mercoledì 28 marzo 2012
Si spara a colori
Ho letto ieri questo inquietante articolo di Melanie Tannenbaum, e ci ho messo un giorno per digerirlo.
La Tannenbaum prende spunto da un fatto di cronaca nera che sta sollevando negli Stati Uniti polemiche che purtroppo sono frequentemente ricorrenti: in Florida, Trayvon Martin, uno studente di colore, è stato ucciso con un colpo di pistola da George Zimmerman, il quale, avendolo di fronte nel buio della strada, temeva che fosse armato. Trayvon teneva in mano un sacchetto di Skittles, caramelline alla frutta.
Da questo punto di partenza (il fatto in sè aveva probabilmente un fondo di premeditazione ed uno svolgimento più grave e meno casuale di questa descrizione sommaria, ma non mi ci addentrerò), viene riportato un esperimento condotto nel 2002 dallo psicologo Joshua Correll, che rivela qualcosa che tutti noi dovremmo tenere bene a mente, anche se forse preferiremmo non saperlo affatto. L'esperimento è fondato sul "Dilemma dell'agente di polizia": decidere in un attimo, senza avere tempo di riflettere, se sparare o no trovandosi all'improvviso di fronte ad una persona che potrebbe essere armata oppure no.
Per motivi analoghi e più gravi rispetto a quello sull'alimentazione che vi ho raccontato una settimana fa, l'esperimento non si è svolto in vivo, ma con una specie di videogame, e ad esso sono stati sottoposti alcuni gruppi di studenti di college americani.
Sullo schermo appariva una serie di personaggi potenzialmente minacciosi e con qualche oggetto in mano, e lo studente doveva decidere, premendo un tasto, se sparare o no, cercando di capire se la figura avesse un'arma, ma senza avere il tempo di accertarsene. Il dilemma veniva incentivato attraverso un gioco a punti: + 10 se si spara ad un personaggio realmente armato; + 5 se non si spara ad una persona disarmata; per le decisioni sbagliate, - 20 se si spara ad un inerme e - 40 se si risparmia un ceffo che invece è armato (la scusa è che questo sarebbe l'errore più pericoloso per un vero agente di polizia; in realtà la scala dei punteggi è costruita in modo da invogliare a sparare: a parità di figuri incontrati, si fanno comunque più punti sparando sempre che non sparando mai).
L'elemento che maggiormente interessava i ricercatori non è stato accennato agli studenti nella presentazione del gioco-esperimento: alcuni dei potenziali bersagli che di volta in volta apparivano sullo schermo erano negri, altri bianchi.
Esito della prova: gli studenti indovinavano più facilmente nello sparare alle figure armate se queste erano di colore; ed indovinavano più facilmente nel non sparare ai disarmati se questi erano bianchi; e, inutile dirlo, sparavano accidentalmente a persone che avevano in mano un cellulare o una lattina con più frequenza se queste erano negre rispetto ai disarmati bianchi. Fin qui, potrebbe essere triste ma non così sconvolgente: ci sono molte persone che hanno pregiudizi razziali, e possono tendere a identificare i negri come figure minacciose, con più probabilità immaginarle armate, e quindi essere motivo dell'asimmetria dei risultati.
Ma purtroppo non è così.
Gli studenti partecipanti all'esperimento possono essere raggruppati in base alle proprie convinzioni politiche, etiche, ed al proprio livello di informazione e consapevolezza sui pregiudizi razziali. Ebbene: persone razziste ed antirazziste hanno le stesse probabilità di sparare ad un negro disarmato; non sono le convinzioni e/o i pregiudizi a fare la differenza. Addirittura, anche gli studenti neri, nel gioco sparano ai soggetti neri con la stessa frequenza dei loro compagni bianchi.
Ma un fattore che consente di fare qualche previsione sulle probabilità dei risultati in realtà c'è, e incupisce ulteriormente il quadro piuttosto che chiarirlo.
E' la consapevolezza dell'esistenza di pregiudizi razziali; quanto più forte è il livello di conoscenza sui preconcetti che esistono nella società nei confronti delle persone di colore, tanto più probabilmente in quell'attimo in cui bisogna decidere, si sparerà ad un negro, indipendentemente da quanto quei pregiudizi siano condivisi o avversati.
Paradossalmente, persone del tutto ignare dell'esistenza del razzismo sarebbero quelle più equanimi nel decidere. La consapevolezza degli stereotipi culturali agisce in modo più radicale degli stereotipi stessi, e li fa emergere, all'atto della decisione istantanea e non razionale, indipendentemente dal fatto che siamo o no razzisti, o che pensiamo o non pensiamo che le persone di colore siano tendenzialmente violente.
