Vorrei far partire questo racconto finale da alcuni spunti che, per necessità di sintesi, sono stati tralasciati nel corso di questa lunga saga, che possono aiutare a meglio comprendere le implicazioni delle misurazioni delle intelligenze umane da parte dei campioni del determinismo che abbiamo incontrato nelle puntate precedenti, e che ci forniranno una traccia interpretativa per il seguito di questa particolare storia:
"Noi sappiamo che cos'è la debolezza mentale e ci è sorto il sospetto che tutte le persone che sono incapaci di adattarsi al proprio ambiente, che vengono meno alle convenzioni della società o al vivere civile, siano dei deboli mentali" H.H. Goddard, 1914.
"Non tutti i criminali sono deboli di mente, ma tutte le persone deboli di mente sono criminali potenziali. Che ogni donna debole di mente sia una prostituta potenziale, a malapena sarebbe messo in discussione da qualcuno. Il senso morale come quello degli affari o quello sociale o ogni processo di pensiero superiore di altro tipo è funzione dell'intelligenza. La moralità non può fiorire e fruttificare se l'intelligenza resta infantile." L.M. Terman, 1916.
L'intelligenza è un'entità talmente sfuggente ed indefinibile che può assumere le forme che ciascuno preferisce. Attribuirle un'identificazione con la condotta morale e con l'adesione alle convenzioni sociali ci appare oggi del tutto arbitrario ed insensato, ma forse, sotto sotto, lo spirito di quel tempo non è ancora del tutto estinto e probabilmente commetteremmo un errore a sottovalutare gli effetti deteriori che queste visioni conformiste ed omologatrici possono produrre ancora oggi. Si può ora farsi un'idea di dove in realtà l'applicazione del determinismo biologico alle scienze sociali andasse a parare, e di quanti abusi possano essere commessi all'interno di questa cornice concettuale.
Nel suo monumentale lavoro di misurazione delle intelligenze per conto dell'esercito, R.M. Yerkes andò incontro a qualche cocente delusione: mentre la generalità delle reclute si collocava appena sopra il limite del moron, con un'età mentale di 13 anni, tra gli obiettori di coscienza per ragioni politiche ben il 59 % otteneva il punteggio A, il più alto della scala, ed anche quelli completamente ribelli al Governo avevano un punteggio più alto della media. Ma Yerkes trovò comunque il modo di confortare i suoi pregiudizi, grazie alle compagnie più usuali che le truppe incontrano lungo la loro strada:
"I risultati dati dall'esame delle prostitute in base ai test dell'esercito confermano la conclusione, ottenuta con test civili somministrati a prostitute di varie parti del paese, che esse sono dal 30 al 60 per cento deficienti e per la maggior parte moron di grado superiore; e che dal 15 al 25 per cento tutte le prostitute sono mentalmente di grado così basso che è saggio (come del resto è possibile in base alle leggi di molti stati) segregarle permanentemente in istituti per deboli di mente." R.M. Yerkes, 1921.
Per godere appieno di questa affermazione dovreste fare lo sforzo di immaginare il personale dell'esercito che raduna le prostitute della zona, le fa accomodare in uno stanzone e le sottopone al test del Quoziente di Intelligenza (e magari figurarvi l'espressione delle signore...).
Il lavoro di Yerkes fu premessa per l'Immigration Restriction Act del 1924, e per una serie di leggi eugenetiche varate da diversi stati degli U.S.A. nel giro di pochi anni. La legge della Virginia per la sterilizzazione coatta dei portatori di tare ereditarie, o presunte tali, fu emanata nel 1924, e la prima persona condannata fu una diciottenne bianca di nome Carrie Buck, reclusa nella Colonia di Stato per Epilettici e Deboli di Mente. Il suo caso fu portato in ricorso alla Corte Suprema degli Stati Uniti nel 1927, e quello fu il banco di prova per la validità della legge. Il caso di Carrie Buck non avrebbe avuto nulla di particolare se non fosse stato per questa circostanza storica, a sua volta legata alla raggelante frase scritta dal Presidente della Corte Suprema Oliver Wendell Holmes, allora uno dei più celebri giuristi d'America, a conclusione del giudizio a difesa della legge della Virginia, che divenne una specie di manifesto del movimento eugenetista americano: "Tre generazioni di imbecilli bastano."
Sia Carrie Buck che sua madre Emma Buck, allora cinquantaduenne, erano state considerate frenasteniche, avendo totalizzato un'età mentale di nove e di poco meno di otto anni, rispettivamente, al test Stanford-Binet. La terza generazione di imbecilli, decisiva a far pendere la bilancia della giustizia verso la sterilizzazione, era costituita dalla figlia di sei mesi di Carrie, Vivian Buck, alla quale era stato diagnosticato un analogo deficit mentale da un'assistente sociale.
Nel 1980, il dottor K. Ray Nelson, divenuto direttore del Lynchburg Hospital dove Carrie era stata sterilizzata, scoprì che la legge del 1924 era stata applicata fino al 1972, con oltre 4000 sterilizzazioni forzate in Virginia. Carrie Buck era ancora viva ed il dottor Ray Nelson decise di andare a trovarla, seguito poi da altri studiosi e qualche giornalista, ed il caso ritornò alla luce.
Carrie Buck era allora un'anziana semplice e non molto socievole; leggeva i quotidiani e si trovava regolarmente sia con la sorella Doris che con una vicina più istruita che la aiutava a risolvere i cruciverba. La prima impressione di Ray Nelson fu confermata dagli psicologi che la esaminarono in età avanzata: non era nè ritardata, nè affetta da alcuna malattia mentale. Dunque che cosa ci faceva nel 1924 reclusa in un istituto per deboli di mente ?
Il fatto che in questa storia madri, figlie e nipoti abbiano tutte lo stesso cognome potrebbe avervi dato già qualche indizio. Carrie era una di diversi figli illegittimi di Emma Buck; fu allevata dalla famiglia Dodds, e visse con i genitori adottivi fino a diciassette anni, quando fu violentata da un parente dei Dodds. Dall'udienza che decise l'affidamento all'istituto non risulta nessuna diagnosi di deficit mentali, salvo i "si dice" della famiglia adottiva, che aveva richiesto di ricoverarla "in un istituto o da qualche parte", desiderosa solo di allontanare da casa la compromettente prominenza del suo ventre, e proteggere l'identità dello stupratore.
All'epoca del primo processo, presso la corte della Virginia, del 1924, la piccola Vivian Buck, la "terza generazione di imbecilli" aveva circa sei mesi, e la testimonianza dell'assistente sociale Miss Wilhelm: "E' difficile giudicare le possibilità di una bambina così piccola, ma mi sembra che essa non sia propriamente una bambina normale. Per l'aspetto. Devo dire che, forse, il fatto di conoscere la madre può influenzarmi sotto questo punto di vista, ma ho visto la bambina assieme alla bambina della figlia della signora Dodds, che ha tre giorni soltanto più di lei, e tra le due c'è una differenza molto marcata nello sviluppo. Ciò è accaduto circa due settimane fa. Vi è qualcosa nell'apparenza che non è perfettamente normale, ma che cosa sia esattamente non riesco a dire" è tutta quanta la prova a carico del ritardo mentale della bambina. Null'altro risulta dagli atti.
Vivian Buck morì per un'infezione intestinale a soli otto anni, e Paul Lombardo, che studiò il caso nel 1980, riuscì a recuperare le pagelle dei suoi brevi due anni di carriera scolastica. Tranne una D in matematica, le sue valutazioni oscillavano tra B e C in tutte le materie, con A in condotta. Non era una scolara brillante, tanto quanto i compagni di scuola che tutti noi abbiamo avuto che ottenevano voti appena sufficienti.
Nulla sappiamo di Emma Buck, ma a questo punto è facile dubitare che il suo presunto deficit mentale si identificasse solo con la sua condotta scarsamente morale.
"Tre generazioni di imbecilli bastano". E probabilmente in questa soria non c'è alcun imbecille, non uno. Due generazioni di figli nati fuori dal matrimonio bastano. Carrie Buck fu sterilizzata a vent'anni, e la sua famiglia fu considerata un pericolo per la salute mentale della nazione; ma probabilmente era il puritanesimo bigotto degli Stati Uniti ad essere minacciato, non certo la qualità intellettuale del Paese.
Ma non è ancora finita. Quando, nel 1980, il dottor Ray Nelson intervistò le protagoniste superstiti e ricostruì le vicende del processo presso la Corte Suprema, al "Tre generazioni di imbecilli bastano" del giudice Holmes, Doris Buck, la sorella di Carrie, scoppiò a piangere improvvisamente. D'un tratto, aveva capito perchè lei e suo marito non erano mai riusciti ad avere i bambini che avrebbero tanto desiderato; quella frase le diede conto di colpo della tristezza di tutta una vita. Si ricordò di quel giorno che, da ragazza, la portarono in ospedale dicendole che doveva essere operata di appendicite, e collegò tutto quanto.
"Tre generazioni di imbecilli bastano".
La sorella di Carrie Buck fu sterilizzata a sua insaputa.
domenica 19 dicembre 2010
mercoledì 15 dicembre 2010
Il Carnevale della Biodiversità
A conclusione del 2010, anno della biodiversità, segnalo ai lettori l'apposito Carnevale, che procederà a cadenza bimestrale per tutto il 2011. I migliori blog specialistici esporranno articoli a tema a partire da oggi. Per questo primo ciclo il blog ospitante è "L'orologiaio miope", che trovate tra i miei preferiti qui a destra. Ho iniziato a leggere i contributi e vi raccomando una visita: c'è da leggere e trovare spunti di riflessione a volontà. Buon divertimento.
martedì 14 dicembre 2010
Uso e abuso dei test Q.I. - parte 6 - Tempi moderni
Sir Cyril Burt finì i suoi giorni da sconfitto, riducendosi alla frode per sostenere le sue convinzioni; ma la sua idea che i bassi valori di Quoziente di Intelligenza fossero le stimmate attraverso cui riconoscere gli individui ineluttabilmente destinati agli strati più bassi della società aveva ormai segnato l'esistenza di un gran numero di persone: l'esame "eleven plus", che ogni studente sosteneva all'età di undici anni, era l'incarnazione dell'idea di un'intelligenza unilineare come una scala di valore su cui conficcare le persone una volta per sempre, e separava il 20 % di ragazzi che potevano avere accesso alle scuole classiche ed all'Università, dal restante 80 % considerato inadatto ad un'istruzione superiore e destinato alle scuole tecniche; rimase in vigore nelle scuole britanniche dal 1944 fino a metà degli anni '60, frustrando chissà quanti possibili talenti.
Inoltre la g, l'"intelligenza generale" di Spearman resuscitò ancora più volte: nel 1969, Arthur Jensen pubblicò negli Stati Uniti How Much Can We Boost I.Q. and Scholastic Achievement ? che suscitò scalpore poichè suonò come una dimostrazione definitiva della minore intelligenza innata dei neri, con 15 punti di scarto rispetto alla media dei bianchi (ricordarsi sempre di storicizzare per meglio comprendere il contesto nel quale certe affermazioni fanno presa sull'opinione pubblica: siamo in piena battaglia per i diritti civili, e Martin Luther King è stato assassinato da pochi mesi); nel suo lavoro la g risplendeva come il faro che illumina l'universo: addirittura potrebbe essere la misura di valore non solo degli umani, ma di tutti i viventi, ovviamente disposti in una scala lineare dal basso all'alto. Sentitelo qui:
"Le caratteristiche comuni dei test sperimentali sviluppati dagli psicologi comparati, che in gran parte distinguono chiaramente, diciamo, i polli dai cani, i cani dalle scimmie e le scimmie dagli scimpanzè, indicano che sono ordinabili grosso modo lungo una dimensione g (...) La g può esser vista come un concetto interspecie con una larga base biologica che culmina nei primati."
Su queste visioni caricaturali dell'evoluzione come una scala lineare di progresso ho già scritto in passato, e questo caso è tra i più imbarazzanti che abbia mai incontrato. Jensen raccolse tutti gli errori possibili che abbiamo incontrato ripetutamente in questa serie di sei storie di determinismo: la reificazione (in questo caso, galoppante) della g di Spearman da astrazione matematica a funzione mentale reale; la classificazione di entità complesse (le persone) lungo una scala lineare sulla base di un singolo valore numerico; l'errore di categoria di utilizzare i determinanti causali delle differenze entro gruppi per spiegare le differenze tra gruppi (l'ereditabilità dei valori di Q.I. entro gruppi per asserire basi genetiche alle differenze tra bianchi e neri); la confusione tra "ereditario" e "ineluttabile e non modificabile".
Ma non indovinate quali siano i dati più solidi sull'ereditabilità del Q.I. sui quali Jensen si basa ? Ancora una volta, gli studi fasulli sui gemelli identici di Burt: la frode verrà scoperta solo qualche anno più tardi.
Trovate qui una replica alle critiche di Gould nella quale Jensen, a mio avviso, si dà la zappa sui piedi più di una volta.
Nel 1994 la g resuscitò ancora, quando Richard Herrnstein e Charles Murray pubblicarono, tra grandi fanfare, The Bell Curve; nonostante la pervasiva pubblicità che lo ha accompagnato, anche questo testo non presentava alcuna tesi nuova rispetto a quanto già visto, rivestendo i vecchi pregiudizi in una cornice statistica più moderna, utilizzata però con evidente malafede: si nasconde la debolezza delle correlazioni, si tacciono dati contrari perfettamente noti e disponibili, e così via. The Bell Curve ebbe pen poco valore accademico, e fu nient'altro che la perorazione di una causa: le inuguaglianze sociali sono giustificate dall'accumularsi negli strati più bassi della società degli individui intellettualmente meno dotati, che trasmettono i loro geni scadenti alla propria discendenza; e i neri sono gravati di quei fatidici ed ineluttabili 15 punti in meno, in media, di Q.I. rispetto ai bianchi che rendono vana qualsiasi speranza di riscatto sociale. E' quindi inutile che la collettività si impegni in programmi educativi di massa e che investa risorse in welfare, poichè le disuguaglianze sociali sono irreversibili. Ma perchè questa tesi sia sostenibile, è ancora una volta necessario che si verifichino le quattro premesse fondamentali che abbiamo sempre incontrato fin dall'inizio di questo lungo discorso: - che l'intelligenza sia governata da un qualche fattore singolo ed unitario; - che sia misurabile e classificabile; - che sia ereditaria e determinata geneticamente; - che sia immodificabile. Se una sola di queste premesse fosse falsa, tutto l'edificio crollerebbe. Herrnstein e Murray non difesero nè discussero mai alcuna di queste basi cruciali del proprio lavoro; le diedero semplicemente per acquisite. L'unico punto sul quale si spesero fu la dimostrazione che i risultati dei test Q.I. non erano soggetti a distorsioni statistiche, per cui se la media del Q.I. dei neri era 85, e la media dei bianchi 100, la differenza poteva considerarsi attendibile e non soggetta a distorsioni sitematiche. Ma se da un secolo fior di psicometristi si dedicano a questa tecnica di misurazione, sarei ben meravigliato se si portassero dietro ancora dei difetti di metodo tali da distorcere i risultati ! Quello che The Bell Curve rifiutò di discutere è: se i neri ottengono, in media, un punteggio 85 ed i bianchi 100, è perchè i neri vivono, in media, in condizioni sociali peggiori rispetto ai bianchi ? E' questa la distorsione che ci interessa, mica i difetti statistici della misura.
