del liberismo, ma anche un pioniere dei metodi moderni di applicazione di tale dottrina economica.
Giovane neolaureato, ottenne la sua prima occupazione come medico di bordo sulle navi della Compagnia delle Indie Orientali. Gli impiegati della Compagnia avevano diritto al trasporto, sulla nave su cui erano imbarcati, di due casse di merce a testa per commercio a fini di proprio profitto personale. Sia attraverso i propri commerci diretti, sia affittando i propri spazi ad altri, Jardine fece fruttare velocemente questa opportunità: nel giro di alcuni anni si mise in proprio e, intorno al 1820, aprì un suo ufficio commerciale a Canton, il principale porto per l'import-export del sud della Cina.
Naturalmente iniziò subito a battersi, in nome della libertà di commercio e della libera concorrenza, contro il monopolio della Compagnia delle Indie grazie alla quale aveva ingrassato il suo portafogli fino a quel momento.
Vinse la sua battaglia nel 1833, quando il monopolio fu abolito dal Parlamento britannico.
Nel frattempo, Jardine, in società con James Matheson, si era lanciato in un settore commerciale molto remunerativo, anche se un tantino illegale: l'importazione in Cina di oppio dall'India. Gli affari gli andavano decisamente bene: nel decennio 1820-1830, il numero di casse di droga smerciate dall'India alla Cina passò da 4.224 a 18.956, e nel 1836 salì a 30.302. Con il numero di cinesi intossicati dall'oppio che raggiungeva cifre spaventose (le stime attorno al 1836-1838 variano da quattro a venti milioni di cinesi tossicodipendenti), il traffico non passò inosservato all'Imperatore, che dal 1836 proibì sia l'importazione che l'uso di oppio.
A quel momento, William Jardine stava già da tempo esercitando pressioni sui rappresentanti del Governo britannico perchè ingaggiassero una guerra aperta contro la Cina, colpevole di "ostacolare il libero mercato", ma dapprima non riuscì a trovare appoggio nei Sovrintendenti al commercio di nomina governativa; anzi, uno di questi, Sir George Robinson, tentò di fermare il commercio di oppio e raccomandò che i britannici smettessero di coltivare tale droga in India. Come risultato di tale impegno, Robinson fu silurato nel 1836. Anche il suo successore, Charles Elliot, non aveva in simpatia i mercanti britannici privi di scrupoli, ma la sua mente era presa da preoccupazioni ben più gravi: poichè la Gran Bretagna importava tè soprattutto dalla Cina, egli avrebbe fatto qualsiasi cosa per mantenere aperte le vie mercantili con quel Paese, per non lasciare tristemente vuote le delicate tazzine di porcellana delle gentildonne britanniche alle cinque del pomeriggio.
Nel periodo 1837-1839 le tensioni tra mercanti britannici e funzionari cinesi divennero sempre più aspre: Jardine fu riconosciuto dai Governatori di tre province responsabile di commerciare illegalmente oppio ed espulso dalla Cina, ma non rispettò il decreto di espulsione; l'Imperatore nominò un Commissario Speciale per fermare il commercio di droga, Lin Zexu, il quale riuscì a sequestrare oltre 20.000 casse di oppio nel porto di Canton e le fece distruggere. Elliot promise ai mercanti britannici che il Governo di Londra avrebbe risarcito loro le perdite (2 milioncini di sterline). Ovviamente, il Parlamento inglese rispose picche, e che se mai un risarcimento fosse stato dovuto, sarebbe stato un'incombenza del Governo cinese.
Era il casus belli che Jardine aspettava.
Attraverso un importante banchiere comune amico, ottenne un incontro con il ministro degli esteri Lord Palmerston, ed espose un proprio piano già bell'e pronto su come condurre la guerra: attraverso il blocco dei principali porti cinesi, la flotta britannica avrebbe facilmente avuto la meglio; indicò esattamente le forze da mettere in campo in termini di navi e di uomini; e diede anche indicazioni sulle condizioni di resa da imporre alla Cina: risarcimento dell'oppio distrutto ed apertura di ulteriori porti al commercio estero.