Così, la leggerezza nel disseminare luoghi comuni e generalizzazioni, i politici che seminano odio per raccogliere voti, la sola esistenza di una foschia culturale di pregiudizio razziale può condizionare il nostro comportamento immediato, anche se contrastiamo queste derive, al punto di decidere di sparare alla raffigurazione di quei pregiudizi che vorremmo combattere.
E' il razzismo che ci si presenta come caratteristica emergente (1) della società, cioè una proprietà che si manifesta nei singoli, ma indipendentemente dalle caratteristiche individuali, come frutto delle relazioni collettive che legano la comunità.
Quasi più agghiaccianti ancora sono i commenti dei lettori, in coda all'articolo della Tannenbaum: quasi tutti precipitano nella discussione dello specifico caso di cronaca, come in un qualsiasi talk-show per massaie, e ignorano completamente la questione che riguarda ciascuno di noi: io come mi sarei comportato in quel gioco di simulazione ?
Ed uno solo, che non a caso dichiara di essere non americano, pone una questione che nella vicenda è una chiave determinante: non ci sarà prima di tutto un problema di troppa facilità di accesso al possedere armi, che ha come conseguenza il fatto che qualsiasi bullo di quartiere possa credersi Rambo e sparare addosso alla prima faccia che non gli piace ?
(1) La migliore spiegazione del concetto di emergenza l'ho trovato in Lewontin (e vattelappesca dove l'ho mai letto): gli uomini non hanno le caratteristiche per poter volare. Neanche se ci raduniamo a centinaia, e battiamo tutti assieme le braccia in modo sincronizzato, possiamo riuscire a volare. Eppure io ho volato più volte, e sicuramente molti di voi l'hanno fatto. E' la nostra società che ci permette di volare, con persone che costruiscono aerei, altre che gestiscono gli aeroporti, altre che definiscono i regolamenti, ecc... però il volare non è una caratteristica della società: la società non vola, volano gli individui.
martedì 27 marzo 2012
Gli Insospettabili
La notizia del giorno è tale da turbare la quiete di uno dei mondi che ci siamo sempre immaginati come tra i più silenziosi ed imperturbabili, insonoramente e sobriamente crudeli a livelli quasi montiani (se mi si perdona l'antinomia).
Ma ora, dalle profondità marine ci giungono gli echi di una scoperta inattesa.
Un robot sottomarino automatico, programmato per registrare suoni (e che, va detto ad onor del vero, non era stato ideato precisamente per questo scopo), ci rivela che i pesci scorreggiano durante la notte.
Che ne sarà adesso dei nostri luoghi comuni sui silenzi degli abissi ?
E soprattutto, dobbiamo temere futuri intermezzi pubblicitari con la Marcuzzi vestita da sirenetta ?
martedì 20 marzo 2012
Dimmi cosa mangi...
La soddisfazione che si prova quando ci si imbatte in un fatto che dà qualche appiglio ai nostri preconcetti irrazionali può non essere un sentimento molto nobile, ma pur sempre soddisfazione è.
Forse avrete letto qualcosa degli studi più recenti condotti sulla celebre mummia Otzli, il cacciatore di 5000 anni fa ritrovato conservato sul ghiaccaio del Similaun, che hanno stabilto che era intollerante al lattosio. Questo non dovrebbe meravigliare affatto, essendo del tutto normale che gli adulti non producano più l'enzima lattasi, che scinde il lattosio, lo zucchero del latte, nei suoi due componenti semplici, glucosio e galattosio, rendendolo assorbibile. L'enzima è indispensabile nei bambini poi, con l'età, il gene che lo codifica viene "spento", perchè è inutile consumare energia per fabbricare proteine che non servono.
La mutazione che mantiene attiva la produzione di lattasi anche negli adulti si è diffusa solo nelle ultime migliaia di anni, quasi esclusivamente nelle popolazioni che hanno cominciato per prime ad allevare bovini e ovini (Medio Oriente ed Europa centro-settentrionale come nuclei di origine, e relative aree di migrazione), tanto che ci sono differenze geografiche estremamente cospicue nella frequenza di tali mutanti: nel Nord Europa quasi nessuno è intollerante al lattosio, mentre lo sono pressochè tutti gli Africani del Sud e gli Asiatici orientali (sebbene i Cinesi siano stati forse i primi ad intraprendere l'allevamento di animali, disponevano di suini e pollame, quindi non producevano latte e derivati).