Ed infine, l'esemplare dal quale, mesi fa, era partito lo spunto per tutta questa lunga revisione dell'argomento: il professor Richard Lynn, dell'Università di Dublino, che recentemente ha suscitato un pò di trambusto anche in Italia, affermando che i meridionali sono meno intelligenti degli italiani del Nord (touchè). Per lui classificare popoli e nazioni in base ai valori di Q.I. è una vera passione. Nel suo libro più famoso, IQ and the Wealth of Nations (2002), fa discendere ogni differenza di ricchezza o povertà, arretratezza o progresso, dai valori medi di Quoziente di Intelligenza nazione per nazione. Vale la pena solo di fare un paio di osservazioni metodologiche: Lynn classifica in base al loro Q.I. medio 185 Paesi; i dati realmente disponibili erano 81. Per le altre 104 nazioni, il valore viene o estrapolato per altre vie, o ottenuto come media tra i paesi confinanti (per alcuni dei quali, si deve presumere, a sua volta il dato sarà stato ottenuto nello stesso modo).
Prima osservazione: se qui, invece che di Quoziente di Intelligenza, si parlasse di produttività delle vacche da latte, nessuna rivista di zootecnia avrebbe mai accettato di pubblicare dati ottenuti in questa maniera.
Seconda osservazione: il metodo con cui i dati mancanti sono ottenuti, presuppone che ci sia una relazione tra gruppi etnici, o comunque geograficamente vicini, e loro valori di Q.I., che è la tesi che si vorrebbe dimostrare; la circolarità della dimostrazione non interviene, come spesso capita, nell'interpretazione dei risultati, ma addirittura nella loro produzione, nel senso più etimologicamente stretto di "pre-giudizio".
Ma questi sterili esercizi di classificazione dell'umanità per gruppi di valore, di tanto in tanto porta almeno qualche nota positiva.
Ad esempio, per i "fatidici 15 punti di Q.I."; si finisce per scoprire che i 15 punti di differenza media, in realtà ricorrono abbastanza spesso.
Di 15 punti è aumentato il Q.I. medio in alcune nazioni nei 40 anni successivi alla fine della seconda guerra mondiale, in parallelo al miglioramento delle condizioni generali di struttura sociale ed istruzione; e 15 punti è la differenza di Q.I. medio tra cattolici e protestanti nell'Irlanda del Nord, a favore dei protestanti (1). I nordirlandesi cattolici e protestanti non sono due gruppi etnici diversi: a meno che non si voglia sostenere che la setta religiosa sia determinata geneticamente, non sarà il caso di riconoscere che i 15 punti di Q.I. siano un retaggio più o meno standardizzato che caratterizza i gruppi socialmente svantaggiati ?
(1): Jacoby R. e Glauberman N.: The Bell Curve Debate. Times Books, New York, 1995.
Inoltre la g, l'"intelligenza generale" di Spearman resuscitò ancora più volte: nel 1969, Arthur Jensen pubblicò negli Stati Uniti How Much Can We Boost I.Q. and Scholastic Achievement ? che suscitò scalpore poichè suonò come una dimostrazione definitiva della minore intelligenza innata dei neri, con 15 punti di scarto rispetto alla media dei bianchi (ricordarsi sempre di storicizzare per meglio comprendere il contesto nel quale certe affermazioni fanno presa sull'opinione pubblica: siamo in piena battaglia per i diritti civili, e Martin Luther King è stato assassinato da pochi mesi); nel suo lavoro la g risplendeva come il faro che illumina l'universo: addirittura potrebbe essere la misura di valore non solo degli umani, ma di tutti i viventi, ovviamente disposti in una scala lineare dal basso all'alto. Sentitelo qui:
"Le caratteristiche comuni dei test sperimentali sviluppati dagli psicologi comparati, che in gran parte distinguono chiaramente, diciamo, i polli dai cani, i cani dalle scimmie e le scimmie dagli scimpanzè, indicano che sono ordinabili grosso modo lungo una dimensione g (...) La g può esser vista come un concetto interspecie con una larga base biologica che culmina nei primati."
Su queste visioni caricaturali dell'evoluzione come una scala lineare di progresso ho già scritto in passato, e questo caso è tra i più imbarazzanti che abbia mai incontrato. Jensen raccolse tutti gli errori possibili che abbiamo incontrato ripetutamente in questa serie di sei storie di determinismo: la reificazione (in questo caso, galoppante) della g di Spearman da astrazione matematica a funzione mentale reale; la classificazione di entità complesse (le persone) lungo una scala lineare sulla base di un singolo valore numerico; l'errore di categoria di utilizzare i determinanti causali delle differenze entro gruppi per spiegare le differenze tra gruppi (l'ereditabilità dei valori di Q.I. entro gruppi per asserire basi genetiche alle differenze tra bianchi e neri); la confusione tra "ereditario" e "ineluttabile e non modificabile".
Ma non indovinate quali siano i dati più solidi sull'ereditabilità del Q.I. sui quali Jensen si basa ? Ancora una volta, gli studi fasulli sui gemelli identici di Burt: la frode verrà scoperta solo qualche anno più tardi.
Trovate qui una replica alle critiche di Gould nella quale Jensen, a mio avviso, si dà la zappa sui piedi più di una volta.
Nel 1994 la g resuscitò ancora, quando Richard Herrnstein e Charles Murray pubblicarono, tra grandi fanfare, The Bell Curve; nonostante la pervasiva pubblicità che lo ha accompagnato, anche questo testo non presentava alcuna tesi nuova rispetto a quanto già visto, rivestendo i vecchi pregiudizi in una cornice statistica più moderna, utilizzata però con evidente malafede: si nasconde la debolezza delle correlazioni, si tacciono dati contrari perfettamente noti e disponibili, e così via. The Bell Curve ebbe pen poco valore accademico, e fu nient'altro che la perorazione di una causa: le inuguaglianze sociali sono giustificate dall'accumularsi negli strati più bassi della società degli individui intellettualmente meno dotati, che trasmettono i loro geni scadenti alla propria discendenza; e i neri sono gravati di quei fatidici ed ineluttabili 15 punti in meno, in media, di Q.I. rispetto ai bianchi che rendono vana qualsiasi speranza di riscatto sociale. E' quindi inutile che la collettività si impegni in programmi educativi di massa e che investa risorse in welfare, poichè le disuguaglianze sociali sono irreversibili. Ma perchè questa tesi sia sostenibile, è ancora una volta necessario che si verifichino le quattro premesse fondamentali che abbiamo sempre incontrato fin dall'inizio di questo lungo discorso: - che l'intelligenza sia governata da un qualche fattore singolo ed unitario; - che sia misurabile e classificabile; - che sia ereditaria e determinata geneticamente; - che sia immodificabile. Se una sola di queste premesse fosse falsa, tutto l'edificio crollerebbe. Herrnstein e Murray non difesero nè discussero mai alcuna di queste basi cruciali del proprio lavoro; le diedero semplicemente per acquisite. L'unico punto sul quale si spesero fu la dimostrazione che i risultati dei test Q.I. non erano soggetti a distorsioni statistiche, per cui se la media del Q.I. dei neri era 85, e la media dei bianchi 100, la differenza poteva considerarsi attendibile e non soggetta a distorsioni sitematiche. Ma se da un secolo fior di psicometristi si dedicano a questa tecnica di misurazione, sarei ben meravigliato se si portassero dietro ancora dei difetti di metodo tali da distorcere i risultati ! Quello che The Bell Curve rifiutò di discutere è: se i neri ottengono, in media, un punteggio 85 ed i bianchi 100, è perchè i neri vivono, in media, in condizioni sociali peggiori rispetto ai bianchi ? E' questa la distorsione che ci interessa, mica i difetti statistici della misura.
Ed infine, l'esemplare dal quale, mesi fa, era partito lo spunto per tutta questa lunga revisione dell'argomento: il professor Richard Lynn, dell'Università di Dublino, che recentemente ha suscitato un pò di trambusto anche in Italia, affermando che i meridionali sono meno intelligenti degli italiani del Nord (touchè). Per lui classificare popoli e nazioni in base ai valori di Q.I. è una vera passione. Nel suo libro più famoso, IQ and the Wealth of Nations (2002), fa discendere ogni differenza di ricchezza o povertà, arretratezza o progresso, dai valori medi di Quoziente di Intelligenza nazione per nazione. Vale la pena solo di fare un paio di osservazioni metodologiche: Lynn classifica in base al loro Q.I. medio 185 Paesi; i dati realmente disponibili erano 81. Per le altre 104 nazioni, il valore viene o estrapolato per altre vie, o ottenuto come media tra i paesi confinanti (per alcuni dei quali, si deve presumere, a sua volta il dato sarà stato ottenuto nello stesso modo).
Prima osservazione: se qui, invece che di Quoziente di Intelligenza, si parlasse di produttività delle vacche da latte, nessuna rivista di zootecnia avrebbe mai accettato di pubblicare dati ottenuti in questa maniera.
Seconda osservazione: il metodo con cui i dati mancanti sono ottenuti, presuppone che ci sia una relazione tra gruppi etnici, o comunque geograficamente vicini, e loro valori di Q.I., che è la tesi che si vorrebbe dimostrare; la circolarità della dimostrazione non interviene, come spesso capita, nell'interpretazione dei risultati, ma addirittura nella loro produzione, nel senso più etimologicamente stretto di "pre-giudizio".
Ma questi sterili esercizi di classificazione dell'umanità per gruppi di valore, di tanto in tanto porta almeno qualche nota positiva.
Ad esempio, per i "fatidici 15 punti di Q.I."; si finisce per scoprire che i 15 punti di differenza media, in realtà ricorrono abbastanza spesso.
Di 15 punti è aumentato il Q.I. medio in alcune nazioni nei 40 anni successivi alla fine della seconda guerra mondiale, in parallelo al miglioramento delle condizioni generali di struttura sociale ed istruzione; e 15 punti è la differenza di Q.I. medio tra cattolici e protestanti nell'Irlanda del Nord, a favore dei protestanti (1). I nordirlandesi cattolici e protestanti non sono due gruppi etnici diversi: a meno che non si voglia sostenere che la setta religiosa sia determinata geneticamente, non sarà il caso di riconoscere che i 15 punti di Q.I. siano un retaggio più o meno standardizzato che caratterizza i gruppi socialmente svantaggiati ?
(1): Jacoby R. e Glauberman N.: The Bell Curve Debate. Times Books, New York, 1995.
martedì 23 novembre 2010
Uso e abuso dei test Q.I. - parte 5 - Delle Cose Irreali
I motivi per cui questa quinta puntata arriva ben due mesi dopo la pubblicazione della quarta sono vari e molteplici, e per la maggior parte personali; però almeno una di tali ragioni è, invece, intrinseca all'argomento trattato: avrei voluto riassumere i tratti caratterizzanti del determinismo biologico applicato allo studio dell'intelligenza, propri dell'epoca che inizia grossomodo con gli anni '30, e le nuove forme concettuali che sarebbero emerse in particolare con gli impetuosi sviluppi della genetica e della statistica in quegli anni. Ho letto e riletto, ed ebbene: non sono riuscito a trovare nulla. Nessuna nuova elaborazione concettuale, nessuna particolare innovazione teorica... si è sempre continuato a ripetere gli stessi errori commessi ad inizio secolo da Goddard e sodali, "perfezionandoli" alla luce delle nuove conoscenze genetiche, e trattandoli con tecniche statistiche più raffinate. Ma i concetti e gli errori logici sottostanti non si modificano mai.
In Intelligenza e pregiudizio, S. J. Gould fa iniziare questa fase storica con l'invenzione della tecnica statistica dell'analisi fattoriale, la quale permette di riassumere in poche componenti principali delle matrici molto vaste di correlazioni tra misure diverse. Charles Spearman, psicologo e statistico londinese, mise a punto questa tecnica appositamente per lo studio dei reattivi mentali. Trovò che tutti i test (ad es. spaziali, verbali, numerici, ecc.) hanno una certa correlazione positiva (cioè che chi riesce bene in un tipo di test tende, in generale, ad ottenere buoni risultati anche in altri). L'asse su cui si proiettano tutte le correlazioni positive (cerco di scivolare nel modo più sintetico possibile sulla trattazione matematica) è la prima componente principale, che Spearman chiamò g, o intelligenza generale. Ritenne così di avere individuato la vera e reale misura dell'intelligenza, una sorta di "energia", misurabile e graduabile, che alimentava tutte le attività mentali, e dava finalmente una base teorica al Quoziente di Intelligenza, una misurazione fino ad allora guidata solo da cieco empirismo: i test Q.I. sono validi in quanto misurano g, la nuova pietra filosofale della psicologia. Non mi dilungherò nei dettagli tecnici, e vi dirò solo che uno psicologo statunitense, L. L. Thurstone, a partire dal 1935, rase al suolo la g di Spearman semplicemente distribuendo le stesse matrici di correlazioni in gruppi il più possibile omogenei, su più assi diversi equivalenti fra loro, rappresentanti, nel nostro esempio, le distinte capacità spaziali, verbali, numeriche, ecc. La modifica statistica introdotta da Thurstone spiegava esattamente la stessa quantità di informazione, con l'effetto sorprendente che la prima componente principale, la preziosissima ed "oggettiva" g di Spearman, la misura della "vera" intelligenza, semplicemente... spariva.
Il motto che guida la preziosa attività degli statistici, al cui lavoro tutti dobbiamo riconoscenza, è che se qualcosa esiste, deve essere in qualche modo misurabile. Bisogna solo stare attenti a non farsi prendere la mano e far valere arbitrariamente la proprietà transitiva: quello che produce un valore statistico, non necessariamente è un'entità reale. Il dibattito tra Thurstone e Spearman fu infuocato, ma riassumibile, in estrema sintesi, nella reciproca accusa di avere preso per una concreta proprietà della nostra mente ciò che era soltanto un'astrazione matematica. Entrambe le accuse ebbero facilmente il sopravvento sulle difese.
