(...segue)
Ma se il gioco è a somma zero, come siamo andati avanti finora ? Da dove sono arrivati profitti e ricchezza fino adesso ?
Mi terrò lontano dalle questioni metafisiche poste dai meccanismi esoterici della finanza, attraverso i quali ciascuno può acquistare un debito di qualcun altro e farlo diventare una ricchezza e trarne guadagno, fino a dare al capitalismo finanziario un volume migliaia di volte superiore al capitalismo produttivo: una gigantesca bolla della quale è finora esploso soltanto qualche marginale foruncolo minore. So solo che quando arriveremo al dunque ci sarà da ridere.
Ma esiste un meccanismo molto evidente e palese attraverso il quale si può fare aumentare fittiziamente il potere d'acquisto collettivo, e quindi alimentare i profitti delle imprese: è il debito pubblico.
I debiti pubblici degli Stati SONO, in buona parte, i profitti d'impresa, attraverso due meccanismi fondamentali: il più ovvio è quello di spendere più di quando consentirebbero le entrate fiscali, permettendo alla vasta corte delle imprese appaltanti di vendere merci e servizi al di sopra delle possibilità del potere d'acquisto della collettività dei contribuenti; il secondo è finanziare la massa complessiva del potere d'acquisto attraverso gli stipendi dei dipendenti pubblici; ma attenzione: se i servizi da essi prodotti fossero pari al valore della loro retribuzione, il gioco tornerebbe ad essera a somma zero. Quindi E'NECESSARIO, ai fini del sostegno all'economia di mercato ed ai profitti d'impresa, che i dipendenti pubblici abbiano qualche soldo da spendere per acquistare merci, ma che il loro lavoro sia mantenuto scarsamente produttivo.
Se le Poste fossero efficienti, diminuirebbe lo spazio per i profitti dei corrieri privati.
Se i trasporti pubblici fossero effcienti, si venderebbero meno automobili.
Se il Servizio Sanitario Nazionale funzionasse a dovere, addio guadagni per lo sterminato esercito di parassiti e faccendieri che operano nel campo della sanità privata.
Se poi la scuola fosse in condizione di esercitare appieno la propria funzione, avremmo giovani generazioni esercitate all'uso del proprio senso critico, e questo sarebbe definitivamente intollerabile.
Ma non si può vivere a debito all'infinito, e ad un certo punto i nodi devono pur venire al pettine. Il debito pubblico deve necessariamente essere ridotto.
Tutti considerano questa operazione una virtuosa necessità, ma occorrerebbe pure sapere che con il debito pubblico si riduce una, forse la principale, fonte di profitto per l'insieme delle imprese.
E quindi, quale fantasmatica ripresa economica si può mai prospettare ?
Avendo vissuto finora nello spreco e nella dissipazione di risorse al di sopra delle possibilità del nostro habitat, andiamo incontro ad una necessaria recessione permanente, finchè non troveremo un nuovo punto di equilibrio ad un livello di consumi molto più basso dell'attuale.
Il compito della politica in questo frangente dovrebbe essere quello di attutire l'impatto sociale di tale recessione: redistribuire fra tutti il minor lavoro per i minori consumi, azzerare le diseguaglianze sociali con la redistribuzione della (poca) ricchezza prodotta: altro che liberismo e competitività.
Avremmo bisogno di un organismo internazionale per il controllo e la pianificazione dell'utilizzazione delle risorse, per indirizzare il loro uso solo verso le produzioni indispensabili senza sprechi: altro che libero mercato.
E invece tutti volgono sguardi inutilmente speranzosi nella direzione opposta. Si pretende di curare i mali del liberismo con ricette sempre più liberiste; con il risultato prevedibile di inasprire sempre di più i conflitti sociali.
Esempio: oggi tutti piangono al capezzale del moribondo mercato dell'automobile, un mezzo di trasporto individuale che produce, quando va molto ma molto bene, 150 grammi di anidride carbonica per kilometro percorso; ma contestualmente aumentano le vendite di biciclette. E perchè mai dovrebbe essere un male ? Non è forse l'automobile un prodotto ormai superato, concepito sull'onda del concetto ottocentesco del progresso inarrestabile di cui si diceva nella puntata precedente, senza tenere conto del costo in termini di risorse dissipate, come se le disponibilità del nostro pianeta fossero illimitate ?