Si può facilmente immaginare una forte pressione della selezione naturale nella propagazione della mutazione: una volta che ho imparato ad allevare la mucca, se non posso digerire il lattosio, per superare il periodo di carestia mi tocca ammazzare la mucca; se invece posso sfangare i tempi duri a latte e formaggi, salvo il bovino e mi assicuro la sopravvivenza anche per l'anno successivo.
Quindi avremmo potuto già immaginare che Otzli fosse intollerante al lattosio, dato che 5000 anni fa l'area alpina era ancora esente da mucche, nè viola nè cromaticamente più credibili, da fabbriche di cioccolato gestite da marmotte, si ignoravano i piaceri dello Sbrinz, e agli Svizzeri andava già bene se potevano raccogliere le loro erbe per sfamarsi in silenzio, senza andare a rompere le palle ai ciccioni nelle saune finlandesi.
Un altro tipo di mutazione il cui successo è evidentemente legato all'alimentazione è quella consistente in una duplicazione in più copie del gene (e quindi una sovraproduzione) dell'amilasi, l'enzima che spezzetta le enormi molecole di amido in zuccheri più semplici, nelle popolazioni che hanno storicamente avuto farine di cereali come base quasi esclusiva della loro dieta.
Come si vede, ciò che mangiamo ha tenuto in funzione i meccanismi della microevoluzione anche nelle poche migliaia di anni che ci separano dagli albori dell'agricoltura; e il tipo di cibo che assumiamo influisce in modo abbastanza rapido e diretto sulla capacità di "accendere" o "spegnere", cioè esprimere o no, geni i cui prodotti intervengono nel metabolismo dei nostri alimenti.
Grazie ad una segnalazione su Pikaia, ho scoperto un'interessante pubblicazione del 2008 (1), di un gruppo di ricercatori facenti centro sul Max Planck Institut di Lipsia.
Gli interrogativi a cui si cercava risposta erano, in sintesi: in che misura la differenza di alimentazione tra uomini e scimpanzè (maggior quantità di proteine, cottura dei cibi) influisce sull'espressione differenziale di geni; se tali (eventuali) differenze siano risposte fisiologiche o adattamenti genetici fissati dalla selezione, e quindi se le modificazione delle abitudini alimentari (cioè cambiamenti culturali) abbiano avuto un ruolo nella nostra evoluzione biologica a partire dalla separazione dai parenti più prossimi.
Poichè anche i tesisti più sfigati si prestano malvolentieri ad essere utilizzati come cavie, tocca ricorrere ai soliti topi per gli esperimenti di laboratorio.
Quattro gruppi di topi sono stati sottoposti per due settimane a quattro diversi regimi alimentari: il gruppo di controllo ha continuato a seguire la normale dieta dell'allevamento di roditori dell'Istituto; un secondo gruppo è stato nutrito con la dieta di allevamento degli scimpanzè (da quel che ho capito, l'Istituto gestisce anche lo zoo cittadino), a base di frutta, verdure e yogurt; il terzo ha ricevuto l'alimentazione "umana" della Caffetteria dell'Istituto (umana se non si fa mente locale sul fatto di trovarsi in Germania); il quarto gruppo di topi è stato sottoposto al menù del locale McDonald's, povere bestie.
Trascorse le due settimane, si andava a vedere se c'erano differenze tra i quattro gruppi in termini di geni espressi nel fegato e nel cervello (ma intanto annotiamo che i topi che mangiano da McDonald's aumentano di peso più degli altri).
Riassumo in due parole i risultati importanti per saltare poi alla pralina finale. Nel fegato dei topi, due settimane di alimentazione differenziata fanno sì che su oltre 13000 geni espressi, 830, il 6,3 %, siano diversi tra chi mangia come uno scimpanzè e chi come un uomo (senza differenze significative tra frequentatori di caffetteria e fast food). Poichè tra mammiferi la stragrande parte del genoma è simile, quasi tutti tali geni dei topi hanno iloro omologhi nei Primati; e si vede che questi geni "dieta-inducibili" hanno un tasso di divergenza tra uomo e scimpanzè un pochino più elevato rispetto alla generalità delle differenze genetiche tra noi e Cheetah. Quindi sembra che un certo ruolo nella differenziazione le abitudini alimentari lo abbiano avuto. Non si osservano invece particolari differenze nel cervello (sebbene si sappia da tempo che alcune funzioni cerebrali siano influenzate dall'alimentazione)... tranne un dettaglio.
