L'avere nominato il professor Richard Lynn (Università dell'Ulster: si occupa principalmente di Quoziente di Intelligenza e differenze fra razze. Ha pubblicato nel 2002 QI e ricchezza delle nazioni, ed ha fatto un pò di rumore anche in Italia all'inizio di quest'anno pubblicando uno studio dal quale risultava che il QI nell'Italia meridionale è più basso che nel nord, e la causa era attribuita alla mescolanza con razze meno intelligenti, quali arabi ed africani: tanto per dare un'idea del personaggio) in un post precedente, mi ha fornito lo spunto per riprendere in mano Intelligenza e pregiudizio, senz'altro il mio libro preferito di sempre, e potere apprezzare ancora, a distanza di anni, il valore e la forza immutati delle argomentazioni di S.J. Gould su determinismo biologico e "razzismo scientifico". Il fatto che quel libro, la cui ultima edizione risale a una quindicina di anni fa, rimanga ancora così vivo ed attuale, nasconde in realtà anche qualcosa di triste e sconfortante: le cicliche ondate di popolarità di pubblicazioni tendenti ad ordinare i gruppi umani secondo una scala di valore, nella quale invariabilmente il posto più alto spetta al gruppo al quale appartiene l'autore della pubblicazione, possono essere affrontate e smontate sempre con le stesse, e del tutto adeguate ed efficaci, armi di logica e conoscenza. Eppure, invariabilmente, esse ritornano tali e quali a distanza di qualche anno. Non alla luce di chissà quali nuovi dati o clamorose svolte innovative, o di perfezionamenti procedurali mai messi in atto prima, ma sempre rimasticando gli stessi concetti e riproponendo sempre gli stessi errori metodologici ed interpretativi; e puntualmente ritornano a fare breccia nell'opinione pubblica.
Gould scrive, nell'introduzione: "Quale argomentazione contro la possibilità di mutamenti sociali potrebbe essere più cinicamente probante dell'affermazione secondo cui l'ordine sociale prestabilito, con alcuni gruppi ai vertici e gli altri in basso, esiste in quanto esatto riflesso delle innate ed immutabili capacità intellettuali degli individui così classificati ?"
Ci armiamo di logica, conoscenza e ragionamento e riusciamo molto agevolmente a spegnere il focolaio (poichè si mostra facilmente, per tornare alla citazione qui sopra, che quelle capacità potrebbero essere innate solo in piccola parte, non essere affatto immutabili, e che il metodo di misura e classificazione è improprio), ma l'incendio tornerà a divampare ancora tra qualche tempo chiamandoci di nuovo all'opera. Nel mio piccolo, non mi stancherò di contribuire a spegnere questi fuochi, ma riusciremo mai a costituire nella nostra società gli anticorpi che possano metterci definitivamente al riparo da queste cicliche eruzioni di pseudoscienza razzista ? Non sarebbe affatto difficile, eppure...
Eppure prevale, in primo luogo nei periodi di crisi, la spinta a conservare egoisticamente i propri privilegi, per quanto minuscoli essi possano essere: perchè dissipare risorse per favorire l'integrazione e tutelare i settori più deboli della società, se questi sono composti da individui intrinsecamente ed irrecuperabilmente peggiori, fatti con cervelli scadenti e geni cattivi ?
Un tempo era compito della Chiesa (e delle religioni in genere) quello di conservare e perpetuare lo status quo sociale: i nobili sono nobili ed i servi della gleba sono servi perchè Dio così vuole, e le fiamme dell'inferno accoglieranno chi volesse tentare di stravolgere l'ordine costituito. E che oggi sia la scienza ad assumersi lo stesso ruolo mi fa veramente cascare le braccia.
Come si vede l'argomento è vasto, e richiederà certamente diversi capitoli. Cominciamo quindi dalle origini.
