mercoledì 3 aprile 2013

Si alzarono e camminarono


Alcuni anni fa ho avidamente letto un prestigioso libro prodotto dai Testimoni di Geova, con una elegante copertina azzurro cielo, tutto imperniato su una serie di arrampicate sugli specchi e sulla distorsione sistematica delle informazioni nel tentativo di smentire l'evoluzione come fatto biologico.
L'edizione risaliva all'inizio degli anni '80, e quindi era ancora piuttosto fresca la scoperta di Australopithecus afarensis (la celebre "Lucy"), che fu, a metà dei '70, il punto di svolta della paleoantropologia.
Fino ad allora si era raggiunta una conoscenza abbastanza completa dell'Uomo di Neanderthal, era stato scoperto con grandi clamori il "Pitecantropo" di Giava (un Homo erectus), ma per quanto riguarda altri ominini più antichi, i nostri saperi erano ridotti a qualche dente, pezzi di mandibola e frammenti di cranio.
La scoperta di Lucy (1973), uno scheletro completo al 40%, con parti cruciali come bacino, femore, entrambe le superfici articolari del ginocchio, proiettava indietro la conoscenza degli ominini fino al traguardo di oltre 3 milioni di anni fa, un milione di anni prima dell'altro Australopiteco (A. africanus) fino allora scoperto in Sudafrica.
Altri e più numerosi reperti della stessa specie erano poi stati portati alla luce nel giro di pochissimi anni, tra il 1974 e il 1979.
Un tale salto indietro nella ricostruzione delle specie antecedenti alla nostra diventava ancora più significativo perchè, più o meno nello stesso periodo, gli studi genetici sulle divergenze basati sul ritmo di accumulo delle mutazioni permettevano di mettere a fuoco l'epoca del nostro ultimo antenato in comune con gli attuali scimpanzè, attorno a soli 6 milioni di anni fa; si era immaginato fino ad allora un tempo molto superiore.
Ebbene, in tale epoca di entusiasmo in tutto il consesso scientifico per le nuove conoscenze acquisite, la descrizione di quella antica australopitecina da parte dei Testimoni di Geova era, per quel che ricordo, quasi corretta, pur se limitata a poche righe. Poi si sosteneva che era in tutto e per tutto una scimmia, e che nessuno, guardandola, avrebbe mai potuto riconoscervi dei tratti umani, e quindi non dimostrava alcunchè riguardo all'evoluzione.
Potrei sbagliarmi, ma mi pare che persino sulla datazione fossero stati piuttosto onesti: quella setta riconosce che i sei giorni della creazione non vadano intesi in senso letterale come periodi di ventiquattro ore, ma che "giorno" possa essere interpretato anche come periodo di tempo non determinato, e quindi una volta qualificato il reperto come animale, e non come umano, una antichità anche notevole risulterebbe ammissibile (è dalla creazione di Adamo in avanti che i tempi della Bibbia sono piuttosto ben definiti, e non consentono una storia umana di durata superiore ad alcune migliaia di anni: è l'antichità dei reperti umani che fa venire l'orticaria ai fondamentalisti biblici, su quelli animali riescono ancora ad aggirare il problema).
In più, lo sforzo di mantenere quanto più aperto possibile il divario tra "umano" e "animale", consentiva di aggrapparsi ancora disperatamente all'antica metafora dell' "anello mancante".
Nel complesso, gli estensori del testo (anonimi) avrebbero fatto quasi la figura degli esperti pressochè obbiettivi e ben informati, se non avessero trascurato, per fatale dimenticanza, proprio il particolare più interessante.
Avevano sbadatamente tralasciato di scrivere che quella scimmietta, che nulla lasciava intravedere di umano, stava dritta in piedi proprio come noi.
Lo si era già chiaramente dedotto dalla conformazione della pelvi, del femore e del ginocchio, ma il "fossile indiretto" trovato nel 1976 in Tanzania era stato definitivo.
Ho avuto il piacere (e quale piacere è più sottilmente pervasivo di trovarsi di fronte ai segni concreti della Storia...) di vedere qualche settimana fa il calco della "camminata di Laetoli" nella pregevole mostra "Homo sapiens", a cura di Telmo Pievani e fondata in buona parte sui lavori di Luigi Luca Cavalli Sforza (il quale, novantunenne, non ha voluto rinuciare ad essere presente all'inaugurazione).
A Laetoli, in Tanzania, 1500 km più a sud del primo ritrovamento in Etiopia (afarensis = del territorio degli Afar), era successo che due (o forse tre) esemplari di A. afarensis avessero camminato sulle ceneri sparse da un'eruzione del vulcano Sadiman, di lì distante 20 km, impastate dalla pioggia. La cenere vulcanica, appena asciugata ha solidificato rapidamente ed è stata poi ricoperta da altri sedimenti, conservando così le impronte per 3,7 milioni di anni a beneficio della nostra ammirazione.
Un conto è dedurre la posizione eretta dalla conformazione delle ossa, ma la vista ha un ruolo del tutto speciale nella nostra percezione, e tutt'altra emozione, ve lo assicuro, procura il trovarsi di fronte alla più antica traccia direttamente osservabile di camminata bipede (e con la ricostruzione dello scheletro di Lucy messa, come a testimoniare, lì accanto).
E' l'immagine che dà letteralità concreta al concetto di "inizio di un lungo cammino".