Nel grafico, tratto dall'articolo, l'altezza delle colonne indica la percentuale di geni che si esprimono in modo diverso in confronti a coppie tra diete (nell'ultimo confronto a destra le due alimentazioni umane sono raggruppate insieme); in verde: nel fegato; in azzurro: nel cervello. La parte della colonna in colore più pallido indica quante differenze dovremmo aspettarci se queste fossero dovute solo al caso e non al trattamento alimentare.
Ebbene, le uniche differenze un pò rilevanti nell'espressione di geni nel cervello sono indotte dal cibo del fast food (e non da quello più internazionale della caffetteria, per quanto teutonica).
Non potete immaginare quanto sia irresistibile la tentazione di lascarsi andare ai propri pregiudizi e sostenere che mangiare da McDonald's ci fa rimbecillire; ma ahimè questi risultati, pur interessanti (ed anche inquietanti), non sono certamente sufficienti ad autorizzare (se la si volesse far passare per seria) una conclusione del genere. Quel tipo di alimentazione, protratta per due settimane, determina un'alterazione nella regolazione di alcuni geni nel cervello: è un dato che fa una certa impressione, ma non si può dire altro...
Ma non potrebbe anche essere che un'alimentazione troppo sbilanciata verso la polenta taragna possa portarci ad indossare cravatte verdi, perdere la capacità di elaborare concetti complessi e a limitare l'espressività a movimenti di estensione del dito medio ?
(1) Somel M, Creely H, Franz H, Mueller U, Lachmann M, et al. (2008) Human and Chimpanzee Gene Expression Differences Replicated in Mice Fed Different Diets. PLoS ONE 3(1): e1504. doi:10.1371/journal.pone.0001504
domenica 18 marzo 2012
Anniversari - 18 marzo 1871
Il governo filo-monarchico di Adolphe Thiers, che si era spostato a Versailles per sfuggire ai subbugli che mettevano in fermento la capitale, tenta il colpo di mano militare, ma viene respinto dalla Guardia Nazionale, che prende possesso del Palazzo di Città.
Il 18 marzo 1871 nasce la Comune di Parigi, che governerà al città per 70 giorni, prima di essere travolta sanguinosamente dalle truppe guidate dal generale Mac Mahon (lo stesso che, come alleato del Regno di Sardegna, aveva rotto il fronte del Ticino e sconfitto gli austriaci nella battaglia di Magenta del 1859, all'apertura della seconda Guerra d'Indipendenza), primo esperimento di comunismo realizzato.
Proletariato e borghesia, uniti contro la nobiltà nel 1789, avevano ormai separato le loro strade e le loro ambizioni.
« Parigi operaia, con la sua Comune, sarà celebrata in eterno come l'araldo glorioso di una nuova società. I suoi martiri hanno per urna il grande cuore della classe operaia. I suoi sterminatori, la storia li ha già inchiodati a quella gogna eterna dalla quale non riusciranno a riscattarli tutte le preghiere dei loro preti ». (Karl Marx, La guerra civile in Francia, Londra, 30 maggio 1871)
"Il diritto uguale di tutti ai beni e alle gioie di questo mondo, la distruzione di ogni autorità, la negazione di ogni freno morale, ecco, se si scende alla radice delle cose, la ragion d’essere dell’insurrezione del 18 marzo e il programma della terribile associazione che le ha fornito un esercito".
Inchiesta parlamentare sull'insurrezione del 18 marzo 1871.
giovedì 8 marzo 2012
8 marzo - Breve ed infinita storia di una donna
Il 4 ottobre 1951, nel Johns Hopkins Hospital di Baltimora, moriva per un tumore della cervice uterina molto aggressivo, Henrietta Lacks. Aveva 31 anni e 5 figli.
Nata Loretta Pleasant, era una di 10 fratelli di una famiglia di coltivatori di tabacco originari della Virginia, poverissimi e quasi analfabeti. Non si sa come il suo nome fu modificato da Loretta in Henrietta. I genitori non erano in grado di mantenere la famiglia, ed all'età di 4 anni la bimba fu affidata ai nonni. Si sposò a 21 anni con un cugino, David Lacks, dal quale aveva già avuto due figli, il primo dei quali a 14 anni.
Lacks era il cognome dei proprietari terrieri bianchi per i quali avevano lavorato nei campi di tabacco gli antenati di David e che, secondo l'usanza un tempo comune, era stato attribuito anche agli schiavi neri della famiglia, e quindi da essi mantenuto dopo l'abolizione della schiavitù.
Poco dopo il matrimonio, la famigliola si trasferì nel Maryland, in un sobborgo di Baltimora, con la prospettiva di un lavoro migliore. Poco dopo la sua quinta ed ultima gravidanza, ad Henrietta fu diagnosticato il tumore. Fu quindi portata al Johns Hopkins, perchè quello era l'unico ospedale di Baltimora che accettava di ricoverare i negri, in un reparto separato.