Per quanto viziata dell'errore di reificazione (il trattare un concetto astratto come un'entità concreta) in modo del tutto analogo a quella di Spearman, l'interpretazione di Thurstone potrebbe considerarsi oggi premiata da una rivincita postuma, con la concezione delle intelligenze multiple di Gardner attualmente in voga.
Ma la g di Spearman imperversò a lungo, ed in quanto singola, innata, e classificabile, fornì un comodo strumento per la misurazione delle persone con un singolo numero, e la loro disposizione lungo una scala unitaria di valore.
Spearman era convinto che l'intelligenza fosse ereditaria, senza alcuna dimostrazione, ma per il solo fatto che fosse variabile tra gli individui (esattamente come Goddard); condivideva le concezioni razziste convenzionali dell'epoca (tuttavia sottolineò che le variazioni individuali di intelligenza entro le razze sovrastavano largamente le piccole differenze medie tra razze), e fu un sostenitore dell'Immigration Restriction Act americano del 1924 (vedi parte 4); tuttavia, nell'infuriare delle contese sulle implicazioni sociali e politiche delle sue pubblicazioni, si tenne tutto sommato in disparte; rimaneva uno psicologo, ed il suo interesse primario era la comprensione dei meccanismi dell'intelligenza.
Il suo più fedele allievo, e suo successore, nel 1932, alla cattedra di psicologia dello University College di Londra, Sir Cyril Burt, fu invece sempre ossessionato dall'idea dell'innatismo, che rimase il suo chiodo fisso dalla sua prima pubblicazione (1909) fino alla morte (1971). Inizialmente, adottò l'idea di un'intelligenza unitaria, innata ed ereditabile (così come l'aveva... ereditata dal suo maestro Spearman), semplicemente come puro e semplice dogma immune da discussioni; poi la difese con un fervore sempre più concitato, e sempre più frustrato dalla mancanza di dati certi a supporto. Per far capire cosa intendo, basti sapere che tentò di organizzare esperimenti su campioni di ragazzi, nel primo dei quali confrontò un gruppo di figli di piccoli commercianti di una scuola elementare con i ragazzi di classi agiate di una scuola di prestigio. Ne ricavò la dimostrazione che i rampolli di buona famiglia erano più intelligenti di quelli della classe media. A parte il campione pateticamente piccolo (43 ragazzi in tutto), la sua "dimostrazione" che tale differenza era ereditaria e non dovuta alle condizioni ambientali si ridusse: 1) ad una serie di argomentazioni, speciose fino al ridicolo, sul fatto che le condizioni ambientali in cui i ragazzi avevano vissuto non avrebbero dovuto influire troppo sui risultati del test; 2) al fatto che l'intelligenza dei ragazzi si correlava con quella dei genitori. E questo potrebbe essere un'argomento già interessante, se non fosse che l'intelligenza dei genitori... non fu mai misurata: Burt la stimò in base alla loro professione e reddito. La circolarità dell'argomento è perfino sorprendente per la sua sciatteria: si intende dimostrare che l'intelligenza è ereditaria e non dipende dalle condizioni socioculturali, e per far questo si usano le condizioni socioculturali come misura dell'intelligenza.
Nel prosieguo della sua carriera, l'esperienza non lo aiutò affatto ad eliminare i pregiudizi dalle sue conclusioni. Nel 1937, pubblicò un'accurata statistica sui ragazzi che avevano perso anni a scuola (che considerò come misura indiretta di -scarsa- intelligenza). Nei vari sobborghi di Londra, trovò correlazioni fortissime tra la percentuale dei ragazzi in ritardo scolastico e fattori quali: numero di famiglie sotto il livello di povertà; sovraffollamento; disoccupazione; mortalità giovanile. Le influenze ambientali dovrebbero risultare evidenti, ma la conclusione a cui Burt giunse fu bizzarra: i gruppi sociali meno intelligenti creano i sobborghi peggiori, e bambini poveri sono ottusi perchè figli di genitori rimasti poveri perchè ottusi.
E qui ci sono da fare un paio di osservazioni interessanti. La prima: Cyril Burt era uno scienziato famoso e rispettato, e in altri campi realizzò lavori pregevoli; quando trattava di intelligenza ed ereditarietà gli scendevano i paraocchi e le sue conclusioni erano di una inaccuratezza indisponente. Eppure pochi dei suoi contemporanei lo attaccarono e lo criticarono, nonostante gli errori logici fossero del tutto evidenti. Questo ci insegna qualcosa su come la società reagisce quando l'errore è utile a dare una patina di oggettività ad un dogma comunemente condiviso ?
La seconda: Burt non si interessò mai troppo delle differenze di intelligenza fra razze, che considerò sempre trascurabili; la sua vera missione fu quella di dimostrare che le stratificazioni sociali erano giustificate in base a differenze biologiche innate.
Negli Stati Uniti le torie ereditarie dell'intelligenza fecero da supporto alla suddivisione della società in gruppi razziali, ed alla discriminazione degli immigranti; in Inghilterra, nel cuore capitalista di un'Europa turbata dalla Rivoluzione d'Ottobre, Burt utilizza lo stesso strumento per giustificare la disuguaglianza tra le classi sociali: sarà un caso ?
E l'ereditarietà dell'intellgenza deve servire a giustificare la ridotta mobilità sociale; i figli dei ricchi saranno ricchi perchè più intelligenti dei poveri.
Ma ormai Burt si era reso conto benissimo dell'irrisolvibilità della combinazione di eredità biologica ed eredità culturale, per cui qualsiasi forte correlazione tra i valori di Q.I. di genitori e figli poteva sostenere in modo identico le due interpretazioni più estreme: fattori esclusivamente ambientali o fattori esclusivamente genetici, oltre ovviamente a tutta la infinita gamma intermedia.
Un solo caso potrebbe permettere una risoluzione tra cause genetiche ed ambientali: gemelli monozigotici, cioè geneticamente identici, separati poco dopo la nascita ed allevati in ambienti diversi. Il problema, ovvio, è la scarsità dei casi. Esistono pochi studi pubblicati: uno su soltanto 12 coppie di gemelli, uno su 19, un altro, di Shields, contempla ben 44 coppie di gemelli, ed è l'unico a fornire dettagli sulla vita di queste persone: sono di solito allevati da parenti stretti, o da amici, o da vicini di casa; si conoscono e si frequentano, in alcuni casi abitano nella stessa via. E' difficile dire che si tratti di gemelli "separati", e che vivano in ambienti realmente diversi.
Cyril Burt stupì il mondo pubblicando una serie di studi su ben 53 coppie di gemelli separati in tenera età, che confermavano pienamente l'erditabilità del quoziente di intelligenza. Anche lontani, i gemelli di Burt avevano Q.I. sempre molto simili. Burt non pubblicò i dettagli sulle loro vite; anzi, nessuno ha mai visto i dati grezzi originali, andati distrutti in un piccolo incendio in laboratorio. L'unica fonte primaria delle pubblicazioni erano carte con dati già parzialmente elaborati, che Burt conservò gelosamente nel cassetto fino alla sua morte.
Quando Burt morì, nel 1971, e le sue carte vennero esaminate, emerse la più clamorosa frode scientifica della storia: le 53 coppie di gemelli erano inventate, i loro Q.I. erano inventati, le loro perfette correlazioni predisposte a tavolino, ed erano inventati anche i collaboratori che avevano raccolto i dati in giro per il mondo.
Il prestigioso e stimato Sir Cyril Burt, sconfitto e frustrato, aveva spinto la sua disperata difesa dell'ereditabilità dell'intelligenza oltre il lecito.
In Intelligenza e pregiudizio, S. J. Gould fa iniziare questa fase storica con l'invenzione della tecnica statistica dell'analisi fattoriale, la quale permette di riassumere in poche componenti principali delle matrici molto vaste di correlazioni tra misure diverse. Charles Spearman, psicologo e statistico londinese, mise a punto questa tecnica appositamente per lo studio dei reattivi mentali. Trovò che tutti i test (ad es. spaziali, verbali, numerici, ecc.) hanno una certa correlazione positiva (cioè che chi riesce bene in un tipo di test tende, in generale, ad ottenere buoni risultati anche in altri). L'asse su cui si proiettano tutte le correlazioni positive (cerco di scivolare nel modo più sintetico possibile sulla trattazione matematica) è la prima componente principale, che Spearman chiamò g, o intelligenza generale. Ritenne così di avere individuato la vera e reale misura dell'intelligenza, una sorta di "energia", misurabile e graduabile, che alimentava tutte le attività mentali, e dava finalmente una base teorica al Quoziente di Intelligenza, una misurazione fino ad allora guidata solo da cieco empirismo: i test Q.I. sono validi in quanto misurano g, la nuova pietra filosofale della psicologia. Non mi dilungherò nei dettagli tecnici, e vi dirò solo che uno psicologo statunitense, L. L. Thurstone, a partire dal 1935, rase al suolo la g di Spearman semplicemente distribuendo le stesse matrici di correlazioni in gruppi il più possibile omogenei, su più assi diversi equivalenti fra loro, rappresentanti, nel nostro esempio, le distinte capacità spaziali, verbali, numeriche, ecc. La modifica statistica introdotta da Thurstone spiegava esattamente la stessa quantità di informazione, con l'effetto sorprendente che la prima componente principale, la preziosissima ed "oggettiva" g di Spearman, la misura della "vera" intelligenza, semplicemente... spariva.
Il motto che guida la preziosa attività degli statistici, al cui lavoro tutti dobbiamo riconoscenza, è che se qualcosa esiste, deve essere in qualche modo misurabile. Bisogna solo stare attenti a non farsi prendere la mano e far valere arbitrariamente la proprietà transitiva: quello che produce un valore statistico, non necessariamente è un'entità reale. Il dibattito tra Thurstone e Spearman fu infuocato, ma riassumibile, in estrema sintesi, nella reciproca accusa di avere preso per una concreta proprietà della nostra mente ciò che era soltanto un'astrazione matematica. Entrambe le accuse ebbero facilmente il sopravvento sulle difese.
Per quanto viziata dell'errore di reificazione (il trattare un concetto astratto come un'entità concreta) in modo del tutto analogo a quella di Spearman, l'interpretazione di Thurstone potrebbe considerarsi oggi premiata da una rivincita postuma, con la concezione delle intelligenze multiple di Gardner attualmente in voga.
Ma la g di Spearman imperversò a lungo, ed in quanto singola, innata, e classificabile, fornì un comodo strumento per la misurazione delle persone con un singolo numero, e la loro disposizione lungo una scala unitaria di valore.
Spearman era convinto che l'intelligenza fosse ereditaria, senza alcuna dimostrazione, ma per il solo fatto che fosse variabile tra gli individui (esattamente come Goddard); condivideva le concezioni razziste convenzionali dell'epoca (tuttavia sottolineò che le variazioni individuali di intelligenza entro le razze sovrastavano largamente le piccole differenze medie tra razze), e fu un sostenitore dell'Immigration Restriction Act americano del 1924 (vedi parte 4); tuttavia, nell'infuriare delle contese sulle implicazioni sociali e politiche delle sue pubblicazioni, si tenne tutto sommato in disparte; rimaneva uno psicologo, ed il suo interesse primario era la comprensione dei meccanismi dell'intelligenza.
Il suo più fedele allievo, e suo successore, nel 1932, alla cattedra di psicologia dello University College di Londra, Sir Cyril Burt, fu invece sempre ossessionato dall'idea dell'innatismo, che rimase il suo chiodo fisso dalla sua prima pubblicazione (1909) fino alla morte (1971). Inizialmente, adottò l'idea di un'intelligenza unitaria, innata ed ereditabile (così come l'aveva... ereditata dal suo maestro Spearman), semplicemente come puro e semplice dogma immune da discussioni; poi la difese con un fervore sempre più concitato, e sempre più frustrato dalla mancanza di dati certi a supporto. Per far capire cosa intendo, basti sapere che tentò di organizzare esperimenti su campioni di ragazzi, nel primo dei quali confrontò un gruppo di figli di piccoli commercianti di una scuola elementare con i ragazzi di classi agiate di una scuola di prestigio. Ne ricavò la dimostrazione che i rampolli di buona famiglia erano più intelligenti di quelli della classe media. A parte il campione pateticamente piccolo (43 ragazzi in tutto), la sua "dimostrazione" che tale differenza era ereditaria e non dovuta alle condizioni ambientali si ridusse: 1) ad una serie di argomentazioni, speciose fino al ridicolo, sul fatto che le condizioni ambientali in cui i ragazzi avevano vissuto non avrebbero dovuto influire troppo sui risultati del test; 2) al fatto che l'intelligenza dei ragazzi si correlava con quella dei genitori. E questo potrebbe essere un'argomento già interessante, se non fosse che l'intelligenza dei genitori... non fu mai misurata: Burt la stimò in base alla loro professione e reddito. La circolarità dell'argomento è perfino sorprendente per la sua sciatteria: si intende dimostrare che l'intelligenza è ereditaria e non dipende dalle condizioni socioculturali, e per far questo si usano le condizioni socioculturali come misura dell'intelligenza.
Nel prosieguo della sua carriera, l'esperienza non lo aiutò affatto ad eliminare i pregiudizi dalle sue conclusioni. Nel 1937, pubblicò un'accurata statistica sui ragazzi che avevano perso anni a scuola (che considerò come misura indiretta di -scarsa- intelligenza). Nei vari sobborghi di Londra, trovò correlazioni fortissime tra la percentuale dei ragazzi in ritardo scolastico e fattori quali: numero di famiglie sotto il livello di povertà; sovraffollamento; disoccupazione; mortalità giovanile. Le influenze ambientali dovrebbero risultare evidenti, ma la conclusione a cui Burt giunse fu bizzarra: i gruppi sociali meno intelligenti creano i sobborghi peggiori, e bambini poveri sono ottusi perchè figli di genitori rimasti poveri perchè ottusi.
E qui ci sono da fare un paio di osservazioni interessanti. La prima: Cyril Burt era uno scienziato famoso e rispettato, e in altri campi realizzò lavori pregevoli; quando trattava di intelligenza ed ereditarietà gli scendevano i paraocchi e le sue conclusioni erano di una inaccuratezza indisponente. Eppure pochi dei suoi contemporanei lo attaccarono e lo criticarono, nonostante gli errori logici fossero del tutto evidenti. Questo ci insegna qualcosa su come la società reagisce quando l'errore è utile a dare una patina di oggettività ad un dogma comunemente condiviso ?