Cosa ci sarebbe di strano nell'abbandonarlo ? Perchè mai dovremmo rilanciare questo genere di consumi ? Poniamoci la questione di redistribuire il lavoro, non di fabbricare qualsiasi cosa.
(Chissà se continua... potrebbe anche bastare così, per ora.)
lunedì 28 gennaio 2013
giovedì 24 gennaio 2013
Secondo intermezzo
"Col permesso di trasmettere
e il divieto di parlare
...
Com'è che non riesci più a volare ?"
(F. De Andrè - 1975)
Uno dei dogmi più fondamentali e universalmente professati della religione del Libero Mercato è che l'utente/consumatore trae vantaggio dalla libera concorrenza tra produttori/venditori, poichè questi ultimi saranno forzati dalla competizione ad offrire prodotti di maggiore qualità a minor prezzo.
La storia della televisione negli ultimi trent'anni è la dimostrazione più lampante che tale mistero della fede non funziona affatto.
La fine del monopolio e l'ascesa delle telvisioni private ha scatenato sì una competizione, ma solo per la valorizzazione degli spazi pubblicitari, non certo per la qualità del prodotto; vale solo l'essere visti, attirare l'attenzione, non quello che si dice.
La concorrenza per la ricerca del maggiore ascolto ha generalizzato la rincorsa alla produzione di programmi di facile impatto, popolati da macchiette appariscenti e rivolti ad un pubblico di minus habens (minus habentes, se il mio plurale maccheronico fosse, per puro gioco della sorte, indovinato), ed alla pressochè totale emarginazione di qualsiasi prodotto di valore intellettivo minimamente complesso.
L'affermazione delle telvisioni private, e lo scadimento di quella pubblica nella competizione per gli ascolti, è stato uno dei fattori fondamentali della profonda decadenza culturale innescatasi negli anni '80, della perdita di qualsiasi forma di senso critico, dalla scomparsa di ogni tendenza all'approfondimento, e quindi del generale impecorimento dell'opinione pubblica. Ed io un progetto politico funzionante fin dagli albori di questo processo, e poi realizzato, lo riconosco in pieno.
La libera concorrenza tra pubblico e privato, ben lungi dal migliorare la qualità dell'offerta, ha trasformato la televisione, dal potente mezzo di diffusione di istruzione e cultura delle origini (pur se solo parzialmente utilizzato, soprattutto nell'informazione, a causa del bigottissimo controllo censorio), al luogo degradato e degradante, nel quale la parrucca rossa ha più valore dell'argomentazione razionale, che oggi è (e nel quale il controllo censorio della politica permane comunque più forte che mai).
"La Televisiùn
la g'ha paura de nissùn
La Televisiùn
la g'ha 'na forsa de leùn
La Televisiùn
la te indurmenta 'me 'n cujun."
(E. Jannacci)
e il divieto di parlare
...
Com'è che non riesci più a volare ?"
(F. De Andrè - 1975)
Uno dei dogmi più fondamentali e universalmente professati della religione del Libero Mercato è che l'utente/consumatore trae vantaggio dalla libera concorrenza tra produttori/venditori, poichè questi ultimi saranno forzati dalla competizione ad offrire prodotti di maggiore qualità a minor prezzo.
La storia della televisione negli ultimi trent'anni è la dimostrazione più lampante che tale mistero della fede non funziona affatto.
La fine del monopolio e l'ascesa delle telvisioni private ha scatenato sì una competizione, ma solo per la valorizzazione degli spazi pubblicitari, non certo per la qualità del prodotto; vale solo l'essere visti, attirare l'attenzione, non quello che si dice.