Nelle settimane successive, delegazioni di influenti mercanti e banchieri continuarono a martellare il ministero degli esteri delineando i dettagli della spedizione militare secondo quanto già indicato da Jardine.
Rimaneva il non trascurabile ostacolo di ottenere dal Parlamento un voto favorevole alla guerra; i sentimenti dell'opinione pubblica avrebbero certamente influenzato il voto del Parlamento, e sia l'idea di entrare in guerra, sia il commercio di oppio non erano argomenti sui quali poter incontrare i favori del pubblico inglese.
Il fedele socio James Matheson scrisse a Jardine di "assicurarsi i servizi di qualche giornale influente per sostenere la causa" e di assoldare qualche scittore per esprimere "in forma chiara e concisa qualche opportuno memoriale".
Immediatamente, molti giornali inglesi si riempirono di resoconti secondo i quali le autorità cinesi avevano arbitrariamente distrutto merce di proprietà non loro, e con il loro comportamento avevano direttamente insultato la Corona Britannica (in queste cronache tornò in gioco anche la "vicenda Napier". Lord Napier fu il primo Sovrintendente al commercio - predecessore di Robinson ed Elliot - incaricato nel 1834 a seguito dell'abolizione del monopolio della Compagnia delle Indie. Al suo arrivo in Cina richiese un incontro con il vicerè Lu Kun, il quale glielo rifiutò, permettendogli di trattare solamente con il "Cohong", la rappresentanza dei commercianti, e gli impose di lasciare Canton per Macao. Tale freddezza si deve al fatto che i cinesi consideravano gli inglesi, a causa della loro rozzezza, dei barbari, e non concedevano loro di conferire con alti funzionari dell'Impero; inoltre, la tensione per l'importazione di oppio stava ormai scaldando gli animi e le sbrigative richieste di Napier avevano suscitato un certo sospetto. Fato, a Canton Napier contrasse una forte febbre, e morì pochi giorni dopo il suo arrivo a Macao. La sua morte fu fatta passare come dovuta "alle offese e ai maltrattamenti" subiti). Nei resoconti dei giornali schierati a favore dell'intervento militare mancava qualsiasi accennno al commercio dell'oppio ed alle sue implicazioni morali; in compenso si batteva la grancassa della libertà di commercio e suonavano alte le fanfare dei benefici economici che l'economia britannica ne derivava.
E all'inizio del 1840 uno scrittore di un certo successo, Samuel Warren (un Bruno Vespa dell'epoca ?) pubblicò un pamphlet intitolato The Opium Question, carico di patriottiche minacce all'Imperatore cinese, il quale, di fronte alla superba potenza navale e militare della Gran Bretagna, avrebbe dovuto rivedere la sua "immagine di quei "barbari meschini" che aveva insultato, oppresso e tiranneggiato".
Il dibattito parlamentare (marzo 1840) oppose gli argomenti etici dell'esportazione illegale di droghe pericolose in Cina al dovere patriottico di difendere l'onore della Gran Bretagna minacciato dalle offese dei cinesi, e si concluse con la lettura, da parte del ministro Palmerston, di una petizione dei rappresentanti delle imprese commerciali in Cina che dichiaravano (traduco testualmente): "in mancanza di misure da parte del Governo, da sostenersi con fermezza ed energia, il commercio con la Cina non potrà in futuro essere condotto con sicurezza per la vita e le proprietà, o con profitto o beneficio per la nazione Britannica". Vincite modeste per chi indovina il primo firmatario della petizione. Al voto, il nazionalismo e il profitto batterono la logica e l'etica per 271 a 262.
La prima guerra dell'oppio (1840-1842; ne seguirà una seconda nel 1856) fu risolta molto facilmente dai britannici, che contarono 500 morti contro 20.000 cinesi; fu condotta esattamente secondo i piani di Jardine e si concluse con le condizioni di resa da lui proposte (trattato di Nanchino): pagamento dei danni di guerra, apertura di ulteriori porti al commercio estero (tra cui esattamente quelli indicati da Jardine), più la cessione di HongKong, e, dulcis in fundo, il pagamento delle 20.000 casse di oppio gettate in mare da Lin Zexu.