La seconda: Burt non si interessò mai troppo delle differenze di intelligenza fra razze, che considerò sempre trascurabili; la sua vera missione fu quella di dimostrare che le stratificazioni sociali erano giustificate in base a differenze biologiche innate.
Negli Stati Uniti le torie ereditarie dell'intelligenza fecero da supporto alla suddivisione della società in gruppi razziali, ed alla discriminazione degli immigranti; in Inghilterra, nel cuore capitalista di un'Europa turbata dalla Rivoluzione d'Ottobre, Burt utilizza lo stesso strumento per giustificare la disuguaglianza tra le classi sociali: sarà un caso ?
E l'ereditarietà dell'intellgenza deve servire a giustificare la ridotta mobilità sociale; i figli dei ricchi saranno ricchi perchè più intelligenti dei poveri.
Ma ormai Burt si era reso conto benissimo dell'irrisolvibilità della combinazione di eredità biologica ed eredità culturale, per cui qualsiasi forte correlazione tra i valori di Q.I. di genitori e figli poteva sostenere in modo identico le due interpretazioni più estreme: fattori esclusivamente ambientali o fattori esclusivamente genetici, oltre ovviamente a tutta la infinita gamma intermedia.
Un solo caso potrebbe permettere una risoluzione tra cause genetiche ed ambientali: gemelli monozigotici, cioè geneticamente identici, separati poco dopo la nascita ed allevati in ambienti diversi. Il problema, ovvio, è la scarsità dei casi. Esistono pochi studi pubblicati: uno su soltanto 12 coppie di gemelli, uno su 19, un altro, di Shields, contempla ben 44 coppie di gemelli, ed è l'unico a fornire dettagli sulla vita di queste persone: sono di solito allevati da parenti stretti, o da amici, o da vicini di casa; si conoscono e si frequentano, in alcuni casi abitano nella stessa via. E' difficile dire che si tratti di gemelli "separati", e che vivano in ambienti realmente diversi.
Cyril Burt stupì il mondo pubblicando una serie di studi su ben 53 coppie di gemelli separati in tenera età, che confermavano pienamente l'erditabilità del quoziente di intelligenza. Anche lontani, i gemelli di Burt avevano Q.I. sempre molto simili. Burt non pubblicò i dettagli sulle loro vite; anzi, nessuno ha mai visto i dati grezzi originali, andati distrutti in un piccolo incendio in laboratorio. L'unica fonte primaria delle pubblicazioni erano carte con dati già parzialmente elaborati, che Burt conservò gelosamente nel cassetto fino alla sua morte.
Quando Burt morì, nel 1971, e le sue carte vennero esaminate, emerse la più clamorosa frode scientifica della storia: le 53 coppie di gemelli erano inventate, i loro Q.I. erano inventati, le loro perfette correlazioni predisposte a tavolino, ed erano inventati anche i collaboratori che avevano raccolto i dati in giro per il mondo.
Il prestigioso e stimato Sir Cyril Burt, sconfitto e frustrato, aveva spinto la sua disperata difesa dell'ereditabilità dell'intelligenza oltre il lecito.
sabato 20 novembre 2010
domenica 14 novembre 2010
Che fortunelli che siamo
Un membro del Congresso degli Stati Uniti, John Shimkus, del Partito Repubblicano, aspira a presiedere il Comitato Nazionale per l'Energia, mica bau bau micio micio.
Ebbene, questo signore afferma con ostentazione di salda certezza che noi non dobbiamo preoccuparci affatto del cambiamento climatico e del riscaldamento globale.
Ohibò ! Che bella notizia, vista la posizione istituzionale a cui punta, avrà certamente studiato in modo approfondito le informazioni più recenti ed avrà trovato che...
l'accumulo di anidride carbonica nell'atmosfera è già in regressione perchè siamo diventati bravissimi e abbiamo incominciato a consumare meno ?
Acqua.
Finora abbiamo sbagliato tutti i conti ed abbiamo maldestramente sopravvalutato il fenomeno ?
Niente affatto.
Si sono scoperti meccanismi di compensazione finora sconosciuti che impediscono che la temperatura della Terra aumenti oltre un certo limite ?
Macchè.
Il dato incontrovertibile su cui l'Onorevole Shimkus poggia la sua sicurezza è...
...che nella Bibbia (Genesi, cap. 8, 21-22) Dio ha promesso a Noè che dopo il Diluvio non avrebbe mai più distrutto la Terra un'altra volta.
Quindi, siamo a postissimo. Siamo in ottime mani.
Per mia incapacità, non riesco a fornire un link diretto per la fonte originale. Ci arrivate, spulciando un pò, attraverso "Rationally Speaking" tra i miei preferiti qui a destra.
Ebbene, questo signore afferma con ostentazione di salda certezza che noi non dobbiamo preoccuparci affatto del cambiamento climatico e del riscaldamento globale.
Ohibò ! Che bella notizia, vista la posizione istituzionale a cui punta, avrà certamente studiato in modo approfondito le informazioni più recenti ed avrà trovato che...
l'accumulo di anidride carbonica nell'atmosfera è già in regressione perchè siamo diventati bravissimi e abbiamo incominciato a consumare meno ?
Acqua.
Finora abbiamo sbagliato tutti i conti ed abbiamo maldestramente sopravvalutato il fenomeno ?
Niente affatto.
Si sono scoperti meccanismi di compensazione finora sconosciuti che impediscono che la temperatura della Terra aumenti oltre un certo limite ?
Macchè.
Il dato incontrovertibile su cui l'Onorevole Shimkus poggia la sua sicurezza è...
...che nella Bibbia (Genesi, cap. 8, 21-22) Dio ha promesso a Noè che dopo il Diluvio non avrebbe mai più distrutto la Terra un'altra volta.
Quindi, siamo a postissimo. Siamo in ottime mani.
Per mia incapacità, non riesco a fornire un link diretto per la fonte originale. Ci arrivate, spulciando un pò, attraverso "Rationally Speaking" tra i miei preferiti qui a destra.
martedì 9 novembre 2010
D'ora in poi, il nostro motto
giovedì 4 novembre 2010
A favore delle fonti rinnovabili di energia
Da Lavocetta, prelevo, rilancio e diffondo volentieri:
http://lavocetta.blogspot.com/2010/11/firma-la-legge-per-le-rinnovabili.html
Ai miei lettori: non sono (ancora) morto; non sto scrivendo nulla perchè gli ultimi tempi sono stati massacranti per gli impegni lavorativi e quelli accessori ad essi connessi. Adesso non ho tempo quasi neanche per respirare, presto spero di tornare a dilettarvi con nuove cattiverie.
http://lavocetta.blogspot.com/2010/11/firma-la-legge-per-le-rinnovabili.html
Ai miei lettori: non sono (ancora) morto; non sto scrivendo nulla perchè gli ultimi tempi sono stati massacranti per gli impegni lavorativi e quelli accessori ad essi connessi. Adesso non ho tempo quasi neanche per respirare, presto spero di tornare a dilettarvi con nuove cattiverie.
mercoledì 20 ottobre 2010
Minimalia Anthropologica
"...e le Regine del tua culpa affollarono i parrucchieri..."
Sì, sto battendo la fiacca. Riciclo per la seconda volta lo stesso verso di De Andrè come ouverture, sono in debito di ancora una o due puntate della storia (riassunto della) del Quoziente di Intelligenza, ma assicuro i lettori che non sono del tutto fermo. Sto leggendo abbastanza e raccogliendo informazioni (anche se non quanto vorrei), il che giova e prima o poi darà frutti, e non sto quasi guardando affatto la televisione, il che giova ancor di più.
Se poi l'informazione è monopolizzata dai fatterelli minimi di cronaca nera che tanto appassionano le massaie, tenersene alla larga è quasi un dovere; è divertente ed istruttivo invece registrarne gli echi riflessi ascoltando i discorsi delle medesime.
Nei giorni scorsi mi sono imbattuto nelle solite invocazioni alla pena di morte, anzi no, perchè sennò lo zio pedofilo non soffre abbastanza, e di qui via a scivolare su una china di invenzioni di apposite torture straordinariamente elaborate, le quali immagino troveranno, con gli opportuni adattamenti, congrua applicazione nelle serali routine sado-maso (mica vorremo mandarle sprecate, delle fantasie così illuminanti, no ?).
Oggi sento raccontare che questo tizio che ormai avremmo già giustiziato in atroci tormenti, potrebbe essere colpevole solo di favoreggiamento, e le massaie schiumanti e ribollenti ammutoliscono e depongono il manuale del Perfetto Torquemada. Almeno fino a domani, quando i giornalisti infiocchetteranno una nuova e diversa versione per dare nuovo fiato alle auditelie trombe e rinvigorire l'impeto corale delle petulanti trombette.
Nel frattempo, suppongo che un normalissimo magistrato stia conducendo una normalissima inchiesta con il massimo scrupolo di cui è capace, e che al termine delle indagini si arriverà ad un normalissimo processo. Punto. C'è bisogno di altro ?
Quanto siamo fortunati che i giudici non debbano essere eletti dal popolo, come auspicava tempo addietro, in una delle sue più riuscite farneticazioni, il gangster asserragliato in Palazzo Chigi.
Anche il simpatico giovanottone serbo di nome Ivan ha stuzzicato abbastanza le velleità giustizialiste da "colore e messa in piega". Dal: "Con tutta la polizia che c'era, cosa ci voleva ad andare su a prenderlo ?" Per il dettaglio che ci voleva di calpestare qualche migliaio di altre persone, rimando ad un post precedente, su quello che poi ho scoperto chiamarsi "familismo amorale"; al: "Bè, e mentre era lì a cavalcioni da solo, non si poteva sparargli ?" (giuro: sentito con le mie orecchie, mi cascassero gli omonimi dell'apposito Ministro se invento).
A parte ogni considerazione su quella cosa indistinta che contorna e fa da sfondo al bersaglio eventualmente mancato, chiamata "folla", sono quasi certo che neanche nel Codice di Hammurabi fosse previsto che si sparasse ad una persona per permettere di giocare una partita di calcio; e sono ancor più certo che la stessa opera di cecchinaggio sarebbe svolta, al contrario ma con identico zelo, nel cortile condominiale per NON far disputare una partita di calcio ai ragazzini.
Non potrei chiamarlo odio, è una specie di agghiacciante ingenuità che fa accapponare la pelle. Perchè in fondo non sono cattive...
Sì, sto battendo la fiacca. Riciclo per la seconda volta lo stesso verso di De Andrè come ouverture, sono in debito di ancora una o due puntate della storia (riassunto della) del Quoziente di Intelligenza, ma assicuro i lettori che non sono del tutto fermo. Sto leggendo abbastanza e raccogliendo informazioni (anche se non quanto vorrei), il che giova e prima o poi darà frutti, e non sto quasi guardando affatto la televisione, il che giova ancor di più.
Se poi l'informazione è monopolizzata dai fatterelli minimi di cronaca nera che tanto appassionano le massaie, tenersene alla larga è quasi un dovere; è divertente ed istruttivo invece registrarne gli echi riflessi ascoltando i discorsi delle medesime.
Nei giorni scorsi mi sono imbattuto nelle solite invocazioni alla pena di morte, anzi no, perchè sennò lo zio pedofilo non soffre abbastanza, e di qui via a scivolare su una china di invenzioni di apposite torture straordinariamente elaborate, le quali immagino troveranno, con gli opportuni adattamenti, congrua applicazione nelle serali routine sado-maso (mica vorremo mandarle sprecate, delle fantasie così illuminanti, no ?).
Oggi sento raccontare che questo tizio che ormai avremmo già giustiziato in atroci tormenti, potrebbe essere colpevole solo di favoreggiamento, e le massaie schiumanti e ribollenti ammutoliscono e depongono il manuale del Perfetto Torquemada. Almeno fino a domani, quando i giornalisti infiocchetteranno una nuova e diversa versione per dare nuovo fiato alle auditelie trombe e rinvigorire l'impeto corale delle petulanti trombette.
Nel frattempo, suppongo che un normalissimo magistrato stia conducendo una normalissima inchiesta con il massimo scrupolo di cui è capace, e che al termine delle indagini si arriverà ad un normalissimo processo. Punto. C'è bisogno di altro ?
Quanto siamo fortunati che i giudici non debbano essere eletti dal popolo, come auspicava tempo addietro, in una delle sue più riuscite farneticazioni, il gangster asserragliato in Palazzo Chigi.
Anche il simpatico giovanottone serbo di nome Ivan ha stuzzicato abbastanza le velleità giustizialiste da "colore e messa in piega". Dal: "Con tutta la polizia che c'era, cosa ci voleva ad andare su a prenderlo ?" Per il dettaglio che ci voleva di calpestare qualche migliaio di altre persone, rimando ad un post precedente, su quello che poi ho scoperto chiamarsi "familismo amorale"; al: "Bè, e mentre era lì a cavalcioni da solo, non si poteva sparargli ?" (giuro: sentito con le mie orecchie, mi cascassero gli omonimi dell'apposito Ministro se invento).
A parte ogni considerazione su quella cosa indistinta che contorna e fa da sfondo al bersaglio eventualmente mancato, chiamata "folla", sono quasi certo che neanche nel Codice di Hammurabi fosse previsto che si sparasse ad una persona per permettere di giocare una partita di calcio; e sono ancor più certo che la stessa opera di cecchinaggio sarebbe svolta, al contrario ma con identico zelo, nel cortile condominiale per NON far disputare una partita di calcio ai ragazzini.
Non potrei chiamarlo odio, è una specie di agghiacciante ingenuità che fa accapponare la pelle. Perchè in fondo non sono cattive...
domenica 17 ottobre 2010
mercoledì 6 ottobre 2010
Nobel e IgNobel
Ogni anno l'assegnazione dei premi IgNobel (quelli per le ricerche più astruse e stravaganti, che ormai tutti conoscerete) mi procura un certo entusiasmo, anche doveroso se la motivazione del premio viene vista nella sua giusta angolazione: ricerche che dovrebbero fare "prima sorridere, e poi riflettere".
Quest'anno mi trovo nell'imprevista situazione di constatare che ben quattro dei dieci studi premiati erano già nelle mie conoscenze. Due perchè in realtà sono nelle conoscenze di tutti, e due perchè avevano suscitato a suo tempo la mia personale curiosità, e qui potrebbe insorgere qualche motivo di preoccupazione per dove va a parare la mia personale curiosità.