La concorrenza per la ricerca del maggiore ascolto ha generalizzato la rincorsa alla produzione di programmi di facile impatto, popolati da macchiette appariscenti e rivolti ad un pubblico di minus habens (minus habentes, se il mio plurale maccheronico fosse, per puro gioco della sorte, indovinato), ed alla pressochè totale emarginazione di qualsiasi prodotto di valore intellettivo minimamente complesso.
L'affermazione delle telvisioni private, e lo scadimento di quella pubblica nella competizione per gli ascolti, è stato uno dei fattori fondamentali della profonda decadenza culturale innescatasi negli anni '80, della perdita di qualsiasi forma di senso critico, dalla scomparsa di ogni tendenza all'approfondimento, e quindi del generale impecorimento dell'opinione pubblica. Ed io un progetto politico funzionante fin dagli albori di questo processo, e poi realizzato, lo riconosco in pieno.
La libera concorrenza tra pubblico e privato, ben lungi dal migliorare la qualità dell'offerta, ha trasformato la televisione, dal potente mezzo di diffusione di istruzione e cultura delle origini (pur se solo parzialmente utilizzato, soprattutto nell'informazione, a causa del bigottissimo controllo censorio), al luogo degradato e degradante, nel quale la parrucca rossa ha più valore dell'argomentazione razionale, che oggi è (e nel quale il controllo censorio della politica permane comunque più forte che mai).
"La Televisiùn
la g'ha paura de nissùn
La Televisiùn
la g'ha 'na forsa de leùn
La Televisiùn
la te indurmenta 'me 'n cujun."
(E. Jannacci)
martedì 22 gennaio 2013
Breve riassunto del mondo - Terza parte
(...segue)
E noi quali discorsi sentiamo fare dalla politica ?
Nel bel mezzo, o più probabilmente soltanto all'inizio, di una crisi di cui ben pochi sembrano aver capito la reale portata, si favoleggia di chimeriche possibili riprese, intese come rilancio dei consumi, forse non quest'anno, forse non l'anno prossimo, ma quello dopo ancora...
Non solo un aumento dei consumi è esattamente il contrario di quello di cui abbiamo bisogno, noi come pianeta Terra; ma è anche un flebile ed illusorio auspicio di cui spero che si possa comprendere l'impossibilità fisica (direi termodinamica !).
La crisi attuale non è una di quelle fasi cicliche di recessione che gli economisti presumibilmente studiano sui loro manuali del secolo passato; è una crisi da saturazione, e quindi definitiva. L'economia di mercato non ha più margini per politiche espansive, per la semplice ragione che è finito il pianeta. Non ci sono più nuovi mercati a cui rivolgersi. Temo che gli economisti non riescano a capacitarsene perchè mai ci siamo trovati così vicini a tali limiti fisici: le dinamiche su cui sono abituati a ragionare non tengono conto della finitezza della Terra, e sono proiettate su possibilità espansive illimitate, come se fossimo ancora nell'epoca coloniale, con quasi tutto il mondo ancora da "scoprire" in termini di possibilità economiche. Sopravvive ancora, negli strumenti culturali che gli economisti adoperano, il mito del progresso continuo e ineluttabile degli albori vittoriani della civiltà industriale.
Le imprese del mondo producono merci e servizi sperando di venderli a qualcuno il cui potere di acquisto sia generato da qualcun altro. Ma se io ho il negozio di frutta e verdura, all'orticultore che mi vende i pomodori dovrei pagarglieli a sufficienza da permettergli di comprarsi le arance; che a loro volta avrò pagato all'altro mio fornitore, il frutticultore, abbastanza perchè possa comprarmi le melanzane. E' ridicolo ? Avrò pure tanti altri clienti ? Era ridicolo qualche tempo fa, appunto finchè non ho esaurito le possibilità di allargare la clientela. Ora che il liberismo consumista abbraccia nelle sue spire tutto il pianeta, i miei due fornitori sono il mondo: possiamo solo sperare di sottopagare minatori africani e quei pochi altri sfruttati sulla Terra che tengono in piedi il capitalismo mondiale, per avere materie prime a basso costo da rivendere a prezzi molto più alti come prodotti finiti che quegli sfruttati non potranno acquistare mai.
