lunedì 24 gennaio 2011

L'ameba e Platone


Dictyostelium discoideum è un'ameba, un organismo unicellulare che striscia nella sotanza organica in decomposizione, tipicamente nelle lettiere di foglie morte, nell'humus, ecc., dove si nutre dei batteri che colà proliferano. Ai tempi del mio libro di testo di Botanica, di ...nt'anni fa, era ancora classificato in quell'eterogeneo ed affascinante raggruppamento di Funghi-non funghi che erano i Mixomiceti; vedo che le tassonomie più moderne escludono ogni parentela con i Funghi e lo inseriscono tra i Protisti, pur mantenendo un vago richiamo nel nome del Phylum dei Micetozoi.
La peculiarità di questi microrganismi è la capacità, quando il cibo o l'umidità cominciano a scarseggiare, di raggruppare decine di migliaia di singole cellule, che si fondono insieme a formare uno pseudoplasmodio, cioè un gigantesco cellulone unico, di qualche millimetro, con decine di migliaia di nuclei. Lo pseudoplasmodio assume l'aspetto grossomodo di una lumaca, e migra strisciando in cerca di ambienti più favorevoli, percorrendo decine e decine di centimetri. Trovato un posto adatto, vi si insedia formando un corpo fruttifero con uno stelo ed un bulbo (sporangio) contenente le spore da liberare nel nuovo ambiente, ove le singole cellule ritornano ad essere entità autonome e separate.
Si tratta di un microrganismo molto ben conosciuto e studiato in molti laboratori di tutto il mondo, tanto che ormai i meccanismi biochimici che governano l'aggregazione delle cellule sono piuttosto ben conosciuti.






Ma un articolo pubblicato pochi giorni fa sulla rivista Nature (1) rivela un'attitudine finora ignota e piuttosto impressionante del nostro Dictyostelium: alcuni cloni di queste amebe hanno la capacità di portarsi dietro i loro batteri preferiti durante le migrazioni, per seminarli poi nella nuova destinazione.
In pratica, le linee cellulari "allevatrici", smettono di alimentarsi un pò prima di quelle "non-allevatrici" e, prima di iniziare la migrazione, "fanno le valigie" inglobando batteri vivi che saranno poi conservati nell'apparato riproduttivo, e rilasciati insieme alle spore nel nuovo habitat.
Questo costituisce un vantaggio evidente nel caso in cui il luogo in cui si sviluppa il corpo fruttifero scarseggi di flora batterica, o che quella presente non sia particolarmente commestibile: l'ameba semina, letteralmente, i batteri di cui nutrirsi per farli crescere attorno a sè.
I ceppi "non-allevatori", d'altra parte, hanno il vantaggio di mangiare di più ed accumulare una maggiore quantità di energia, ed è stato osservato che finchè riescono a trovare situazioni di abbondanza, si riproducono con maggiore efficienza dei ceppi "allevatori".
Inoltre, gli "allevatori" migrano, mediamente, per distanze più brevi; ma non è detto che questo sia un contraccolpo negativo dovuto alla minore energia: può darsi che sia invece un effetto positivo della loro capacità di crearsi da sè un ambiente più favorevole, e quindi hanno bisogno di fare, mediamente, meno strada per trovare un luogo idoneo.
Noi umani abbiamo imparato a riprodurre e allevare le nostre fonti di cibo, anzichè limitarci a dar loro la caccia, non prima di 10-11000 anni fa; siamo stati preceduti di qualche decina di milioni di anni da formiche e termiti, che allevano attivamente funghi e afidi; ed ora scopriamo che questa abilità è presente anche in organismi estremamente semplici (e fa un pò impressione ricordare che l'invenzione dell'agricoltura ha comportato per l'uomo l'abbandono della vita nomade, e che persino le amebe diventano più "sedentarie" se sono capaci di seminare il loro cibo).

Ma un altro aspetto di questa scoperta mi ha dato un pò da pensare: come mai un microrganismo così ben conosciuto, allevato in laboratorio da molto tempo ed oggetto di studi in ogni parte del mondo, rivela solo oggi una caratteristica così interessante ? Brock e colleghi hanno raccolto 35 cloni selvatici di Dictyostelium, ed hanno trovato che circa un terzo di essi sono "allevatori di batteri", proprietà che pare determinata geneticamente. I laboratori in giro per il mondo, per decine di anni si sono scambiati i loro isolati, in cerca delle caratteristiche più favorevoli per i propri lavori in vitro, ed il risultato è che praticamente tutti usano lo stesso ceppo, isolato negli anni '30; semplicemente è capitato che questo sia un "non-allevatore".
Sono inconvenienti che capitano quando non si considera la variabilità come una caratteristica intrinseca e fondamentale delle specie (e un pò di tutte le nostre categorie, comunque le identifichiamo), ma una sorta di accidente di disturbo. In questo caso sono state contingenze di utilità pratica a guidare la nostra conoscenza verso un modello uniformitaristico, e comunque il risultato è stato quello di perdere parte dell'essenza di ciò che si stava osservando. Ma in generale è ancora difficile separarsi dai retaggi platonici che ci invitano ancora a considerare il "tipo ideale" come elemento caratterizzante delle categorie attraverso le quali ordiniamo la nostra visione del mondo, e la variazione come una fastidiosa imperfezione.
Dovremmo invece imparare a considerare sempre la variabilità come una costituente propria, caratterizzante, irriducible e positiva delle nostre categorie classificatorie: in una natura evolutiva è la diversità, e non l'omologazione, la misura dell'eccellenza.

(1) Debra A. Brock,Tracy E. Douglas, David C. Queller & Joan E. Strassmann
Primitive agriculture in a social amoeba
Nature, Vol: 469 (2011), Pages: 393–396.

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