Un'altra circostanza (credo) inedita (e che contribuisce a comprendere il valore potenziale di quei "visionari dell'improbabile" che ottengono gli IgNobel) è che il vero Premio Nobel per la Fisica di quest'anno è andato a Andre Geim e Konstantin Novoselov, per i loro studi sul grafene, ed Andre Geim era stato gratificato del Premio IgNobel nel 2000, per una particolare utilizzazione di campi magnetici che gli aveva consentito di far levitare una rana.
I premi dei cui motivi tutti sono al corrente sono:
- quello per l'economia, ai dirigenti di Goldman Sachs, AIG, Lehman Brothers, Bear Stearns, Merrill Lynch e Magnetar, "per aver inventato e promosso un nuovo modo di investire il denaro che massimizza il guadagno e minimizza i rischi finanziari per l'economia mondiale, o almeno per una piccola parte di essa"; e
- per la chimica, alla BP e vari enti ed Università collaboranti "per avere confutato l'antica convinzione che petrolio ed acqua non si mescolano".
E quelli sui quali avevo già letto un pò di documentazione:
- pianificazione dei trasporti, ad un gruppo giapponese che ha disposto su una carta geografica dell'area metropolitana di Tokyo alcune particelle di nutrienti in corrispondenza dei quartieri più importanti e dei centri abitati dell'hinterland, ed ha osservato che un fungo, di quelli che una volta si chiamavano Mixomiceti (adesso sembra che il Phylum Myxomycota non esista più e non so più come va chiamata questa roba) raggiungeva i nutrienti producendo la rete di filamenti più razionale ed economica possibile (secondo criteri umani), che riproduceva piuttosto fedelmente, sulla mappa, le linee della metropolitana e le ferrovie suburbane. Morale: i pianificatori dei trasporti pubblici potrebbero essere sostituiti con identici risultati da muffe, fatto peraltro riscontrabile anche per osservazione diretta da parte degli utenti;
- zoologia, Università di Bristol, per la scoperta della pratica del sesso orale in alcune specie di pipistrelli (i dettagli, ehm, magari un'altra volta).
Gli altri sei riconoscimenti sono comunque degni di ogni attenzione: tra i premiati c'è anche un gruppo italiano (Università di Catania), per:
- gestione aziendale: un modello matematico dimostra che le aziende e gli enti possono guadagnare efficienza distribuendo premi e promozioni in modo del tutto casuale (e anche qui penso che molti possano attingere alle proprie esperienze);
e poi ancora:
- ingegneria, ad un gruppo anglo-messicano che ha messo a punto un metodo per la raccolta del muco delle balene con un elicottero telecomandato;
- medicina, ad un gruppo olandese che ha dimostrato come un giro sulle montagne russe possa contenere i sintomi dell'asma;
- fisica, ad un gruppo neozelandese che ha dimostrato sperimentalmente che indossare i calzetti sopra le scarpe riduce significativamente le probabilità di scivolare camminando su una strada ghiacciata (chapeau !);
- salute pubblica, ad un gruppo statunitense che ha studiato i batteri che, nei laboratori, si insediano nelle barbe dei ricercatori (ancora una volta ci potrebbe essere qualche motivo di personale preoccupazione, con cui non vi tedierò);
- pace (!), ad un gruppo britannico che ha dimostrato che bestemmiare allevia la sensazione di dolore (e anche questa era una cosa che chiunque si sia dato una martellata su un dito ha avuto modo di provare, e che ora finalmente trova una conferma scientifica).
Prevedo dure prese di posizione del Vaticano sull'attribuzione di quest'ultimo premio (chissà se rientra nella sfera della Bioetica oppure no... mah).
sabato 2 ottobre 2010
martedì 28 settembre 2010
Uso e abuso dei test Q.I. - parte 4 - Il Fato si compie
L'applicazione su vasta scala dei test di Q.I. negli Stati Uniti giunse al suo culmine con l'iniziativa di Robert M. Yerkes di sottoporre a diverse versioni del test di Binet (da lui ulteriormente riarrangiate) 1750000 reclute dell'esercito mobilitate per la prima guerra mondiale, nel 1917. I risultati furono pubblicati in una monumentale (800 pagine) e minuziosa monografia nel 1921, poi ribaditi, con una ulteriore radicalizzazione dell'interpretazione innatista, dal fedele collaboratore Brigham in un testo più riassuntivo del 1923.
Cade qui anche un altro caposaldo di Binet: il test deve essere somministrato individualmente da personale specializzato; le reclute dell'esercito venivano invece ammassate gomito a gomito in grandi stanzoni, con un ufficiale che urlava ordini sui compiti da eseguire e un dimostratore che mostrava esempi alla lavagna, con tempi contingentati al secondo per ogni esercizio.
Non la farò tanto lunga: gli immigrati avevano un Quoziente di Intelligenza più basso degli americani bianchi, in particolare quelli dell'Europa meridionale e orientale risultavano inferiori ai nordici e, manco a dirlo, i negri ottenevano il punteggio medio più basso di tutti. Tutto perfetto.
Superfluo aggiungere che Yerkes, come Goddard e Terman, ritenne di aver misurato un'intelligenza innata e immodificabile, non soggetta a influenze ambientali, e che i suoi risultati dimostrassero differenze di intelligenza reali e caratterizzanti tra gruppi etnici.
L'avere esaminato un campione così ampio gli portava però alla luce qualche fastidiosa discrepanza; Yerkes era vittima di un'ottusità talvolta persino comica e di un pregiudizio accecante, ma era sperimentatore meticoloso e redattore preciso: nei suoi stessi dati si trova quanto basta a smentire le sue conclusioni.
Prima di esporre qualche esempio, occorre aggiungere che già Terman, nel suo ampliamento del test originale di Binet, aveva inserito qualche passaggio piuttosto subdolo, che valutava, più che l'intelligenza, la familiarità con cultura e consuetudini americane: quesiti che vertevano sulle differenze culturali tra pellerossa e coloni bianchi; identificazione di oggetti di uso comune nel nordamerica, ma non necessariamente altrove (una normale lampadina a bulbo, attorno al 1920, non era un oggetto così banale in molte parti del mondo), o l'identificazione, in base all'aspetto, del ruolo dei personaggi raffigurati: un signore in toga e parruccone è riconoscibile come un giudice o un avvocato per gli anglosassoni, e magari per gli europei; per altri risulterà solo un tizio vestito in modo stravagante. Yerkes accentuò ancora di più questa tendenza, inserendo quesiti del tipo:
- Crisco è: - una specialità farmaceutica, - un disinfettante, - un dentifricio, - un prodotto alimentare.
- Washington sta ad Adams come primo sta a . . .
- Christy Mathewson è famoso come: - scrittore, - artista, - giocatore di baseball, - attore.
Io avrei totalizzato un punteggio ben misero se non avessi ripreso questi esempi da Gould, il cui valore come studioso dell'evoluzione può essere avvicinato solo dalla sua competenza sul baseball, per cui ora so che la risposta esatta all'ultima domanda è la terza. Immaginate la recluta Pautasso Gaudenzio da Chivasso, sbarcata in America magari l'anno prima, quanto avrebbe potuto essersi appassionata alle prodezze del signor Mathewson.
Ed eccoci al paradosso: per chi volesse cercare correlazioni tra Quoziente di Intelligenza e condizioni ambientali, il lavoro di Yerkes è una vera miniera.
Assumendo che il successo sociale e lavorativo fosse un effetto dell'intelligenza innata, tentò una suddivisione tra apprendisti, operai e tecnici. Non trovò alcuna correlazione con il Q.I. Concluse che la suddivisione doveva essere errata.
Una correlazione che invece gli ritornava continuamente sotto gli occhi come un incubo, era quella tra Q.I. e livelli di scolarità. Ma se il Q.I. misurava l'intelligenza innata e non l'apprendimento, non doveva essere così; risolse il problema da par suo: "...l'intelligenza innata è uno dei più importanti fattori condizionanti per la continuazione degli studi..."
Ma la correlazione con la scolarità era ancora più accentuata se messa in rapporto alle differenze tra bianchi e negri: Yerkes concluse, ovviamente, che i negri lasciavano la scuola prima dei bianchi perchè erano meno intelligenti. Nessuna ipotesi circa le differenze tra le scuole per bianchi e quelle per negri (con segregazione sancita ufficialmente: siamo nel 1917), o la necessità di andare a lavorare presto.
Negli stati del sud, dove lo schiavismo era ancora fresco, le condizioni sociali dei negri erano peggiori che nel nord. Yerkes organizzò i suoi dati così finemente da mettere in luce gli effetti anche di questa variazione ambientale: i negri del sud avevano un livello di scolarità inferiore ed un Q.I. medio più basso dei negri degli stati del nord. Quale dimostrazione migliore... (che il Q.I. sia un riflesso delle condizioni sociali e culturali ? Ma no, cosa andate a pensare) ...che solo i negri più intelligenti erano stati così in gamba da trasferirsi al nord ?
Un paragrafo che considererei degno di ammirazione, se non fosse per le assurde conclusioni, mette in relazione i valori di Q.I. con i sintomi di alcune malattie; in particolare, malattie legate a condizioni di povertà, sovraffollamento e condizioni sociali difficili, risultarono correlate con valori di Q.I. più bassi rispetto ai non ammalati (in parallelo, sia tra i bianchi che tra i neri). Yerkes è granitico: "Una bassa capacità [intellettiva] innata può determinare tali condizioni di vita da risaltare in un'infezione da anchilostomi." (Gli anchilostomi sono vermi parassiti intestinali: erano detti "vermi dei minatori", non è difficile immaginare le precarie condizioni igieniche all'interno dei pozzi).
Per quanto riguarda gli immigrati, i dati organizzati per paese di origine erano davvero perfetti: i nordeuropei avevano un Q.I. più alto di slavi ed europei meridionali (2 anni di età mentale di differenza media); insorgeva però una fastidiosa difficoltà: l'ondata migratoria di teutonici e scandinavi si era esaurita qualche decennio prima (dopo la metà del XIX secolo era giunta in Europa la peronospora della patata, che aveva provocato carestie disastrose nei paesi in cui questa coltura era la base dell'alimentazione), mentre l'immigrazione di italiani e slavi era nel suo picco massimo in quell'inizio di XX secolo. Ora, il fastidio consisteva nel fatto che emergeva anche un costante aumento del valore di Q.I. degli immigrati in relazione agli anni di permanenza negli Stati Uniti. Le tabulazioni di Yerkes dimostrano che 10 - 15 anni in più di residenza producono un aumento del Q.I. che supera largamente quei fatidici 2 anni, mandando così a monte la comoda e confortante spiegazione razziale. Ecco l'evidenza che il test, così com'era concepito, misurava effettivamente anche la familiarità con le abitudini e gli usi americani.
Ma ormai dovremmo sapere che Yerkes non era tipo da scomporsi: la correlazione con il tempo di permanenza era per lui un artefatto genetico, dato che i nordici superiori erano immigrati prima e i meridionali inferiori erano la massa di più recente acquisizione (trascurando che le differenze erano grossomodo costanti per fasce di 5 anni, le più recenti delle quali erano comunque caratterizzate da immigrazione pressochè esclusivamente meridionale e slava). Ci pensò poi Brigham, nel suo sunto, a lanciare l'allarme: non solo gli Stati Uniti accoglievano la feccia dell'Europa, ma questa si stava presentando in ondate di immigrati di anno in anno sempre più stupidi !
Il clima politico di quegli anni era propizio, e la propaganda battè la grancassa. Per dare un'idea dell'aria che si respirava, nel 1921 si concluse con la sentenza di condanna il processo-farsa a Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, che presero poi la scossa nel 1927.
I dati militari di Yerkes furono decisivi (nel dibattito al Congresso tutti i relatori li citarono) per l'approvazione dell'Immigration Restriction Act del 1924, che fissava quote massime di immigrazione ad un 2 % annuo per ciascuna nazionalità presente negli Stati Uniti in riferimento al censimento 1890. Perchè prendere come parametro i dati di trent'anni prima ? L'abbiamo detto: il 1890 fu lo spartiacque tra l'immigrazione nordica e quella meridionale e slava, e quindi quelle quote permettevano di restringere in particolare l'afflusso degli indesiderabili (credo che si dicesse "popoli mentalmente non idonei").
Eppure i fatti che dimostravano l'inconsistenza delle asserzioni di Yerkes erano accessibili a tutti, seppelliti in una monografia di 800 pagine che nessun uomo politico lesse mai.
Non abbiamo ancora finito. Goddard finì per trionfare su tutto il fronte. Oltre a tenere le popolazioni meno intelligenti lontane dalle coste americane, il movimento eugenetista ottenne i suoi successi anche all'interno. Tra il 1907 e gli anni '30 più di trenta stati degli U.S.A. adottarono leggi che prevedevano la sterilizzazione obbligata per le persone affette da varie forme di ritardo mentale e vari altri difetti "ereditari", che in alcuni Stati comprendevano l'alcolismo e la tossicodipendenza, in altri anche la cecità e la sordità. Ma le raccomandazioni inascoltate dell'Eugenics Record Office si spingevano ben più in là, includendo "... gli inetti, i senzatetto, gli orfani, i vagabondi e gli indigenti."
Vorrei far notare come non vengano immaginati provvedimenti per limitare la riproduzione dei negri, per i quali ci si limita alla segregazione in scuole diverse, in locali pubblici diversi, in autobus diversi da quelli dei bianchi: la manodopera da poter sfruttare è troppo redditizia per pensare a farla diminuire di numero...
Le leggi eugenetiste americane furono continuamente messe in discussione e in molti stati non vennero messe realmente in pratica. California e Virginia le applicarono invece con grande zelo; riserverò a questo il capitolo finale di questa lunga saga, tra qualche settimana. Per quanto questa affermazione possa risultare urticante per alcuni, io considero sia l'Immigration Restriction Act del 1924 che le leggi eugenetiche statali degli U.S.A. una premessa culturale fondamentale per quel che avvenne in Germania poco più tardi; per non parlare delle disposizioni dell'Eugenics Record Office che furono acquisite esplicitamente nell'Erbgesundheitsrecht nazista (375000 sterilizzazioni forzate in Germania).
E a proposito di nazismo, la restrizione all'immigrazione negli U.S.A. non ebbe solo un ruolo nella creazione di un certo clima culturale: il suo effetto di rimbalzo fu ben più diretto e drammatico quando tanti ebrei tentarono di fuggire dall'Italia, dall'Ungheria, dalla Polonia... e trovarono la strada sbarrata verso gli Stati Uniti dalle quote contingentate particolarmente ridotte per questi paesi. Molti di loro non ebbero nessun altro posto dove poter andare, e furono costretti a restare nei luoghi di origine.
Sappiamo che fine fecero.