Se ho la fabbrica di scarpe, pagherò i miei dipendenti a sufficienza per potersene acquistare un paio, azzerando i miei profitti, o li retribuirò talmente poco da costringerli a girare scalzi, guadagnando molto di più su ogni paio venduto a qualcun altro ? E quando la mia fabbrica di scarpe rappresenta in scala tutta la produzione di merci mondiale come la mettiamo ?
Sono un grande e abile imprenditore. I miei dipendenti europei, maledetti sindacati, hanno stipendi troppo alti. Chiudo, e sposto la fabbrica in BanglaDesh dove posso retribuire gli operai quasi niente. Poi a chi spero di vendere i miei prodotti ? Ai bengalesi poveri o agli europei disoccupati ?
Tutta la massa di merci e servizi prodotta nel mondo richiede di essere assorbita da una pari massa di potere d'acquisto. Da dove mai potrebbe generarsi tale potere d'acquisto, se non dai proventi di chi lavora alla produzione di quegli stessi servizi e merci ?
E' un gioco a somma zero.
Può generare ancora profitti solo se cresce, se il gioco si espande in continuazione. Ma quando hai aggregato al gioco Russia ed Europa dell'Est, poi Cina e poi India e poi tutta l'Asia e poi il Sudamerica... non abbiamo più altro mondo dove andare. Saturazione. Finito. Raggiunto il limite fisico del sistema.
Perchè poi, come ulteriore fonte di ricchezza (nostra) bisogna anche preservare la preziosissima specie in via di estinzione degli sfruttati, quelli che forniscono materie prime a costo bassissimo per produrre oggetti di prezzo elevato, che non potranno mai possedere. Finchè erano la maggioranza degli abitanti della Terra, per noi occidentali erano rose e fiori, ma oggi, se vogliamo vendere sempre più merci in sempre più continenti, tocca retribuire adeguatamente anche i consumatori asiatici e sudamericani, e i margini per sfruttare qualcuno ci si riducono sempre di più. Giusto, ad esempio, i minatori di coltan nel Congo, che ci forniscono il tantalio indispensabile per tutte le mostre meraviglie elettroniche, compresa quella che avete ora davanti agli occhi, per un dollaro al giorno sì e no.
Ma se il gioco è a somma zero, come siamo andati avanti finora ? Da dove
sono arrivati profitti e ricchezza fino adesso ?
(continua...)
giovedì 17 gennaio 2013
Breve riassunto del mondo - Seconda parte
(...segue)
E dunque che facciamo ? Si direbbe nulla.
Dovremmo ridurre drasticamente quello che produciamo e quello che consumiamo, e quindi fare delle scelte: eliminare il superfluo, limitare l'uso dell'energia dando la priorità alla produzione dei beni essenziali: cibo, vestiario (inteso come ciò che serve a proteggersi dal freddo, non le fesserie inutili che ci riempiono i guardaroba di quelle - presunte - graziosità disfunzionali che costituiscono il maggior vanto del "Made in Italy"), conoscenza; investire quanto più possibile nella produzione di energia da fonti rinnovabili; salvaguardare senza compromessi le risorse: suolo, acqua, foreste, oceani, eccetera; poco altro.
Significa meno merci e meno lavoro, che va quindi opportunamente redistribuito; una vita con meno possesso di oggetti (o meno possessione da oggetti) e probabilmente più libertà intellettuale: più povera materialmente ma non necessariamente peggiore.
Siamo capaci di reinventare e ricostrure l'intero apparato economico, fondato sul profitto che a sua volta si fonda sullo spreco e sul superfluo ?
Occorrono decisioni politiche forti.
Vi segnalo questo recente articolino sul sito della rivista Nature, che vi racconta gli esiti di un'analisi teorica elaborata da un gruppo di ricercatori dell'Istituto Federale di Tecnologia di Zurigo.