Durante le inutili cure, le furono prelevati alcuni campioni di tessuto epiteliale canceroso dalla cervice, che vennero quindi passati al dottor George Otto Gey, etichettati con la sigla del nominativo della paziente di provenienza: HeLa.
Il dottor Otto Gey si ritrovò tra le mani qualcosa che nessuno aveva mai avuto prima: fino a quel giorno, le cellule umane coltivate in vitro morivano invariabilmente dopo alcuni cicli di divisione. Le cellule prelevate da Henrietta Lacks avevano invece la proprietà di riuscire a moltiplicarsi indefinitamente in un substrato di coltura artificiale.
La possibilità di coltivare in laboratorio cellule umane aprì improvvisamente prospettive del tutto nuove per la medicina: le cellule HeLa vennero subito passate da uno studioso all'altro, ed oggi sono onnipresenti nei laboratori di tutto il mondo e del tutto familiari per chiunque si occupi di ricerca biomedica: già nel 1954, grazie alla linea cellulare HeLa, Salk riucì a mettere a punto il primo vaccino contro la poliomielite (poi soppiantato dal più efficace vaccino di Sabin).
Da allora, le cellule HeLa sono state utilizzate nella ricerca sul cancro, per saggiare la sensibilità a farmaci e cosmetici; talvolta, in tempi meno rigorosi, anche iniettate in pazienti semplicemente per vedere che cosa accadeva; ma pure per il sequenziamento di geni, e ancora oggi negli studi sull'azione del virus dell'AIDS, in esperimenti di fisiologia e per un'infinità di altre ricerche mediche e farmacologiche; sono state anche portate nello spazio per valutarne la reazione a condizioni di assenza di gravità. Ci sono molte migliaia di brevetti che ad esse fanno riferimento.
Ancora adesso non è chiaro perchè la linea cellulare HeLa abbia questa straordinaria ed unica capacità di riprodursi: l'ipotesi più accreditata è che si tratti di un'alterazione nella funzionalità dei telomeri, le estremità dei cromosomi che si ritengono cruciali nel processo di invecchiamento delle linee cellulari; ma è anche vero che questa discendenza da tessuto tumorale presenta diverse importanti anomalie rispetto a cellule umane sane. Comunque sia, le "cellule di Henrietta" sono oggi ubiquitarie nei laboratori del mondo e continuano ad essere coltivate, per una massa complessiva che qualcuno si è preso la briga di stimare in qualche decina di tonnellate.
Oggi un flacone da 100 microgrammi di cellule HeLa può essere acquistato per 100 dollari o più. Neanche la minima parte del ricavato va ai parenti di Henrietta, i quali anzi per molti anni rimasero completamente all'oscuro della scoperta e dei suoi sviluppi (qui trovate una nota di chiarimenti dell'Istituto di Medicina Johns Hopkins).
Henrietta Lacks è seppellita da qualche parte nel grande camposanto di famiglia, chiamato Lackstown, nella sua cittadina di origine, in Virginia; non si sa esattamente dove, perchè nel cimitero della famiglia Lacks, un recinto di legno separa i Lacks neri dai Lacks bianchi; e per i negri non ci sono lapidi.
domenica 4 marzo 2012
Storie di sopraffazione
Non so se avete mai sentito parlare di Ophiocordyceps unilateralis, un fungo delle foreste tropicali parassita di formiche. Una volta penetrato nel corpo dell'insetto, il fungo invade anche i gangli nervosi, e riesce a dirigere il comportamento dell'ospite. La formica infettata abbandona la fila delle compagne e inizia a vagare in qua e in là come ubriaca; con l'aggravarsi dell'infezione, la formica-zombie si arrampica su una foglia a poche decine di centimetri da terra, nelle condizioni migliori di temperatura, umidità e assenza di microrganismi competitori per la sporulazione del fungo, serra le mascelle su una venatura e, così fissata, lì muore. Il fungo riesce anche a fare in modo che il decesso avvenga intorno a mezzogiorno, e la firma del colpevole apparirà alcune ore dopo in forma di un vistoso corpo fruttifero che emerge dal cadavere, favorito dall'umidità della sera, ed inizierà a disperdere spore sul terreno sottostante per infettare altri mirmeco-passanti.
La vittima è tipicamente una formica carpentiere della specie Camponotus leonardi; il parassita infetta occasionalmente anche altre specie simili, ma in questi casi il controllo dei movimenti dell'ospite diventa meno preciso.