Cade qui anche un altro caposaldo di Binet: il test deve essere somministrato individualmente da personale specializzato; le reclute dell'esercito venivano invece ammassate gomito a gomito in grandi stanzoni, con un ufficiale che urlava ordini sui compiti da eseguire e un dimostratore che mostrava esempi alla lavagna, con tempi contingentati al secondo per ogni esercizio.
Non la farò tanto lunga: gli immigrati avevano un Quoziente di Intelligenza più basso degli americani bianchi, in particolare quelli dell'Europa meridionale e orientale risultavano inferiori ai nordici e, manco a dirlo, i negri ottenevano il punteggio medio più basso di tutti. Tutto perfetto.
Superfluo aggiungere che Yerkes, come Goddard e Terman, ritenne di aver misurato un'intelligenza innata e immodificabile, non soggetta a influenze ambientali, e che i suoi risultati dimostrassero differenze di intelligenza reali e caratterizzanti tra gruppi etnici.
L'avere esaminato un campione così ampio gli portava però alla luce qualche fastidiosa discrepanza; Yerkes era vittima di un'ottusità talvolta persino comica e di un pregiudizio accecante, ma era sperimentatore meticoloso e redattore preciso: nei suoi stessi dati si trova quanto basta a smentire le sue conclusioni.
Prima di esporre qualche esempio, occorre aggiungere che già Terman, nel suo ampliamento del test originale di Binet, aveva inserito qualche passaggio piuttosto subdolo, che valutava, più che l'intelligenza, la familiarità con cultura e consuetudini americane: quesiti che vertevano sulle differenze culturali tra pellerossa e coloni bianchi; identificazione di oggetti di uso comune nel nordamerica, ma non necessariamente altrove (una normale lampadina a bulbo, attorno al 1920, non era un oggetto così banale in molte parti del mondo), o l'identificazione, in base all'aspetto, del ruolo dei personaggi raffigurati: un signore in toga e parruccone è riconoscibile come un giudice o un avvocato per gli anglosassoni, e magari per gli europei; per altri risulterà solo un tizio vestito in modo stravagante. Yerkes accentuò ancora di più questa tendenza, inserendo quesiti del tipo:
- Crisco è: - una specialità farmaceutica, - un disinfettante, - un dentifricio, - un prodotto alimentare.
- Washington sta ad Adams come primo sta a . . .
- Christy Mathewson è famoso come: - scrittore, - artista, - giocatore di baseball, - attore.
Io avrei totalizzato un punteggio ben misero se non avessi ripreso questi esempi da Gould, il cui valore come studioso dell'evoluzione può essere avvicinato solo dalla sua competenza sul baseball, per cui ora so che la risposta esatta all'ultima domanda è la terza. Immaginate la recluta Pautasso Gaudenzio da Chivasso, sbarcata in America magari l'anno prima, quanto avrebbe potuto essersi appassionata alle prodezze del signor Mathewson.
Ed eccoci al paradosso: per chi volesse cercare correlazioni tra Quoziente di Intelligenza e condizioni ambientali, il lavoro di Yerkes è una vera miniera.
Assumendo che il successo sociale e lavorativo fosse un effetto dell'intelligenza innata, tentò una suddivisione tra apprendisti, operai e tecnici. Non trovò alcuna correlazione con il Q.I. Concluse che la suddivisione doveva essere errata.
Una correlazione che invece gli ritornava continuamente sotto gli occhi come un incubo, era quella tra Q.I. e livelli di scolarità. Ma se il Q.I. misurava l'intelligenza innata e non l'apprendimento, non doveva essere così; risolse il problema da par suo: "...l'intelligenza innata è uno dei più importanti fattori condizionanti per la continuazione degli studi..."
Ma la correlazione con la scolarità era ancora più accentuata se messa in rapporto alle differenze tra bianchi e negri: Yerkes concluse, ovviamente, che i negri lasciavano la scuola prima dei bianchi perchè erano meno intelligenti. Nessuna ipotesi circa le differenze tra le scuole per bianchi e quelle per negri (con segregazione sancita ufficialmente: siamo nel 1917), o la necessità di andare a lavorare presto.
Negli stati del sud, dove lo schiavismo era ancora fresco, le condizioni sociali dei negri erano peggiori che nel nord. Yerkes organizzò i suoi dati così finemente da mettere in luce gli effetti anche di questa variazione ambientale: i negri del sud avevano un livello di scolarità inferiore ed un Q.I. medio più basso dei negri degli stati del nord. Quale dimostrazione migliore... (che il Q.I. sia un riflesso delle condizioni sociali e culturali ? Ma no, cosa andate a pensare) ...che solo i negri più intelligenti erano stati così in gamba da trasferirsi al nord ?
Un paragrafo che considererei degno di ammirazione, se non fosse per le assurde conclusioni, mette in relazione i valori di Q.I. con i sintomi di alcune malattie; in particolare, malattie legate a condizioni di povertà, sovraffollamento e condizioni sociali difficili, risultarono correlate con valori di Q.I. più bassi rispetto ai non ammalati (in parallelo, sia tra i bianchi che tra i neri). Yerkes è granitico: "Una bassa capacità [intellettiva] innata può determinare tali condizioni di vita da risaltare in un'infezione da anchilostomi." (Gli anchilostomi sono vermi parassiti intestinali: erano detti "vermi dei minatori", non è difficile immaginare le precarie condizioni igieniche all'interno dei pozzi).
Per quanto riguarda gli immigrati, i dati organizzati per paese di origine erano davvero perfetti: i nordeuropei avevano un Q.I. più alto di slavi ed europei meridionali (2 anni di età mentale di differenza media); insorgeva però una fastidiosa difficoltà: l'ondata migratoria di teutonici e scandinavi si era esaurita qualche decennio prima (dopo la metà del XIX secolo era giunta in Europa la peronospora della patata, che aveva provocato carestie disastrose nei paesi in cui questa coltura era la base dell'alimentazione), mentre l'immigrazione di italiani e slavi era nel suo picco massimo in quell'inizio di XX secolo. Ora, il fastidio consisteva nel fatto che emergeva anche un costante aumento del valore di Q.I. degli immigrati in relazione agli anni di permanenza negli Stati Uniti. Le tabulazioni di Yerkes dimostrano che 10 - 15 anni in più di residenza producono un aumento del Q.I. che supera largamente quei fatidici 2 anni, mandando così a monte la comoda e confortante spiegazione razziale. Ecco l'evidenza che il test, così com'era concepito, misurava effettivamente anche la familiarità con le abitudini e gli usi americani.
Ma ormai dovremmo sapere che Yerkes non era tipo da scomporsi: la correlazione con il tempo di permanenza era per lui un artefatto genetico, dato che i nordici superiori erano immigrati prima e i meridionali inferiori erano la massa di più recente acquisizione (trascurando che le differenze erano grossomodo costanti per fasce di 5 anni, le più recenti delle quali erano comunque caratterizzate da immigrazione pressochè esclusivamente meridionale e slava). Ci pensò poi Brigham, nel suo sunto, a lanciare l'allarme: non solo gli Stati Uniti accoglievano la feccia dell'Europa, ma questa si stava presentando in ondate di immigrati di anno in anno sempre più stupidi !
Il clima politico di quegli anni era propizio, e la propaganda battè la grancassa. Per dare un'idea dell'aria che si respirava, nel 1921 si concluse con la sentenza di condanna il processo-farsa a Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, che presero poi la scossa nel 1927.
I dati militari di Yerkes furono decisivi (nel dibattito al Congresso tutti i relatori li citarono) per l'approvazione dell'Immigration Restriction Act del 1924, che fissava quote massime di immigrazione ad un 2 % annuo per ciascuna nazionalità presente negli Stati Uniti in riferimento al censimento 1890. Perchè prendere come parametro i dati di trent'anni prima ? L'abbiamo detto: il 1890 fu lo spartiacque tra l'immigrazione nordica e quella meridionale e slava, e quindi quelle quote permettevano di restringere in particolare l'afflusso degli indesiderabili (credo che si dicesse "popoli mentalmente non idonei").
Eppure i fatti che dimostravano l'inconsistenza delle asserzioni di Yerkes erano accessibili a tutti, seppelliti in una monografia di 800 pagine che nessun uomo politico lesse mai.
Non abbiamo ancora finito. Goddard finì per trionfare su tutto il fronte. Oltre a tenere le popolazioni meno intelligenti lontane dalle coste americane, il movimento eugenetista ottenne i suoi successi anche all'interno. Tra il 1907 e gli anni '30 più di trenta stati degli U.S.A. adottarono leggi che prevedevano la sterilizzazione obbligata per le persone affette da varie forme di ritardo mentale e vari altri difetti "ereditari", che in alcuni Stati comprendevano l'alcolismo e la tossicodipendenza, in altri anche la cecità e la sordità. Ma le raccomandazioni inascoltate dell'Eugenics Record Office si spingevano ben più in là, includendo "... gli inetti, i senzatetto, gli orfani, i vagabondi e gli indigenti."
Vorrei far notare come non vengano immaginati provvedimenti per limitare la riproduzione dei negri, per i quali ci si limita alla segregazione in scuole diverse, in locali pubblici diversi, in autobus diversi da quelli dei bianchi: la manodopera da poter sfruttare è troppo redditizia per pensare a farla diminuire di numero...
Le leggi eugenetiste americane furono continuamente messe in discussione e in molti stati non vennero messe realmente in pratica. California e Virginia le applicarono invece con grande zelo; riserverò a questo il capitolo finale di questa lunga saga, tra qualche settimana. Per quanto questa affermazione possa risultare urticante per alcuni, io considero sia l'Immigration Restriction Act del 1924 che le leggi eugenetiche statali degli U.S.A. una premessa culturale fondamentale per quel che avvenne in Germania poco più tardi; per non parlare delle disposizioni dell'Eugenics Record Office che furono acquisite esplicitamente nell'Erbgesundheitsrecht nazista (375000 sterilizzazioni forzate in Germania).
E a proposito di nazismo, la restrizione all'immigrazione negli U.S.A. non ebbe solo un ruolo nella creazione di un certo clima culturale: il suo effetto di rimbalzo fu ben più diretto e drammatico quando tanti ebrei tentarono di fuggire dall'Italia, dall'Ungheria, dalla Polonia... e trovarono la strada sbarrata verso gli Stati Uniti dalle quote contingentate particolarmente ridotte per questi paesi. Molti di loro non ebbero nessun altro posto dove poter andare, e furono costretti a restare nei luoghi di origine.
Sappiamo che fine fecero.
venerdì 24 settembre 2010
Meno Libro, Più Moschetto
Quando due cervelli di prim'ordine come quelli di Maria Stella Gelmini e di Ignazio La Russa uniscono i loro sforzi, magari assieme ad un chilo di carciofi freschi, non c'è mai da rimanere delusi. Beata Ignoranza ed Olio Di Ricino hanno siglato il progetto formativo "Allenati per la vita" che porterà un centinaio di militari in congedo nelle scuole della Lombardia (ma Piemonte e Veneto sono pronte nella scia: se nell'aria c'è odore di idiozia, certe regioni sono attratte irresistibilmente: è un istinto) a tenere corsi grazie ai quali i ragazzi delle scuole superiori potranno ottenere crediti formativi.
I corsi riguarderanno temi come "cultura militare" (sì, in retorica si chiama ossimoro, come "vittoriosa sconfitta" o "secca umidità"), orientamento, difesa nucleare, batteriologica e chimica, esercitazioni di tiro (con arco e pistole ad aria compressa); il tenente Paolo Montali sottolinea un "uso delle armi limitato". Bontà sua.
E' prevista anche una "gara finale" tra pattuglie di studenti, e chi vuole potrà indossare orgoglioso una tuta mimetica dell'Esercito. Insomma i ragazzi potranno divertirsi da matti a sentirsi in guerra.
Certo, andare in giro nelle scuole con l'elmetto tutto sommato è utile, con i soffitti che potrebbero cascare da un momento all'altro: ma mandiamo a spasso quelli che insegnano Scienze, Matematica, Filosofia e poi portiamo nelle scuole le pistole (certo, a costo zero, i militari insegnano la guerra per volontariato, spirito di servizio, filantropia: la guerra è filantropica), per avvicinare i giovani ai valori (dicono un Generale, tal de Milato, e Giuseppe Colosio, il dirigente scolastico regionale della Lombardia che non ha notato nulla di strano nella scuola di Adro).
"Valori" è la parola chiave. Quali valori ? Il tenente Montali si sbilancia: "Ordine, Disciplina, Gerarchia".
Questa iniziativa dovrebbe, secondo i geniali ideatori, arginare anche il fenomeno del bullismo; scrive Alessandro Robecchi su il manifesto di oggi: "Sai mamma, stamattina a scuola c'era un bullo, ma io l'ho fatto secco". Molto educativo". E ce lo insegnano i militari come eliminare il bullismo ? E da quando ? Nelle caserme, di fenomeni come il nonnismo, tollerati se non apprezzati, nessuno ha mai sentito parlare ?
Qualche anno fa la deriva era iniziata quando l'allora ministro Donna Letizia Moratti aveva introdotto arbitrariamente in ruolo qualche migliaio di insegnanti di religione privi di qualsiasi titolo di cui oggi, se anche rinsavissimo di colpo, non potremmo più sbarazzarci.
Una volta imposto il "Credere" non si poteva dubitare che "Obbedire" e "Combattere" non avrebbero tardato molto.
Perchè faticare per educare dei cittadini quando si possono comodamente avere dei soldati semplici ?
Andate pure a fare ricreazione, ragazzi, ma con il passo dell'oca.
domenica 19 settembre 2010
Uso e abuso dei test Q.I. - parte 3 - Degenerazione
Il test del Quoziente di Intelligenza nacque in Francia, ma trovò la sua più estesa applicazione negli Stati Uniti.
Una delle prime documentazioni di somministrazione del test in America è quella riferita nel 1912 da H.H. Goddard ad Ellis Island, il luogo nel porto di New York dove i transatlantici vomitavano migliaia di immigrati cenciosi provenienti dall'Europa. Goddard scelse un giovane, identificato a vista come possibile moron, e lo sottopose al test di Binet attraverso l'interprete, un immigrato di più vecchia data (purtroppo qui ci sfugge la succosa informazione sulla nazionalità di origine, ma ci rifaremo in seguito). Il candidato ottenne un'età mentale di 8 anni nella scala Binet. L'interprete osservò che neanche lui sarebbe stato in grado di eseguire il test appena sceso dalla nave, scrisse Goddard: "...e sembrava pensare che il test fosse ingiusto. Ma lo convincemmo che il ragazzo era deficiente."