I ricercatori hanno composto 500 possibili scenari ipotetici, giocando su quattro fondamentali fattori di incertezza nella possibilità di controllare l'aumento di temperatura:
- incertezza "politica" sul tempo necessario a raggiungere un'accordo globale sulla riduzione delle emissioni di gas-serra;
- incertezza "scientifica" sulla quantificazione dell'aumento di temperatura come effetto delle emissioni;
- incertezza "sociale" sull'andamento futuro della richiesta di energia;
- incertezza "tecnologica" sulla disponibilità di strumenti tecnici per ridurre le emissioni.
Da quel che ho potuto capire, l'équipe di ricercatori ha tenuto conto solo dei costi economici dei diversi scenari teorizzati in base a queste variabili; quindi non dovrebbe avere tenuto conto delle perdite ambientali irreversibili, dei conflitti politici, dei malesseri sociali, delle migrazioni, eccetera. Il calcolo dei costi da affrontare è stato puramente monetario (d'altra parte sono svizzeri, che vogliamo farci...).
Ebbene, il fattore che ha la maggiore influenza sulle possibilità di raggiungere un determinato obiettivo di limitazione del riscaldamento globale è il tempo che si impiega a raggiungere una decisione politica sulla riduzione delle emissioni.
In barba a quelli che sostengono che non è il caso che i governi prendano decisioni affrettate che possono fortemente influenzare il nostro tenore di vita, piuttosto che attendere di avere più approfondite sicurezze scientifiche, il modello di Rogelj e colleghi evidenzia che è proprio l'anticipo delle decisioni politiche il fattore più importante che permette di aumentare le probabilità di raggiungere gli obiettivi che ci si prefigge, e con costi inferiori.
Ad esempio, seguendo la stessa falsariga, Steve Hatfield-Dodds (Organizzazione Scientifica e di Ricerche Industriali del Commnwealth di Canberra, Australia) è partito dall'ultimo fallimentare vertice di Doha, dove 195 ignavi governi del mondo hanno vergognosamente rinviato al 2015 la fissazione degli obiettivi per la riduzione delle emissioni a partire dal 2020, per il superamento dell'ormai vecchio Protocollo di Kyoto, con la prospettiva di contenere in 2°C l'aumento di temperatura rispetto all'epoca pre-industriale (2°C vengono fatti corrispondere a "solo" il 50% di probabilità di avere conseguenze catastrofiche: quindi scegliamo di giocarci una catastrofe a testa o croce).
Secondo le stime di Hatfield-Dodds, se i termini fissati a Doha verranno infine rispettati, le probabilità di raggiungere lo scopo del "non oltre i 2°C" saranno del 56%, con un costo di 150 dollari per tonnellata di anidride carbonica in meno. Se si dovesse arrivare ad un ulteriore rinvio delle azioni al 2025, le probabilità di successo scenderebbero già al 34%.
Viceversa, se si anticipasse la limitazione delle emissioni al 2015, le probabilità di riuscire a non superare i 2°C di incremento aumenterebbero al 60%, con un costo, più che dimezzato, di 60 $ per tonnellata di anidride carbonica.
Ne segue, per quanto io sia profondamente convinto che una semplice sommatoria di comportamenti individuali possa determinare esiti decisivi in questo tipo di dinamiche generali, che il ruolo della politica nel destino del pianeta è decisivo e cruciale. Ridurre le emissioni di gas a effetto serra, e quindi il complesso dei nostri consumi è non solo necessario, ma anche orrendamente urgente. E noi quali discorsi sentiamo fare dalla politica ?
(continua...)
mercoledì 16 gennaio 2013
Intermezzo
"Poichè è difficile distinguere i profeti veri dai falsi, è bene avere in sospetto tutti i profeti; è meglio rinunciare alle verità rivelate, anche se ci esaltano per la loro semplicità e il loro splendore, anche se le troviamo comode perchè si acquistano gratis. E' meglio accontentarsi di altre verità più modeste e meno entusiasmanti, quelle che si conquistano faticosamente, a poco a poco e senza scorciatoie, con lo studio, la discussione e il ragionamento, e che possono essere verificate e dimostrate."