E' il caso più impressionante e drammatico che io conosca di un fungo capace di alterare a proprio vantaggio il comportamento di un animale.
Però i rapporti tra funghi ed animali non sono sempre così truculenti, le relazioni possono essere ben più sfumate ed i condizionamenti più sottili.
La scemenza del buon giornalista Liverani sui dinosauri che "volevano" farsi crescere le ali e sono diventati uccelli, citata nel post precedente, mi ha fatto tornare in mente un recente e divertente articolo di Rob Dunn, che potete anche fare a meno di leggere perchè tanto di lì attingerò a piene mani nel seguito, e scopiazzerò spudoratamente aggiungendo come farina del mio sacco solo qualche considerazione supplementare.
Il ribaltamento di punti di vista operato da Dunn dovrebbe risultare illuminante su come possano risultare fuorvianti le semplificazioni che scivolano nel finalismo o nelle "intenzionalità".
Vi presento ora i Coleotteri Curculionidi della famiglia degli Scolitidi. Sono circa 6000 specie, tipicamente mangiatrici di legno, che scavano gallerie sotto la corteccia degli alberi (vivi o morti). Accidentalmente possono trasportare con sè le spore di qualche fungo parassita delle piante: è stato proprio in questo modo, a partire dall'importazione di legname dalle colonie delle zone tropicali, che si è diffusa la grafiosi, la malattia che ha provocato la quasi completa estinzione degli olmi in Europa nel corso del '900.
Ma da cosa nasce cosa. Molte piante producono composti tossici, ed il loro legno risulterebbe immangiabile anche per l'insetto rosicchiatore più agguerrito; però i funghi sono detossificatori formidabili, e circa la metà delle specie di Scolitidi mangiano non più il legno, ma il fungo che lo decompone. Tutti questi circa 3000 insetti si sono specializzati ad allevare una tra alcune dozzine di specie di funghi xilofagi: li seminano nelle gallerie che scavano (buttando via la segatura), e dove poi depongono le uova; le larve cresceranno nutrendosi di micelio nel loro buio giardinetto, e quando diventeranno adulti voleranno fuori portandosi via un pò di fungo, gelosamente custodito e nutrito in apposite tasche nella cuticola, da seminare nella galleria a cui affideranno la loro discendenza. Insetti agricoltori che coltivano funghi per la propria alimentazione.
Macchè, usando le stesse parole di Dunn: io, fungo decompositore del legno, non ho problemi di disponibilità di cibo; ho il problema di arrivarci (per un fungo, il fatto di non avere le gambe complica maledettamente le cose). Il vento è così dispettoso e inaffidabile nel disperdere le spore... e peggio ancora se prediligo gli alberi morti: devo assolutamente arrivarci "prima che quegli stramaledetti batteri inizino a dividersi" nel loro modo orrendamente veloce. Una volta che per caso mi sono trovato a bordo di un insetto che mi ha depositato nella sua galleria, c'è voluto poco a sviluppare qualche trucchetto per metterlo al mio servizio per farmi scarrozzare fino all'interno dei miei tronchi preferiti in modo mirato, ben protetto, lontano da competitori, in condizioni ideali, offrendo in cambio un pò di cibo. Altro che insetti agricoltori: funghi allevatori di bestiame, che nutrono la loro flottiglia di destrieri volanti e li cavalcano allo scopo di farsi portare da un albero all'altro, e "misurano il loro successo dal numero dei loro animali" che permetteranno loro di colonizzare un conseguente numero di nuovi alberi.
Non sono forse punti di vista equivalenti ?
Se così vi pare, ve ne racconto alcune altre ancora più belle.
Torniamo alle formiche tagliatrici, cugine di quella che abbiamo lasciato stecchita all'inizio di questa storia; quelle che tagliano e trasportano in giro per le foreste gonfaloni di foglie.
Contrariamente a quello che si potrebbe pensare, non le mangiano. Le portano nel loro formicaio caldo e umido per formare una bella lettiera. E chi è che le spinge a fare tutto questo lavoro a proprio beneficio ? Funghi, naturalmente, della famiglia delle Lepiotaceae (si tratta di formiche buongustaie: alcuni membri della famiglia Lepiotaceae frequentano con successo anche le nostre cucine: Lepiota procera è la mazza da tamburo). Per alimentarsi di questi miceti prelibati, le formiche li curano e li allevano con tutte le attenzioni possibili; non basta il kilometraggio ed il tonnellaggio di foglie facchinate instancabilmente: i funghi commestibili hanno anche i loro temibili parassiti. Nel caso specifico, si tratta di un altro fungo, Escovopsis, che se infestasse la lettiera di foglie nel formicaio, manderebbe in malora la coltivazione molto velocemente.