Un ufficiale inglese commentò la guerra con queste parole: "i poveri cinesi avevano due scelte: o sottomettersi a lasciarsi intossicare, o farsi massacrare a migliaia per difendere le proprie leggi nel proprio paese."
Non so voi, ma leggere questa storia, con lo scenario della preparazione mediatica della guerra, mi ha richiamato immediatamente la campagna di menzogne che abbiamo appena sperimentato per giustificare l'invasione dell'Iraq. E un uomo ricco e potente che ha fondato le sue fortune su affari poco leciti, e utilizza i mezzi di informazione per apparire come vittima di chissà quali soprusi, non vi fa venire in mente proprio nessuno, nella stretta attualità ?
Pralina finale. Nel 1838, mentre intensificava le sue trame per favorire lo scoppio della guerra, e mentre cresceva il numero di milioni di cinesi intossicati dal suo oppio, William Jardine fu tra i fondatori della Medical Missionary Society, di cui fu vicepresidente nel primo organigramma. La Società istituì, e gestisce tuttora, il Canton Hospital (Pok Tai) di Guangzhou, con lo scopo istituzionale di "dimostrare il valore pratico della Cristianità, combinando la salute del corpo con la preghiera".
Amen.
Principale fonte storica (insieme a varie notiziole sparse qua e là):
Benjamin Cassan - William Jardine: Architect of the First Opium War - www.eiu.edu/historia/archives/2005/Cassan
William Jardine (1784 - 1843), scozzese, potrebbe essere considerato non solo un eroe del liberismo, ma anche un pioniere dei metodi moderni di applicazione di tale dottrina economica.
Giovane neolaureato, ottenne la sua prima occupazione come medico di bordo sulle navi della Compagnia delle Indie Orientali. Gli impiegati della Compagnia avevano diritto al trasporto, sulla nave su cui erano imbarcati, di due casse di merce a testa per commercio a fini di proprio profitto personale. Sia attraverso i propri commerci diretti, sia affittando i propri spazi ad altri, Jardine fece fruttare velocemente questa opportunità: nel giro di alcuni anni si mise in proprio e, intorno al 1820, aprì un suo ufficio commerciale a Canton, il principale porto per l'import-export del sud della Cina.
Naturalmente iniziò subito a battersi, in nome della libertà di commercio e della libera concorrenza, contro il monopolio della Compagnia delle Indie grazie alla quale aveva ingrassato il suo portafogli fino a quel momento.
Vinse la sua battaglia nel 1833, quando il monopolio fu abolito dal Parlamento britannico.
Nel frattempo, Jardine, in società con James Matheson, si era lanciato in un settore commerciale molto remunerativo, anche se un tantino illegale: l'importazione in Cina di oppio dall'India. Gli affari gli andavano decisamente bene: nel decennio 1820-1830, il numero di casse di droga smerciate dall'India alla Cina passò da 4.224 a 18.956, e nel 1836 salì a 30.302. Con il numero di cinesi intossicati dall'oppio che raggiungeva cifre spaventose (le stime attorno al 1836-1838 variano da quattro a venti milioni di cinesi tossicodipendenti), il traffico non passò inosservato all'Imperatore, che dal 1836 proibì sia l'importazione che l'uso di oppio.
A quel momento, William Jardine stava già da tempo esercitando pressioni sui rappresentanti del Governo britannico perchè ingaggiassero una guerra aperta contro la Cina, colpevole di "ostacolare il libero mercato", ma dapprima non riuscì a trovare appoggio nei Sovrintendenti al commercio di nomina governativa; anzi, uno di questi, Sir George Robinson, tentò di fermare il commercio di oppio e raccomandò che i britannici smettessero di coltivare tale droga in India. Come risultato di tale impegno, Robinson fu silurato nel 1836. Anche il suo successore, Charles Elliot, non aveva in simpatia i mercanti britannici privi di scrupoli, ma la sua mente era presa da preoccupazioni ben più gravi: poichè la Gran Bretagna importava tè soprattutto dalla Cina, egli avrebbe fatto qualsiasi cosa per mantenere aperte le vie mercantili con quel Paese, per non lasciare tristemente vuote le delicate tazzine di porcellana delle gentildonne britanniche alle cinque del pomeriggio.