Primo Levi - Appendice a Se questo è un uomo, 1976.
Primo Levi - Appendice a Se questo è un uomo, 1976.
martedì 15 gennaio 2013
Breve riassunto del mondo - Prima parte
Credo che i dati complessivi e definitivi del 2012 non siano ancora disponibili, ma ho trovato, fonte il NOAA (National Oceanic and Atmospheric Administration) degli Stati Uniti, l'aggiornamento fino al mese di novembre delle temperature della superficie terrestre e degli oceani.
Nei grafici a barre, per semplicità di visualizzazione e per poter sovrapporre i valori delle terre e dei mari, che sono ovviamente diversi, lo zero rappresenta la media attuale delle temperature registrate dal 1880 ad oggi.
Possiamo quindi già dire che anche il 2012 è stato uno degli anni più caldi da quando si tengono le statistiche meteorologiche (ed il più caldo in assoluto negli Stati Uniti), e i dati storici mostrano una tendenza molto evidente all'aumento: guardando i grafici, la disposizione delle barre azzurre, sotto la media, e di quelle rosse, sopra la media, nel corso degli anni dovrebbe suggerire qualcosa anche ad un bambino delle elementari o a un elettore della Lega Nord.
Ormai nessuno scienziato serio dubita del fatto che l'aumento di concentrazione di anidride carbonica nell'atmosfera, dovuto alle attività umane, sia la forza-guida (con effetto a cascata su altri gas) dell'effetto serra che determina il riscaldamento del pianeta. Liberiamo anidride carbonica bruciando petrolio, metano, carbone per alimentare le nostre attività produttive, quindi i nostri consumi sono la causa primaria del riscaldamento e di tutte le sue conseguenze, prevedibilmente catastrofiche.
Credo che valga la pena presentarvi due delle obiezioni meno ponderate (ma ahimè frequenti) che mi sono sentito fare sull'argomento negli ultimi anni.
Obiezione della massaia acculturata: "Ma anche quando respiro produco anidride carbonica. Allora, secondo te, dovremmo non respirare più ?"
Vero: quando respiriamo, rilasciamo l'anidride carbonica derivante dall'ossidazione di zuccheri e grassi, che abbiamo mangiato il giorno prima, o la settimana prima, o il mese prima. Questi alimenti derivano, in ultima analisi, da fotosintesi che, in qualche pianta che abbiamo mangiato come tale, o che è servita ad alimentare la mucca o il maiale o il pollo, ha prodotto zuccheri catturando, grossomodo, quella stessa anidride carbonica dall'atmosfera. Si tratta di un riciclo a brevissimo termine, pochi mesi, o pochi anni, nel caso di alimenti molto stagionati o conservati; ma è sempre la stessa anidride carbonica in circolazione entro la nostra era geologica, a meno che non vogliate dubitare molto seriamente della freschezza di quel che vi vende il vostro salumiere.
Anche il petrolio deriva da fotosintesi clorofilliana che ha sequestrato e fissato anidride carbonica dall'atmosfera in piante (e animali che le hanno mangiate), poi finiti sepolti in fondo ai mari o comunque in condizioni di assenza di ossigeno, dove la cellulosa, gli altri zuccheri e i grassi, anzichè ossidarsi, si sono ridotti ad idrocarburi.
Quindi, in realtà, anche quando bruciamo petrolio, o metano, o carbone, reimmettiamo nell'atmosfera anidride carbonica che era stata precedentemente da lì prelevata. La differenza è che, in due secoli sì e no, abbiamo reimmesso in atmosfera anidride carbonica che era stata fissata dalla fotosintesi in un arco, diciamo a spanne, di 300 - 400 milioni di anni; tutta in una volta.
E' semplicemente una questione di scale temporali: la scala dei tempi non è irrilevante.
Obiezione del cattolico possessore di SUV: "Io penso che si tratti di un fenomeno naturale, dovuto magari all'attività del sole; sarà pure come dici tu, ma io ho bisogno di credere che sia così."