Ebbene, le formiche sono attrezzate con tasche cuticolari nelle quali nutrono e danno alloggio a batteri del genere Pseudonocardia, i quali producono antibiotici molto tossici per Escovopsis. Prima di rientrare nel formicaio, le formiche si puliscono molto accuratamente corpo, zampe e antenne, e raccolgono tutto il pulviscolo di risulta, che potrebbe contenere spore del fungo parassita, nelle loro tasche disinfestanti, che vanno poi a svuotare lontano dall'ingresso del nido.
Uno studio condotto con formicai artificiali, il cui contenuto era determinato dagli sperimentatori, un cronometro, ed un'infinità di pazienza, ha dimostrato che le formiche spendono più tempo a pulirsi prima di entrare nei nidi che contengono il fungo e le larve; solo un pochino meno tempo se il nido contiene solo il fungo; mentre le operazioni di pulizia diventano molto più sbrigative davanti ai nidi che contengono le larve ma non il fungo.
Noi ci sentiamo ganzi per avere inventato l'agricoltura 10 o 11 mila anni fa; questa formichine praticano da 50 milioni di anni una forma di agricoltura con lotta biologica ai parassiti.
Ma non sono piuttosto i funghi, sfruttando l'esca della loro appetibilità, che spingono gli insetti ad ospitarli, metterli a loro agio nelle migliori condizioni possibili per farli prosperare, a lavorare per loro, e difenderli pure dai parassiti ai quali sarebbero esposti nell'ambiente esterno ?
E che dire delle termiti ? I funghi del genere Termitomyces vengono curati, accuditi e nutriti in stanzette costruite apposta per loro negli enormi termitai africani delle Macrotermitinae. Pensate che vita dura sarebbe per un fungo stare all'aperto, in un ambiente dal clima secco, in attesa di capitare per caso su una foglia in decomposizione. E quanto è più comodo starsene in un grande palazzo che qualcun altro ha fatto la fatica di costruire, in un ambiente climatizzato, protetto, con tutte quelle termiti che percorrono centinaia di metri o anche chilometri per portarti e servirti a domicilio le tue belle foglie già predigerite. E' un lavoro schifoso quello di mineralizzatore delle deiezioni ? Bah, comunque sia le feci delle termiti sono ricche di nutrienti ed il fungo non ha occhi. Il micelio del fungo è a sua volta cibo per le termiti (un pò di premio ci vuole, per indurre gli animali a lavorare così duramente per te), in un sistema di riciclaggio dei rifiuti semplicemente perfetto.
E quando arriva la stagione delle piogge, il Termitomyces sporge il suo corpo fruttifero sulla parete esterna del termitaio. La specie T. titanicus produce il cappello fungino più grande che si conosca: può arrivare ad un metro di diametro. Quando la vita è comoda e si è serviti, pasciuti e riveriti, si può anche esagerare.
Ma c'è di peggio. Un altro genere di termiti, Reticulitermes, che vive invece in climi temperati, viene comodamente ingannato da un tutt'altro fungo (che, se vi piacciono gli scioglilingua, si chiama Fibularhizoctonia), il quale, una volta introdottosi nel termitaio, forma degli sclerozi, cioè dei conglomerati tondeggianti di ife, di forma simile alle uova delle termiti, e che per di più producono lo stesso segnalatore chimico delle uova, il lisozima. Le termiti non si sono ancora accorte di nulla e accudiscono gli sclerozi del fungo, li puliscono, e li nutrono con tutta la materia organica di cui il fungo ha bisogno. In questo caso il premio per tutto il lavoro che l'animale svolge per il fungo è del tutto illusorio (si aggiunga che le termiti sono anche un pò sempliciotte: il ricercatore giapponese che ha scoperto l'inganno ha provato a spennellare di lisozima delle palline di vetro, e le termiti si prendevano cura delle palline di vetro).
Cominciate ad essere un pò convinti che certi funghi siano capaci di condizionare e manipolare il comportamento di alcuni animali per trarne vantaggio ?
Allora adesso lasciamo perdere gli insetti e cominciamo a pensare a qualche animale un pò più grosso, ed a un fungo di tutt'altri aspetto e forma, invisibile ad occhio nudo.
Se potesse parlare in prima persona, si presenterebbe così:
Buongiorno a tutti; mi chiamo Saccharomyces cerevisiae, o lievito di birra.