Nel periodo 1837-1839 le tensioni tra mercanti britannici e funzionari cinesi divennero sempre più aspre: Jardine fu riconosciuto dai Governatori di tre province responsabile di commerciare illegalmente oppio ed espulso dalla Cina, ma non rispettò il decreto di espulsione; l'Imperatore nominò un Commissario Speciale per fermare il commercio di droga, Lin Zexu, il quale riuscì a sequestrare oltre 20.000 casse di oppio nel porto di Canton e le fece distruggere. Elliot promise ai mercanti britannici che il Governo di Londra avrebbe risarcito loro le perdite (2 milioncini di sterline). Ovviamente, il Parlamento inglese rispose picche, e che se mai un risarcimento fosse stato dovuto, sarebbe stato un'incombenza del Governo cinese.
Era il casus belli che Jardine aspettava.
Attraverso un importante banchiere comune amico, ottenne un incontro con il ministro degli esteri Lord Palmerston, ed espose un proprio piano già bell'e pronto su come condurre la guerra: attraverso il blocco dei principali porti cinesi, la flotta britannica avrebbe facilmente avuto la meglio; indicò esattamente le forze da mettere in campo in termini di navi e di uomini; e diede anche indicazioni sulle condizioni di resa da imporre alla Cina: risarcimento dell'oppio distrutto ed apertura di ulteriori porti al commercio estero.
Nelle settimane successive, delegazioni di influenti mercanti e banchieri continuarono a martellare il ministero degli esteri delineando i dettagli della spedizione militare secondo quanto già indicato da Jardine.
Rimaneva il non trascurabile ostacolo di ottenere dal Parlamento un voto favorevole alla guerra; i sentimenti dell'opinione pubblica avrebbero certamente influenzato il voto del Parlamento, e sia l'idea di entrare in guerra, sia il commercio di oppio non erano argomenti sui quali poter incontrare i favori del pubblico inglese.
Il fedele socio James Matheson scrisse a Jardine di "assicurarsi i servizi di qualche giornale influente per sostenere la causa" e di assoldare qualche scittore per esprimere "in forma chiara e concisa qualche opportuno memoriale".
Immediatamente, molti giornali inglesi si riempirono di resoconti secondo i quali le autorità cinesi avevano arbitrariamente distrutto merce di proprietà non loro, e con il loro comportamento avevano direttamente insultato la Corona Britannica (in queste cronache tornò in gioco anche la "vicenda Napier". Lord Napier fu il primo Sovrintendente al commercio - predecessore di Robinson ed Elliot - incaricato nel 1834 a seguito dell'abolizione del monopolio della Compagnia delle Indie. Al suo arrivo in Cina richiese un incontro con il vicerè Lu Kun, il quale glielo rifiutò, permettendogli di trattare solamente con il "Cohong", la rappresentanza dei commercianti, e gli impose di lasciare Canton per Macao. Tale freddezza si deve al fatto che i cinesi consideravano gli inglesi, a causa della loro rozzezza, dei barbari, e non concedevano loro di conferire con alti funzionari dell'Impero; inoltre, la tensione per l'importazione di oppio stava ormai scaldando gli animi e le sbrigative richieste di Napier avevano suscitato un certo sospetto. Fato, a Canton Napier contrasse una forte febbre, e morì pochi giorni dopo il suo arrivo a Macao. La sua morte fu fatta passare come dovuta "alle offese e ai maltrattamenti" subiti). Nei resoconti dei giornali schierati a favore dell'intervento militare mancava qualsiasi accennno al commercio dell'oppio ed alle sue implicazioni morali; in compenso si batteva la grancassa della libertà di commercio e suonavano alte le fanfare dei benefici economici che l'economia britannica ne derivava.
E all'inizio del 1840 uno scrittore di un certo successo, Samuel Warren (un Bruno Vespa dell'epoca ?) pubblicò un pamphlet intitolato The Opium Question, carico di patriottiche minacce all'Imperatore cinese, il quale, di fronte alla superba potenza navale e militare della Gran Bretagna, avrebbe dovuto rivedere la sua "immagine di quei "barbari meschini" che aveva insultato, oppresso e tiranneggiato".