Ma, come si è detto sopra, le scoperte degli anni '70 hanno segnato una svolta; da allora le nostre conoscenze si sono arricchite a ritmo crescente: un decennio fa la breve storia degli ominini contava già una dozzina di specie o poco più; oggi sono più di venti, tre delle quali presso la fatidica soglia dei 6 milioni di anni fa (e almeno cinque ancora coesistenti appena poche decine di migliaia di anni fa: altro che regale e dominante unicità !);

e la descrizione, nel 2009, di uno scheletro sufficientemente completo di Ardipithecus ramidus ha spostato le evidenze di bipedismo ancora più indietro, a 4,4 milioni di anni fa ("Ardi" aveva postura eretta ma l'alluce divergente, e non parallelo alle altre dita, non proprio l'ideale per un buon camminatore, con presumibile mantenimento della prensilità del piede); anche se è dubbio se questo genere possa essere un nostro diretto antenato o, più probabilmente, un ramo collaterale, senza discendenti, del nostro ormai folto albero genealogico.

Insomma, in pochi decenni abbiamo collezionato tanti "anelli mancanti" che quasi non sappiamo più dove collocarli, e abbiamo felicemente messo in soffitta la visione semplificata (e fuorviante) di una successione lineare di specie, in favore di un ben più ragionevole "cespuglio" fittamente ramificato di discendenze, non tutte (anzi, una sola) dal destino fortunato.
Il passaggio dalla scala lineare alle ramificazioni molteplici non è stato l'unico rovesciamento di prospettiva che la ricostruzione della nostra storia evolutiva ha dovuto affrontare in questi quarant'anni esplosivi: finchè abbiamo potuto contare più sulle nostre aspettative che sui fossili in ...carne ed ossa, cercavamo segni di progressivi incrementi di dimensioni del cervello, l'organo sul quale riponiamo la più orgogliosa enfasi nel focalizzare la nostra peculiarità umana, a guidare la nostra evoluzione.
Speravamo un una storia gloriosa di scimmioni sempre più intelligenti in progressiva sfilata.
Ma il bipede Australopithecus afarensis non aveva il cranio più grande di quello di uno scimpanzè (400 cc o poco più); poco maggiore (600-800 cc) il volume endocranico di Homo abilis, che pure già adoperava strumenti, e certamente non era stato il primo a farlo (i primi utensili saranno stati presumibilmente bastoni, e il legno non fossilizza; ed è probabile che - almeno - alcuni australopitechi fossero già "tecnologizzati"; d'altronde anche gli scimpanzè sono del tutto in grado di usare bastoni e stecchini per raggiungere oggetti lontani o per estrarre leccornie dai termitai).
Per farla breve: il bipedismo ha preceduto di molto l'inizio dello sviluppo di un encefalo di grandi dimensioni; e probabilmente l'avere le mani libere è stata la spinta decisiva a favore di capacità cerebrali sempre più elaborate; ma non solo: un'ipotesi di studio che si va facendo strada tra i paleoantropologi, è che anche l'uso di strumenti sia stato un fattore preliminare all'aumento delle capacità cerebrali. In altre parole: non abbiamo iniziato a costruire utensili perchè eravamo intelligenti, ma viceversa la disponibilità di attrezzi ha creato una pressione selettiva in favore di chi era in grado di adoperarli meglio: uno strumento mi permette di agire direttamente su uno spazio più esteso di quello fisicamente occupato dal mio corpo, quindi devo apprendere un controllo spaziale più articolato, e riesco meglio se ho più ampie capacità di elaborazione.

Il punto veramente cruciale dell'evoluzione dell'uomo fu quell'alzarsi in piedi (a guardare sopra l'erba alta in un'Africa orientale che si andava inaridendo, dove le foreste lasciavano il posto a praterie sempre più povere di alberi; e con una minore sezione corporea esposta al sole, che consentiva di limitare il surriscaldamento); un passaggio "difficile", perchè richiede un cospicuo riarrangiamento anatomico, in particolare di di anca e piede; una nuova architettura inevitabilmente imperfetta: mal di schiena ed ernie del disco sono lì a ricordarcelo.
E chissà quali difficoltà e quanti problemi quelle prime scimmie bipedi avranno incontrato, quante volte i nostri antenati si saranno trovati sull'orlo dell'estinzione, e quante volte la storia avrebbe potuto prendere una piega del tutto diversa, in direzione di un oggi che avrebbe potuto benissimo fare a meno di noi.
Abbiamo tutte le migliori ragioni perchè il nostro straordinario cervello ci piaccia da matti, per le prestazioni davvero uniche in natura che esso ci consente, ma il fondamento anatomico di tale meraviglia è in fondo una "semplice" duplicazione e moltiplicazione di strutture già esistenti. Il primo vero passo dell'evoluzione umana è stato un passo in senso letterale, non una speciale elaborazione intellettuale, e non è un caso che l'elegante libercolo dei creazionisti abbia dovuto proprio far sparire le tracce di quel camminare, per poter occultare la continuità storica tra "Lucy" e noi.
Ma qual'è, infine, quella forza che ci permette di stare in piedi, al di là degli adattamenti delle architetture di ossa ed articolazioni ? E' quella di un muscolo, altrettanto fondamentale, che trattiene bacino e tronco dal piegarsi in avanti: gli altri mammiferi lo adoperano solo sporadicamente, quando devono alzarsi sulle zampe posteriori, mentre noi lo teniamo in azione costantemente, per mantenere l'angolo di 180°C tra femore e colonna vertebrale, il grande gluteo.
Ed ecco che in definitiva, il vero fondamento essenziale del nostro essere umani è tutta una questione di sedere.
Se riuscite a spiegarlo al vostro cane, che è tutta lì la ragione ultima per cui noi abbiamo addomesticato lui e non viceversa, forse vi morderà (indovinate dove).

Vi inviterei ad avviarvi alle prossime passeggiate primaverili, aggiungendo al piacere del camminare all'aria aperta, anche una sottile punta di orgoglio.

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