Direi che il notevole salto qualitativo dal "credo che sia così" al "ho bisogno di credere che sia così" renda l'affermazione del tutto equivalente a: "Non sapendo cosa farmene del mio cervello e della mia razionalità, li ho mandati al macero."
E dunque che facciamo ? Si direbbe nulla.
(continua...)
Nei grafici a barre, per semplicità di visualizzazione e per poter sovrapporre i valori delle terre e dei mari, che sono ovviamente diversi, lo zero rappresenta la media attuale delle temperature registrate dal 1880 ad oggi.
Possiamo quindi già dire che anche il 2012 è stato uno degli anni più caldi da quando si tengono le statistiche meteorologiche (ed il più caldo in assoluto negli Stati Uniti), e i dati storici mostrano una tendenza molto evidente all'aumento: guardando i grafici, la disposizione delle barre azzurre, sotto la media, e di quelle rosse, sopra la media, nel corso degli anni dovrebbe suggerire qualcosa anche ad un bambino delle elementari o a un elettore della Lega Nord.
Ormai nessuno scienziato serio dubita del fatto che l'aumento di concentrazione di anidride carbonica nell'atmosfera, dovuto alle attività umane, sia la forza-guida (con effetto a cascata su altri gas) dell'effetto serra che determina il riscaldamento del pianeta. Liberiamo anidride carbonica bruciando petrolio, metano, carbone per alimentare le nostre attività produttive, quindi i nostri consumi sono la causa primaria del riscaldamento e di tutte le sue conseguenze, prevedibilmente catastrofiche.
Credo che valga la pena presentarvi due delle obiezioni meno ponderate (ma ahimè frequenti) che mi sono sentito fare sull'argomento negli ultimi anni.
Obiezione della massaia acculturata: "Ma anche quando respiro produco anidride carbonica. Allora, secondo te, dovremmo non respirare più ?"
Vero: quando respiriamo, rilasciamo l'anidride carbonica derivante dall'ossidazione di zuccheri e grassi, che abbiamo mangiato il giorno prima, o la settimana prima, o il mese prima. Questi alimenti derivano, in ultima analisi, da fotosintesi che, in qualche pianta che abbiamo mangiato come tale, o che è servita ad alimentare la mucca o il maiale o il pollo, ha prodotto zuccheri catturando, grossomodo, quella stessa anidride carbonica dall'atmosfera. Si tratta di un riciclo a brevissimo termine, pochi mesi, o pochi anni, nel caso di alimenti molto stagionati o conservati; ma è sempre la stessa anidride carbonica in circolazione entro la nostra era geologica, a meno che non vogliate dubitare molto seriamente della freschezza di quel che vi vende il vostro salumiere.
Anche il petrolio deriva da fotosintesi clorofilliana che ha sequestrato e fissato anidride carbonica dall'atmosfera in piante (e animali che le hanno mangiate), poi finiti sepolti in fondo ai mari o comunque in condizioni di assenza di ossigeno, dove la cellulosa, gli altri zuccheri e i grassi, anzichè ossidarsi, si sono ridotti ad idrocarburi.
Quindi, in realtà, anche quando bruciamo petrolio, o metano, o carbone, reimmettiamo nell'atmosfera anidride carbonica che era stata precedentemente da lì prelevata. La differenza è che, in due secoli sì e no, abbiamo reimmesso in atmosfera anidride carbonica che era stata fissata dalla fotosintesi in un arco, diciamo a spanne, di 300 - 400 milioni di anni; tutta in una volta.
E' semplicemente una questione di scale temporali: la scala dei tempi non è irrilevante.
Obiezione del cattolico possessore di SUV: "Io penso che si tratti di un fenomeno naturale, dovuto magari all'attività del sole; sarà pure come dici tu, ma io ho bisogno di credere che sia così."
Direi che il notevole salto qualitativo dal "credo che sia così" al "ho bisogno di credere che sia così" renda l'affermazione del tutto equivalente a: "Non sapendo cosa farmene del mio cervello e della mia razionalità, li ho mandati al macero."
E dunque che facciamo ? Si direbbe nulla.
(continua...)
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