In quale contesto e su quale substrato culturale si svolgevano questi esercizi, che ci appaiono così lontani dalle intenzioni originarie ?
Come si è detto nel capitolo precedente, il paradigma culturale dell'epoca era la riduzione di tutta la variazione presente in natura a determinanti che rispondesseno alle fresche fresche leggi di Mendel, come il colore dei fiori o la grinzosità dei semi di pisello.
In questo contesto, Goddard mise a segno in un colpo solo tutti gli errori che Binet aveva tanto temuto, e fatto di tutto per evitare: assunse che il test fosse la misura di un'entità unica e reale, l'intelligenza; che questa fosse una funzione corporea, con sede nella testa, misurabile come si misura un peso o una resistenza elettrica, ed esprimibile con un numero; e che ogni individuo ne disponesse di una quantità fissa e immutabile, determinata geneticamente. Ma non è ancora tombola: manca un punto fondamentale.
I punti di partenza di Goddard furono essenzialmente due, ed entrambi errati: 1) l'intelligenza misurata era variabile tra gli individui, e quindi la variazione doveva per forza essere ereditaria; 2) egli osservò che le condizioni patologiche di ritardo mentale erano ereditarie (il che, tra l'altro, non è vero: le forme patologiche di deficienza mentale sono varie e molteplici; alcune sono ereditarie ed altre no: ad esempio di origine traumatica o dovute ad accidenti di vario genere che capitano nel corso dello sviluppo), e quindi dedusse che anche le differenze di intelligenza tra persone sane fossero ereditabili allo stesso modo (ricordate l'errore di categoria sulle cause di variazione tra ed entro su cui ho tanto insistito nel precedente capitolo ? Eccoci qua). Poste queste premesse, la conclusione è semplice: se si vuole evitare che l'intelligenza complessiva del popolo americano si abbassi, bisogna impedire ai deboli di mente di procreare. Goddard non disdegnava le sterilizzazioni di massa come soluzione, ma temeva che l'opinione pubblica non fosse ancora pronta ad accettare simili mutilazioni; come ripiego momentaneo, il confinamento in appositi istituti appariva la soluzione migliore. Da qui in avanti, il test di Binet non venne più usato per identificare coloro che avevano bisogno di un aiuto per progredire, ma soltanto per identificare allo scopo di escludere, respingere, segregare. Adesso sì che la tombola è completa.
A questo punto può apparire chiaro perchè Goddard non fosse troppo preoccupato della deficienza mentale conclamata, patologica, facilmente riconoscibile; la sua ossessione era il "debole di mente", il moron (termine coniato da lui), colui che si collocava appena sotto la soglia dei 12 anni nella scala Binet, e che era in grado di svolgere compiti nella società: il tipo border line che, se non identificato, poteva sfuggire e proliferare pericolosamente, minacciando la salute mentale del Paese (secondo Goddard il moron era omozigote recessivo per il gene dell'intelligenza da lui immaginato; e quelli con intelligenza bassa ma normale eterozigoti: tutto facile).
Il programma eugenetico di Goddard non poteva poi trascurare il problema dell'afflusso di nuovi moron per immigrazione (e manco a dirlo trovò ben presto sponde favorevoli in campo politico): ecco il senso della sua presenza ad Ellis Island.
Quei primi assaggi del 1912 furono la premessa per il suo esperimento più celebre:
ottenuti ben presto adeguati finanziamenti, nel 1913 inviò due sue assistenti che trascorsero alcuni mesi ad Ellis Island per sottoporre sistematicamente al test gli immigranti appena sbarcati, per quattro etnie critiche nei flussi migratori. Goddard preferiva che fossero donne a somministrare le prove perchè, secondo lui, avevano una particolare sensibilità nell'individuare a vista il debole di mente (un filino di pregiudizio voi lo notate ?). Pietosamente, non ci addentreremo nel metodo di campionamento, ma i risultati, per tutti e quattro i gruppi scelti per l'esame, furono stupefacenti: l' 83 % degli ebrei, l' 80 % degli ungheresi, il 79 % degli italiani e l' 87 % dei russi erano moron.
E chi l'avrebbe mai detto che quattro nazionalità su quattro fossero composte per 4/5 da deficienti ?
I gruppi politici favorevoli a limitazioni dell'immigrazione esultarono soprattutto per il risultato degli ebrei, sgradevoli ma, secondo il luogo comune, intelligenti; c'era ora un appiglio per precludere l'accesso anche a questo gruppo fastidioso. Goddard, per la verità, si lasciò sfiorare per un attimo dal dubbio che forse c'era qualcosa che non andava nel metodo; poi si scrollò di dosso le perplessità ed accettò i risultati come scientificamente validi.
In verità, si capì poi che gli aggiustamenti che aveva apportato al test di Binet per adattarlo ai suoi scopi lo portavano a sottostimare notevolmente l'età mentale degli esaminati. Ma ciò che sconvolge di più nel "rigore" dell'esperimento, è l'aperta sfida al buon senso: Binet somministrava il suo test ai ragazzi a scuola; nè Goddard, nè le sue gentili collaboratrici dubitarono davvero mai che una persona che ha appena attraversato l'Oceano passando settimane nella stiva di una nave sovraffollata, impaurita, arrivata in un paese nuovo, probabilmente senza aver mai tenuto una matita in mano, possa andare a segno quando una gentile signora gli chiede di disegnare a memoria su un foglio una figura mostratagli poco prima ? O di dire 60 parole qualsiasi nella propria lingua ? O anche solo di dire che giorno è ? (Curiosamente, non furono mai sottoposti a test i passeggeri dei ponti di prima classe).
Ci rimane ancora un velo di curiosità sullo scopo per il quale le donne mettano a frutto, nella loro vita extrascientifica, la loro straordinaria abilità nell'individuare a vista il "debole di mente"; ma temo che sia una di quelle cose che noi uomini faremmo meglio a non domandarci.
Da Goddard in avanti, la via è tutta in discesa: Lewis Terman, dell'Università di Stanford, ampliò il test di Binet, portando gli esercizi da 54 a 90 ed estendendolo agli "adulti superiori"; ed introdusse la correzione per l'età in modo da standardizzare i punteggi con media di 100 e deviazione standard 15; lo Stanford-Binet divenne il riferimento per tutte le edizioni successive dei test Q.I. Inoltre propagandò attivamente l'applicazione sistematica del test a tutti gli studenti. Con trenta minuti e cinque test si poteva finalmente marchiare il destino educativo di un bambino per tutta la vita.
La visione ideale di Terman era un "nuovo" ordine sociale con assegnazione di mansioni lavorative rigidamente affidata al valore intellettivo di ciascuno, e quindi una definizione (o piuttosto una conferma) delle classi sociali su basi oggettive e scientifiche (e, ça va sans dir, ereditarie). Il suo innatismo poggiava esattamente sugli stessi errori di Goddard: necessità non dimostrata dell'ereditabilità dell'intelligenza; ed estrapolazione non valida dalle cause genetiche da casi di ritardo mentale patologico alla variazione ordinaria. L'ampia estensione dei dati raccolti da Terman, da una parte segnò un punto a favore delle donne: "sorprendentemente", ragazze cresciute nello stesso ambiente sociale e culturale dei loro fratelli, ottenevano risultati identici a quelli dei maschi; posto che fino ad allora il tema della discussione antropologica era stato se le donne andassero collocate un gradino sopra o un gradino sotto rispetto ai negri, Terman biasimò lo spreco di talento che la società stava perpetrando, relegando la sua parte femminile a ruoli secondari e sottovalutati; dall'altra, non altrettanta fortuna ebbereo negri e ispanici, i cui valori medi di Q.I. risultarono più bassi rispetto agli americani bianchi. Non bisogna sforzarsi per intuire quale potesse esserne la spiegazione: intelligenza innata ereditaria ineluttabilmente inferiore. Possiamo forse pensare che si prendessero in considerazione le differenze nelle condizioni sociali, le possibilità di accesso a scuola e cultura, la prosperità delle famiglie ?
[Per dare un'idea della propensione generale a tenere conto delle condizioni ambientali da parte degli scienziati dell'epoca, vale la pena di raccontare un esempio che con il Q.I. non ha nulla a che fare: agli albori del '900, il Governo degli Stati Uniti decise di finanziare uno studio per individuare le cause della pellagra, una grave malattia che oggi sappiamo essere una carenza di niacina (una vitamina del gruppo B), dovuta quindi a scarsità di cibi freschi: era molto diffusa anche in Italia tra le popolazioni che avevano la polenta come alimento pressochè esclusivo. Ebbene, dopo un giro di indagini nel sud degli Stati Uniti, la commissione medica concluse che la pellagra doveva essere una malattia ereditaria, poichè si ripresentava con una certa regolarità tra membri delle stesse famiglie: il dettaglio che anche povertà e malnutrizione fossero caratteristiche condivise all'interno delle famiglie sfuggì del tutto all'ossevazione].
In verità, proprio per la vastità dei dati raccolti, Terman dovette fare i conti anche con qualche dettaglio fastidioso: ad esempio, fu esaminato anche un campione di venti ragazzi cresciuti in un orfanotrofio, i cui punteggi di Q.I. erano decisamente più bassi della media. Forse che la situazione ambientale di essere cresciuti in assenza dei genitori...? Ma no, un buon innatista non si arrende per così poco: "...l'orfanotrofio in questione è ragionevolmente buono e offre un ambiente che è stimolante per un normale sviluppo mentale come la vita familiare che si conduce nelle classi medie." E quindi: "La maggior parte, sebbene non tutti per ammissione generale, sono bambini di classi sociali inferiori." (1916) E pertanto portano le tare ereditarie che hanno confinato i loro antenati ad un basso livello sociale (il tutto per pura congettura e senza aver minimamente verificato).
E se tutto ciò vi pare orribile, sappiate che il peggio deve ancora venire.
Una delle prime documentazioni di somministrazione del test in America è quella riferita nel 1912 da H.H. Goddard ad Ellis Island, il luogo nel porto di New York dove i transatlantici vomitavano migliaia di immigrati cenciosi provenienti dall'Europa. Goddard scelse un giovane, identificato a vista come possibile moron, e lo sottopose al test di Binet attraverso l'interprete, un immigrato di più vecchia data (purtroppo qui ci sfugge la succosa informazione sulla nazionalità di origine, ma ci rifaremo in seguito). Il candidato ottenne un'età mentale di 8 anni nella scala Binet. L'interprete osservò che neanche lui sarebbe stato in grado di eseguire il test appena sceso dalla nave, scrisse Goddard: "...e sembrava pensare che il test fosse ingiusto. Ma lo convincemmo che il ragazzo era deficiente."
In quale contesto e su quale substrato culturale si svolgevano questi esercizi, che ci appaiono così lontani dalle intenzioni originarie ?
Come si è detto nel capitolo precedente, il paradigma culturale dell'epoca era la riduzione di tutta la variazione presente in natura a determinanti che rispondesseno alle fresche fresche leggi di Mendel, come il colore dei fiori o la grinzosità dei semi di pisello.
In questo contesto, Goddard mise a segno in un colpo solo tutti gli errori che Binet aveva tanto temuto, e fatto di tutto per evitare: assunse che il test fosse la misura di un'entità unica e reale, l'intelligenza; che questa fosse una funzione corporea, con sede nella testa, misurabile come si misura un peso o una resistenza elettrica, ed esprimibile con un numero; e che ogni individuo ne disponesse di una quantità fissa e immutabile, determinata geneticamente. Ma non è ancora tombola: manca un punto fondamentale.
I punti di partenza di Goddard furono essenzialmente due, ed entrambi errati: 1) l'intelligenza misurata era variabile tra gli individui, e quindi la variazione doveva per forza essere ereditaria; 2) egli osservò che le condizioni patologiche di ritardo mentale erano ereditarie (il che, tra l'altro, non è vero: le forme patologiche di deficienza mentale sono varie e molteplici; alcune sono ereditarie ed altre no: ad esempio di origine traumatica o dovute ad accidenti di vario genere che capitano nel corso dello sviluppo), e quindi dedusse che anche le differenze di intelligenza tra persone sane fossero ereditabili allo stesso modo (ricordate l'errore di categoria sulle cause di variazione tra ed entro su cui ho tanto insistito nel precedente capitolo ? Eccoci qua). Poste queste premesse, la conclusione è semplice: se si vuole evitare che l'intelligenza complessiva del popolo americano si abbassi, bisogna impedire ai deboli di mente di procreare. Goddard non disdegnava le sterilizzazioni di massa come soluzione, ma temeva che l'opinione pubblica non fosse ancora pronta ad accettare simili mutilazioni; come ripiego momentaneo, il confinamento in appositi istituti appariva la soluzione migliore. Da qui in avanti, il test di Binet non venne più usato per identificare coloro che avevano bisogno di un aiuto per progredire, ma soltanto per identificare allo scopo di escludere, respingere, segregare. Adesso sì che la tombola è completa.
A questo punto può apparire chiaro perchè Goddard non fosse troppo preoccupato della deficienza mentale conclamata, patologica, facilmente riconoscibile; la sua ossessione era il "debole di mente", il moron (termine coniato da lui), colui che si collocava appena sotto la soglia dei 12 anni nella scala Binet, e che era in grado di svolgere compiti nella società: il tipo border line che, se non identificato, poteva sfuggire e proliferare pericolosamente, minacciando la salute mentale del Paese (secondo Goddard il moron era omozigote recessivo per il gene dell'intelligenza da lui immaginato; e quelli con intelligenza bassa ma normale eterozigoti: tutto facile).
Il programma eugenetico di Goddard non poteva poi trascurare il problema dell'afflusso di nuovi moron per immigrazione (e manco a dirlo trovò ben presto sponde favorevoli in campo politico): ecco il senso della sua presenza ad Ellis Island.
Quei primi assaggi del 1912 furono la premessa per il suo esperimento più celebre:
ottenuti ben presto adeguati finanziamenti, nel 1913 inviò due sue assistenti che trascorsero alcuni mesi ad Ellis Island per sottoporre sistematicamente al test gli immigranti appena sbarcati, per quattro etnie critiche nei flussi migratori. Goddard preferiva che fossero donne a somministrare le prove perchè, secondo lui, avevano una particolare sensibilità nell'individuare a vista il debole di mente (un filino di pregiudizio voi lo notate ?). Pietosamente, non ci addentreremo nel metodo di campionamento, ma i risultati, per tutti e quattro i gruppi scelti per l'esame, furono stupefacenti: l' 83 % degli ebrei, l' 80 % degli ungheresi, il 79 % degli italiani e l' 87 % dei russi erano moron.