Il dibattito parlamentare (marzo 1840) oppose gli argomenti etici dell'esportazione illegale di droghe pericolose in Cina al dovere patriottico di difendere l'onore della Gran Bretagna minacciato dalle offese dei cinesi, e si concluse con la lettura, da parte del ministro Palmerston, di una petizione dei rappresentanti delle imprese commerciali in Cina che dichiaravano (traduco testualmente): "in mancanza di misure da parte del Governo, da sostenersi con fermezza ed energia, il commercio con la Cina non potrà in futuro essere condotto con sicurezza per la vita e le proprietà, o con profitto o beneficio per la nazione Britannica". Vincite modeste per chi indovina il primo firmatario della petizione. Al voto, il nazionalismo e il profitto batterono la logica e l'etica per 271 a 262.
La prima guerra dell'oppio (1840-1842; ne seguirà una seconda nel 1856) fu risolta molto facilmente dai britannici, che contarono 500 morti contro 20.000 cinesi; fu condotta esattamente secondo i piani di Jardine e si concluse con le condizioni di resa da lui proposte (trattato di Nanchino): pagamento dei danni di guerra, apertura di ulteriori porti al commercio estero (tra cui esattamente quelli indicati da Jardine), più la cessione di HongKong, e, dulcis in fundo, il pagamento delle 20.000 casse di oppio gettate in mare da Lin Zexu.
Un ufficiale inglese commentò la guerra con queste parole: "i poveri cinesi avevano due scelte: o sottomettersi a lasciarsi intossicare, o farsi massacrare a migliaia per difendere le proprie leggi nel proprio paese."
Non so voi, ma leggere questa storia, con lo scenario della preparazione mediatica della guerra, mi ha richiamato immediatamente la campagna di menzogne che abbiamo appena sperimentato per giustificare l'invasione dell'Iraq. E un uomo ricco e potente che ha fondato le sue fortune su affari poco leciti, e utilizza i mezzi di informazione per apparire come vittima di chissà quali soprusi, non vi fa venire in mente proprio nessuno, nella stretta attualità ?
Pralina finale. Nel 1838, mentre intensificava le sue trame per favorire lo scoppio della guerra, e mentre cresceva il numero di milioni di cinesi intossicati dal suo oppio, William Jardine fu tra i fondatori della Medical Missionary Society, di cui fu vicepresidente nel primo organigramma. La Società istituì, e gestisce tuttora, il Canton Hospital (Pok Tai) di Guangzhou, con lo scopo istituzionale di "dimostrare il valore pratico della Cristianità, combinando la salute del corpo con la preghiera".
Amen.
Principale fonte storica (insieme a varie notiziole sparse qua e là):
Benjamin Cassan - William Jardine: Architect of the First Opium War - www.eiu.edu/historia/archives/2005/Cassan
martedì 1 settembre 2009
1 settembre 1939 - 2009
Anniversario dell'inizio della seconda guerra mondiale: pensierini.
I popoli non sono mai favorevoli all'idea di intraprendere una guerra; però non occorrono grandi sforzi di propaganda per rovesciare la situazione. Settanta anni fa Hitler riuscì a trascinare con sè l'opinione pubblica tedesca paventando il pericolo che la Polonia fosse sul punto di invadere la Germania. I tedeschi bevvero quella evidente fandonia e seguirono il loro Fuhrer verso l'apocalisse.
Ingenui.
Mica come gli statunitensi che, molto più avveduti, non volevano proprio saperne di impelagarsi in una guerra incerta e pericolosa nel Vietnam. Ma nell'agosto 1964 il presidente Lyndon Johnson diede la notizia che due navi americane erano state attaccate dai vietnamiti nel Golfo del Tonchino, e l'invasione del Vietnam divenne per tutta la stampa e il popolo statunitense una doverosa difesa della Patria offesa e minacciata. Anni dopo, il ministro della difesa Robert McNamara dovette confessare che quella notizia era falsa: l'attacco del Tonchino non era mai esistito. Ma ormai gli americani l'avevano bevuta, e parecchio tempo e una miriade di vittime civili avevano dovuto passare prima che l'opinione pubblica riaprisse gli occhi.