Poniamo l'inizio della nostra storia al 1904, quando il Ministero della Pubblica Istruzione di Francia incaricò Alfred Binet, direttore del laboratorio di psicologia alla Sorbona, di studiare qualche tecnica per individuare precocemente bambini con difficoltà di apprendimento che potevano avere bisogno di percorsi educativi particolari. Binet aveva praticato la craniometria, scienza principe dell'antropologia ottocentesa, ricavandone frustrazione per l'inconsistenza dei risultati ottenibili e per il peso che il pregiudizio degli sperimentatori poteva avere nell'influenzare i risultati stessi (una volta o l'altra bisognerà parlare degli orrori dell'antropologia del XIX secolo, dai craniometristi a Cesare Lombroso: se ne ricaverà un bestiario persino spassoso - se non ci avesse lasciato una fastidiosa eredità di luoghi comuni che imperversano tuttora -).
Per questo incarico Binet scelse volutamente un approccio pragmatico e strettamente empirico: mise insieme una lunga serie di piccoli problemi, in sequenze di difficoltà crescente, legati a capacità di base come "direzione (ordinare), comprensione, capacità inventiva, critica (correggere)...", escludendo esplicitamente dal test tutte le capacità apprese, come la lettura o la scrittura. I livelli crescenti di difficoltà corrispondevano ad età teoriche alle quali un bambino normale dovrebbe essere in grado di risolvere quel tipo di problemi.
La serie di test permetteva di ottenere una "età mentale" (il livello oltre il quale il bambino non era più in grado di andare avanti a risolvere quesiti), che Binet sottraeva dalla reale età cronologica. Fu il tedesco Stern, nel 1912, che apportò la giusta correzione di dividere, e non sottrarre, l'età mentale per quella cronologica, varando il quoziente di intelligenza (che venne poi moltiplicato per 100 per eliminare i decimali, e diventò in realtà, a rigore di termini, una percentuale).
Il senso del lavoro di Binet fu quello di mettere insieme il maggior numero e la maggior varietà possibile di esercizi, per avere un'esplorazione ampia delle capacità generali del bambino, ma era ben cosciente che il numerino che otteneva come risultato del test non era espressione di un'entità reale e unitaria, ma solo un riassunto di una varietà di prestazioni diverse, utile solo per le finalità pratiche che il Ministero gli aveva richiesto. Rifiutò sempre in modo chiaro l'identificazione della misura dell'intelligenza con il risultato del suo test: "Parlando propriamente, la scala non permette una misurazione dell'intelligenza, perchè le qualità intellettuali non sono sovrapponibili, e quindi non possono essere misurate come può essere misurata una superficie..." (1905).
Ancor più importante era lo scopo: individuare i bambini con difficoltà per avviarli a percorsi formativi più adatti (ad esempio con esercizi specifici per migliorare le capacità di attenzione, o con la formazione di apposite classi di 15-20 alunni, contro i 60-80 che erano allora frequenti nelle aule scolastiche dei quartieri più poveri); la valutazione era finalizzata al miglioramento, non doveva diventare un'etichettatura dei bambini meno capaci: l'inventore del test dava per scontato che l'intelligenza (qualunque significato avesse) potesse essere migliorata da un'educazione adeguata, e non poteva essere una quantità fissa e innata, e si compiacque dei buoni risultati ottenuti dai suoi corsi speciali. Ma nello stesso tempo Binet stesso fiutò il pericolo del "marchio indelebile" e mise in guardia da insegnanti che avrebbero potuto trovare una buona scusa ber sbarazzarsi dei bambini che creano problemi, o dal test che diventa una di quelle profezie che si auto-avverano, modificando l'atteggiamento dell'insegnante e quindi dirottando il comportamento e i risultati del bambino.
Vedremo nelle prossime puntate che i suoi presagi nefasti non erano affatto infondati.
Principali fonti bibliografiche, per questo e i prossimi post su questo tema:
- Stephen Jay Gould: Intelligenza e pregiudizio. Il Saggiatore, 1996.
- Richard Lewontin: La diversità umana. Zanichelli, 1987.
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