Fino a poche migliaia di anni fa, non avrei mai potuto immaginare che lo stress procuratomi dalle condizioni di fermentazione in scarsità di ossigeno, inducendo il mio metabolismo a rilasciare un prodotto di rifiuto tossico e che mi dà anche fastidio, l'alcool etilico, sarebbe diventato la mia fortuna.
Ma facendo fermentare accidentalmente qualche vaso di cereali bagnati, ho scoperto che potevo piegare un grosso mammifero a provvedere alle mie cure ed alla mia proliferazione. E' bastato "drogarlo" appena appena quella prima volta per ridurlo quasi in schiavitù.
Pensate che oggi sulla Terra ci sono estensioni di terreno enormi coltivate ad orzo solo per fornire il malto destinato al mio nutrimento. Per non parlare dei vigneti; la bestia che lavora per me considera il vigneto una coltivazione pregiata, e non perchè serve a lui: l'uva è tanto più pregiata proprio perchè la dà da mangiare a me.
Non devo neanche fare lo sforzo di allevarlo, l'animale al mio servizio. Io non gli dò niente da mangiare, a quello provvede per conto suo, e quindi si mette a mia disposizione spontaneamente; infatti il mio valore alimentare è quasi zero: sono un discreto produttore di vitamine, ma niente di più. Non mi viene richiesto nulla, nessun sacrificio, l'unica cosa che quella bestia desidera sono i miei prodotti di rifiuto tossici e dannosi.
Mi alleva e mi accudisce con tutte le cure, costruisce impianti enormi apposta per la mia moltiplicazione, si adopera a qualsiasi costo perchè io non venga insidiato da altri microrganismi concorrenti, e per di più organizza feste, sagre, brindisi e libagioni in mio onore, il suo fungo-guida. Cosa potrei volere di più ?
Riceve da me nulla, come le sciocche termiti che si lasciano fregare dalle false uova; sono proprio un fungo fortunato: rispetto agli altri miei colleghi che hanno imparato a manipolare insetti, io ho adescato proprio l'animale più pistolone di tutti.
Adesso comprenderemo meglio l'ambigua sottigliezza di quest'ultima immagine: nella fotografia compare una ed una sola rappresentazione di un progetto vincente per governare l'umanità.
Vediamo ora se indovino quello che state pensando: che qualche fungo riesca a controllare il comportamento di qualche insetto o qualche altro animale potrebbe anche essere plausibile; ma che noi uomini ci siamo lasciati abbindolare da un lievito, è un'idea che vi fa arricciare il naso. Noi alleviamo il lievito per ottenere i prodotti del suo metabolismo consapevolemente, intenzionalmente e solo per nostro piacere.
Ora facciamoci un pò seri, sennò chissà cosa potrebbe scrivere L'Avvenire prossimamente. Le interazioni tra organismi diversi non rispondono a progetti o intenzioni; di norma nascono accidentalmente, possono perfezionarsi valorizzando modificazioni nell'anatomia, nella fisiologia o nel comportamento di ciascuna delle controparti, ed il tempo, attraverso il solo meccanismo delle frequenze delle nascite e delle morti, fa diventare stabili quelle che funzionano abbastanza bene e fa sparire le altre.
In realtà, nel nostro caso, è proprio l'intervento di una intenzionalità nella ricerca di un piacere che ci esporrebbe, teoricamente, a poter essere "drogati" e manipolati dal fungo. Dopo tutto, la nostra relazione con questo microrganismo non ci porta nessun benefico concreto: un certo miglioramento nelle relazioni sociali per chi si beve una birra in compagnia non compensa il drammatico peggioramento delle condizioni di vita di chi abusa di alcool.
Che il successo riproduttivo di Saccharomyces abbia tratto vantaggio dal nostro gusto per le bevande alcoliche è fuori di dubbio. Possiamo pensare che i nostri rapporti con questo microrganismo siano sotto il nostro controllo perchè qualche migliaio di anni di conoscenza reciproca forse sono troppo pochi per l'instaurarsi di meccanismi complessi di condizionamento. Ma d'altra parte l'essere "nato ieri" non è un buon viatico per chi pretende di non lasciarsi manipolare dal prossimo.
E infine, proprio il fatto che il nostro uso del microrganismo sia una scelta consapevole sposta il discorso, dall'ambito dell'evoluzione biologica a quella culturale, che procede molto più velocemente. Ed è indicativo di quanto questa relazione sia controversa il fatto che, presso alcuni popoli, classi dirigenti che presero coscienza del danno sociale dell'uso e dell'abuso di alcool abbiano adottato disposizoni restrittive, inchiavardandole sotto il pretesto della religione.
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