Dopo molte altre esperienze istruttive, ad esempio la rivoluzione democratica del Nicaragua maciullata per evitare che i sandinisti invadessero gli Stati Uniti, con osanna a Ronald Reagan da parte dei suoi elettori per la sua lungimiranza, ancora nel 2003 si accerta con infallibile sicurezza una nuova minaccia per l'Occidente: le terribili armi di distruzione di massa in possesso del'Iraq. Mai esistite, ma l'Occidente compatto ha bevuto la frottola. A guidare la Crociata del Bene, e a seguire come cagnolino scodinzolante, due paesi che le armi di distruzione di massa le hanno adoperate per davvero: gli Stati Uniti la bomba atomica, e l'Italia i gas, nella guerra d'Etiopia del 1935-36. Forte di tali ben giustificati motivi, la coalizione dei Portatori di Democrazia ha fatto condannare a morte Saddam Hussein per crimini contro l'umanità, per avere ordinato l'uccisione di 148 iracheni. Per avviarlo alla forca, i Portatori di Democrazia hanno ucciso almeno 650.000 iracheni (non si conosce un numero meglio approssimato, i morti iracheni non contano e non vengono contati, a differenza dei circa 4000 morti della coalizione dei Potenti, di cui stampa e televisione hanno fornito biografie ed interviste ai parenti sconsolati, per farli sentire come qualcuno di noi).
E così vaccinati, ora siamo pronti a berci la prossima fandonia che ci creerà la prossima necessità di difenderci da qualcun altro.
I popoli non sono mai favorevoli all'idea di intraprendere una guerra; però non occorrono grandi sforzi di propaganda per rovesciare la situazione. Settanta anni fa Hitler riuscì a trascinare con sè l'opinione pubblica tedesca paventando il pericolo che la Polonia fosse sul punto di invadere la Germania. I tedeschi bevvero quella evidente fandonia e seguirono il loro Fuhrer verso l'apocalisse.
Ingenui.
Mica come gli statunitensi che, molto più avveduti, non volevano proprio saperne di impelagarsi in una guerra incerta e pericolosa nel Vietnam. Ma nell'agosto 1964 il presidente Lyndon Johnson diede la notizia che due navi americane erano state attaccate dai vietnamiti nel Golfo del Tonchino, e l'invasione del Vietnam divenne per tutta la stampa e il popolo statunitense una doverosa difesa della Patria offesa e minacciata. Anni dopo, il ministro della difesa Robert McNamara dovette confessare che quella notizia era falsa: l'attacco del Tonchino non era mai esistito. Ma ormai gli americani l'avevano bevuta, e parecchio tempo e una miriade di vittime civili avevano dovuto passare prima che l'opinione pubblica riaprisse gli occhi.
Dopo molte altre esperienze istruttive, ad esempio la rivoluzione democratica del Nicaragua maciullata per evitare che i sandinisti invadessero gli Stati Uniti, con osanna a Ronald Reagan da parte dei suoi elettori per la sua lungimiranza, ancora nel 2003 si accerta con infallibile sicurezza una nuova minaccia per l'Occidente: le terribili armi di distruzione di massa in possesso del'Iraq. Mai esistite, ma l'Occidente compatto ha bevuto la frottola. A guidare la Crociata del Bene, e a seguire come cagnolino scodinzolante, due paesi che le armi di distruzione di massa le hanno adoperate per davvero: gli Stati Uniti la bomba atomica, e l'Italia i gas, nella guerra d'Etiopia del 1935-36. Forte di tali ben giustificati motivi, la coalizione dei Portatori di Democrazia ha fatto condannare a morte Saddam Hussein per crimini contro l'umanità, per avere ordinato l'uccisione di 148 iracheni. Per avviarlo alla forca, i Portatori di Democrazia hanno ucciso almeno 650.000 iracheni (non si conosce un numero meglio approssimato, i morti iracheni non contano e non vengono contati, a differenza dei circa 4000 morti della coalizione dei Potenti, di cui stampa e televisione hanno fornito biografie ed interviste ai parenti sconsolati, per farli sentire come qualcuno di noi).
E così vaccinati, ora siamo pronti a berci la prossima fandonia che ci creerà la prossima necessità di difenderci da qualcun altro.
Jesse
Si sono svolti in agosto all'Olympiastadion di Berlino i campionati mondiali di atletica leggera.
Sulla divisa degli atleti degli Stati Uniti, all'altezza della clavicola sinistra, si leggeva una piccola sigla: JO.
JO sta per Jesse Owens, il grande protagonista delle Olimpiadi che si erano svolte in quello stesso stadio nel 1936. Hitler le aveva organizzate per celebrare la superiorità della "razza ariana", e senza troppi scrupoli. Nel torneo di calcio, l'Austria fu battuta dal Perù per 4-2, nonostante tre gol annullati ai sudamericani. E allora fu annullata la partita, per una immaginaria invasione di campo. Il Perù abbandonò il torneo, e alla fine la medaglia d'oro andò agli azzurri del fedele alleato Mussolini.
Nell'atletica leggera, Jesse Owens, nipote di schiavi dell'Alabama, vinse quattro medaglie d'oro nei 100 metri, 200 metri, staffetta 4x100 e salto in lungo. Se uno corre più forte, non c'è imbroglio che tenga; nel lungo, gli diedero un salto nullo che probabilmente non era poi tanto nullo, ma non ci fu nulla da fare lo stesso.
Ci sono diverse leggende sulla furia di Hitler per quella sconfitta del suo razzismo: non gli strinse la mano, abbandonò lo stadio, o non partecipò alla premiazione semplicemente perchè non era previsto dal cerimoniale, non si è mai capito bene.
Ci sono invece storie certe di come Jesse Owens visse al suo ritorno negli Stati Uniti dopo il trionfo:
non fu invitato alla Casa Bianca;
salì sugli autobus dalla porta posteriore, riservata ai neri, e cedette il posto a sedere ai bianchi;
mangiò in ristoranti per neri;
usò gabinetti per neri;
alloggiò in alberghi per neri. (1)
(1) Eduardo Galeano - Specchi - Sperling & Kupfer, 2008
Sulla divisa degli atleti degli Stati Uniti, all'altezza della clavicola sinistra, si leggeva una piccola sigla: JO.
JO sta per Jesse Owens, il grande protagonista delle Olimpiadi che si erano svolte in quello stesso stadio nel 1936. Hitler le aveva organizzate per celebrare la superiorità della "razza ariana", e senza troppi scrupoli. Nel torneo di calcio, l'Austria fu battuta dal Perù per 4-2, nonostante tre gol annullati ai sudamericani. E allora fu annullata la partita, per una immaginaria invasione di campo. Il Perù abbandonò il torneo, e alla fine la medaglia d'oro andò agli azzurri del fedele alleato Mussolini.
Nell'atletica leggera, Jesse Owens, nipote di schiavi dell'Alabama, vinse quattro medaglie d'oro nei 100 metri, 200 metri, staffetta 4x100 e salto in lungo. Se uno corre più forte, non c'è imbroglio che tenga; nel lungo, gli diedero un salto nullo che probabilmente non era poi tanto nullo, ma non ci fu nulla da fare lo stesso.
Ci sono diverse leggende sulla furia di Hitler per quella sconfitta del suo razzismo: non gli strinse la mano, abbandonò lo stadio, o non partecipò alla premiazione semplicemente perchè non era previsto dal cerimoniale, non si è mai capito bene.
Ci sono invece storie certe di come Jesse Owens visse al suo ritorno negli Stati Uniti dopo il trionfo:
non fu invitato alla Casa Bianca;
salì sugli autobus dalla porta posteriore, riservata ai neri, e cedette il posto a sedere ai bianchi;
mangiò in ristoranti per neri;
usò gabinetti per neri;
alloggiò in alberghi per neri. (1)
(1) Eduardo Galeano - Specchi - Sperling & Kupfer, 2008
Iscriviti a:
Post (Atom)