E chi l'avrebbe mai detto che quattro nazionalità su quattro fossero composte per 4/5 da deficienti ?
I gruppi politici favorevoli a limitazioni dell'immigrazione esultarono soprattutto per il risultato degli ebrei, sgradevoli ma, secondo il luogo comune, intelligenti; c'era ora un appiglio per precludere l'accesso anche a questo gruppo fastidioso. Goddard, per la verità, si lasciò sfiorare per un attimo dal dubbio che forse c'era qualcosa che non andava nel metodo; poi si scrollò di dosso le perplessità ed accettò i risultati come scientificamente validi.
In verità, si capì poi che gli aggiustamenti che aveva apportato al test di Binet per adattarlo ai suoi scopi lo portavano a sottostimare notevolmente l'età mentale degli esaminati. Ma ciò che sconvolge di più nel "rigore" dell'esperimento, è l'aperta sfida al buon senso: Binet somministrava il suo test ai ragazzi a scuola; nè Goddard, nè le sue gentili collaboratrici dubitarono davvero mai che una persona che ha appena attraversato l'Oceano passando settimane nella stiva di una nave sovraffollata, impaurita, arrivata in un paese nuovo, probabilmente senza aver mai tenuto una matita in mano, possa andare a segno quando una gentile signora gli chiede di disegnare a memoria su un foglio una figura mostratagli poco prima ? O di dire 60 parole qualsiasi nella propria lingua ? O anche solo di dire che giorno è ? (Curiosamente, non furono mai sottoposti a test i passeggeri dei ponti di prima classe).
Ci rimane ancora un velo di curiosità sullo scopo per il quale le donne mettano a frutto, nella loro vita extrascientifica, la loro straordinaria abilità nell'individuare a vista il "debole di mente"; ma temo che sia una di quelle cose che noi uomini faremmo meglio a non domandarci.
Da Goddard in avanti, la via è tutta in discesa: Lewis Terman, dell'Università di Stanford, ampliò il test di Binet, portando gli esercizi da 54 a 90 ed estendendolo agli "adulti superiori"; ed introdusse la correzione per l'età in modo da standardizzare i punteggi con media di 100 e deviazione standard 15; lo Stanford-Binet divenne il riferimento per tutte le edizioni successive dei test Q.I. Inoltre propagandò attivamente l'applicazione sistematica del test a tutti gli studenti. Con trenta minuti e cinque test si poteva finalmente marchiare il destino educativo di un bambino per tutta la vita.
La visione ideale di Terman era un "nuovo" ordine sociale con assegnazione di mansioni lavorative rigidamente affidata al valore intellettivo di ciascuno, e quindi una definizione (o piuttosto una conferma) delle classi sociali su basi oggettive e scientifiche (e, ça va sans dir, ereditarie). Il suo innatismo poggiava esattamente sugli stessi errori di Goddard: necessità non dimostrata dell'ereditabilità dell'intelligenza; ed estrapolazione non valida dalle cause genetiche da casi di ritardo mentale patologico alla variazione ordinaria. L'ampia estensione dei dati raccolti da Terman, da una parte segnò un punto a favore delle donne: "sorprendentemente", ragazze cresciute nello stesso ambiente sociale e culturale dei loro fratelli, ottenevano risultati identici a quelli dei maschi; posto che fino ad allora il tema della discussione antropologica era stato se le donne andassero collocate un gradino sopra o un gradino sotto rispetto ai negri, Terman biasimò lo spreco di talento che la società stava perpetrando, relegando la sua parte femminile a ruoli secondari e sottovalutati; dall'altra, non altrettanta fortuna ebbereo negri e ispanici, i cui valori medi di Q.I. risultarono più bassi rispetto agli americani bianchi. Non bisogna sforzarsi per intuire quale potesse esserne la spiegazione: intelligenza innata ereditaria ineluttabilmente inferiore. Possiamo forse pensare che si prendessero in considerazione le differenze nelle condizioni sociali, le possibilità di accesso a scuola e cultura, la prosperità delle famiglie ?
[Per dare un'idea della propensione generale a tenere conto delle condizioni ambientali da parte degli scienziati dell'epoca, vale la pena di raccontare un esempio che con il Q.I. non ha nulla a che fare: agli albori del '900, il Governo degli Stati Uniti decise di finanziare uno studio per individuare le cause della pellagra, una grave malattia che oggi sappiamo essere una carenza di niacina (una vitamina del gruppo B), dovuta quindi a scarsità di cibi freschi: era molto diffusa anche in Italia tra le popolazioni che avevano la polenta come alimento pressochè esclusivo. Ebbene, dopo un giro di indagini nel sud degli Stati Uniti, la commissione medica concluse che la pellagra doveva essere una malattia ereditaria, poichè si ripresentava con una certa regolarità tra membri delle stesse famiglie: il dettaglio che anche povertà e malnutrizione fossero caratteristiche condivise all'interno delle famiglie sfuggì del tutto all'ossevazione].
In verità, proprio per la vastità dei dati raccolti, Terman dovette fare i conti anche con qualche dettaglio fastidioso: ad esempio, fu esaminato anche un campione di venti ragazzi cresciuti in un orfanotrofio, i cui punteggi di Q.I. erano decisamente più bassi della media. Forse che la situazione ambientale di essere cresciuti in assenza dei genitori...? Ma no, un buon innatista non si arrende per così poco: "...l'orfanotrofio in questione è ragionevolmente buono e offre un ambiente che è stimolante per un normale sviluppo mentale come la vita familiare che si conduce nelle classi medie." E quindi: "La maggior parte, sebbene non tutti per ammissione generale, sono bambini di classi sociali inferiori." (1916) E pertanto portano le tare ereditarie che hanno confinato i loro antenati ad un basso livello sociale (il tutto per pura congettura e senza aver minimamente verificato).
E se tutto ciò vi pare orribile, sappiate che il peggio deve ancora venire.
giovedì 16 settembre 2010
1974, esterno giorno. Nitido.
Ho recuperato da qualche parte nella rete una breve intervista a Pier Paolo Pasolini che ho visto qualche giorno fa tra le chicche che ogni tanto trasmette Rai Extra.
E' del 1974, ma le considerazioni finali sull'appiattimento culturale dell'Italia sarebbero più attuali oggi che allora.
Il fatto è che Pasolini si dimostra un inguaribile ottimista, affermando che quando ce ne accorgeremo sarà troppo tardi. L'annichilimento culturale del paese si è già completato da un pezzo e sembra che nessuno si sia mai accorto di nulla.
E' del 1974, ma le considerazioni finali sull'appiattimento culturale dell'Italia sarebbero più attuali oggi che allora.
Il fatto è che Pasolini si dimostra un inguaribile ottimista, affermando che quando ce ne accorgeremo sarà troppo tardi. L'annichilimento culturale del paese si è già completato da un pezzo e sembra che nessuno si sia mai accorto di nulla.
Bello e sfortunato
Hippocampus zosterae è la più piccola specie vivente di cavalluccio marino, raggiungendo una lunghezza massima di 2,5 cm; vive solo nel Golfo del Messico, ed è probabilmente la specie più fortemente minacciata di estinzione a causa del gigantesco sversamento di petrolio, poichè ha un'areale di distribuzione limitato, scarsissime capacità di migrazione, vive prevalentemente sulle alghe galleggianti, quindi vicino alla superficie, dove si stratificano sia il petrolio, sia i tensioattivi usati per disperderlo, sia il fuoco con cui si è tentato di ridurre l'inquinamento. Come se non bastasse, il disastro della piattaforma della BP è avvenuto nel pieno della stagione riproduttiva, e per di più H. zosterae è rigidamente monogamo, quindi basta che muoia un elemento della coppia perchè anche l'altro non si riproduca più. Lo stiamo perdendo.
domenica 12 settembre 2010
Uso e abuso dei test Q.I. - parte 2 - Eredità
La degenerazione nell'uso del Quoziente di Intelligenza successiva alla morte di Binet nel 1911, poggia in modo cruciale sul concetto di ereditarietà ed innatismo, quindi penso che sia necessario fare una specie di discorso propedeutico per chiarirci le idee ed avere gli strumenti per un esame critico di ciò che andremo a raccontare nei capitoli successivi.
Giusto nel 1900 vennero scoperti i cromosomi, ed anche ri-scoperti e portati all'attenzione i lavori di Gregor Mendel sugli incroci di piselli odorosi (che penso tutti conoscerete ormai a memoria), pubblicati qualche decennio prima nell'indifferenza generale: la genetica è nata, ma finchè è nella culla, essa non ha ancora le idee molto chiare: i primi decenni del '900 furono quelli della clamorosa fiducia nelle rigorose leggi dell'ereditarietà, e si riteneva che tutta la variazione osservabile in natura fosse riconducibile alla semplice segregazione di determinanti mendeliani.
Si noti anche, come curiosità a margine, che le leggi di Mendel furono prese inizialmente come una secca smentita del darwinismo, poichè "apparve chiaro" che dovevano essere improvvise mutazioni a segregazione mendeliana a determinare cambiamenti evolutivi istantanei, e non la lenta, costante e graduale azione della selezione naturale.
In questo clima di confuso e frenetico entusiasmo, non deve stupire se H.H. Goddard ritenne di avere colto, nel 1914, nelle genealogie delle famiglie da lui esaminate, un gene dell'intelligenza (sic !), naturalmente a segregazione mendeliana semplice, il cui variante recessivo era il "debole di mente" che lui stesso aveva battezzato moron, l'ossessione di tutta la sua vita.
Come dire: se l'unico strumento che sai usare è un martello, tutto ti sembrerà un chiodo.
La cieca fiducia nell'innatismo e nella determinazione strettamente genetica di tutta la variazione umana, compreso lo status culturale e sociale, conobbe (almeno negli Stati Uniti) un momento di parziale declino negli anni 30, con la Grande Depressione. Quando anche i professori universitari diventavano poveri e si trovavano a fare la coda per il pane, essi divenivano improvvisamente restii ad affermare che l'essere poveri fosse il risultato di innata stupidità determinata geneticamente.
Sic transit gloria mundi.
Cominciamo a mettere un pò di ordine.
Se io sono di gruppo sanguigno A, non esiste nessuna condizione ambientale che possa farmi diventare di gruppo B. I gruppi sanguigni sono determinati geneticamente e sono immodificabili. Ma un'espressione dei caratteri così univoca ed invariante è l'eccezione piuttosto che la regola. Sappiamo che in realtà le condizioni che incontriamo nella nostra infanzia, la nostra alimentazione, le nostre attività e tutto ciò che complessivamente chiamiamo il nostro ambiente, possono avere un ruolo più o meno pesante nel definire la nostra struttura corporea o, tanto per dire, il nostro tasso di colesterolo, sebbene essi siano soggetti a determinanti genetici. Tuttavia, anche affermazioni del tipo: "il peso corporeo è determinato per il 40 % dai geni, e per il 60 % dall'ambiente" sono semplicistiche e del tutto inadeguate. In primo luogo, in molti casi alcuni genotipi sono più suscettibili di altri alle variazioni dell'ambiente; e vicecersa, ci sono condizioni ambientali che appiattiscono le differenze fra genotipi, e condizioni che invece le esaltano. Quindi, in un certo senso, l'incidenza dell'effetto dell'ambiente è determinata dai geni, e quella del genotipo è determinata dalle condizioni ambientali: si tratta di un'interazione la cui complessità è in realtà irriducibile, e geni ed ambiente non sono trattabili come cause separate dell'espressione di ciascun carattere.
Inoltre, sebbene i miei vecchi compagni di scuola mi trovino identico ai bei tempi (fingendo benevolmente di non notare gli oltre 10 kg di me che a scuola non sono mai andati), quasi nessuna delle mie molecole di oggi è la stessa di quando ero sui banchi. Noi siamo in continua trasformazione e l'ambiente modifica nel tempo la sua interazione con i nostri geni; e lo stesso tipo di variazione nelle condizioni ambientali può produrre effetti molto diversi se si verifica in momenti diversi della nostra esistenza. La definizione della nostra individualità comprende anche una componente storica.
Le cose si ingarbugliano ulteriormente se si tenta di definire l'ereditarietà di tratti in qualche modo legati al comportamento. I bambini imparano molto per imitazione, ed i modelli che hanno più costantemente a portata di mano sono i genitori, o i nonni. Abbiamo quindi un'ulteriore componente ambientale e non genetica, che però, quando andrò a studiare la variazione di quel carattere, mi risulterà in effetti ereditaria, complicandomi maledettamente le cose.
Insisto molto su questi punti per due motivi: il primo è che il QI è una caratteristca estremamente sfuggente, essendo una misura di un qualche cosa che non si sa bene cosa sia, e probabilmente rappresenta una miscellanea di attitudini diverse, non si sa come e quanto correlate e/o interagenti fra di loro; quindi una stima della sua ereditabilità richiederebbe una prudenza estrema nella valutazione di tutte le variabili in gioco, in particolare l'eredità familiare culturale non genetica; e vedremo invece con quanta superficialità la questione sia stata affrontata nell'ultimo secolo. Il secondo è che dovremmo tenere sempre bene in mente che genetico non significa affatto immutabile o fissato una volta per tutte. Ci sono milioni di persone che hanno difetti della vista determinati geneticamente e vedono correttamente attraverso un paio di semplici lenti, così come altrettante persone correggono con appositi esercizi ginnici piccole disproporzioni del proprio corpo o imperfezioni della propria colonna vertebrale, tanto per fare qualche esempio a casaccio.
C'è però un ultimo argomento ancora da affrontare, che è fondamentale per le teorie razziali del QI (poi giuro che la smetto). Prendo pari pari un esempio di Gould.
Supponiamo che io mi metta a misurare la statura di due popolazioni, diciamo di una provincia europea e di un gruppo di villaggi poveri dell'Africa centrale. Diciamo che nella prima popolazione troverò una statura media di 1,75 m, e nella seconda di 1,65 m. Naturalmente all'interno di ciascuna popolazione ci sarà diversità di statura, presumibilmente con una elevata frequenza di individui vicini alla media e frequenze via via decrescenti di soggetti un pò più alti o un pò più bassi, fino all'estrema rarità di soggetti altissimi o bassissimi; se vado a controllare quanto la statura è ereditabile, troverò che genitori alti tenderanno ad avere figli alti e genitori bassi tenderanno ad avere figli bassi; e probabilmente troverò anche che il tipo di relazione che lega la statura dei genitori con quella dei figli è grossomodo la stessa nelle due popolazioni.
Avrò allora stabilito (sì, ho fatto il furbo: lo sapevamo già) che la statura è un carattere ereditario con forte determinazione genetica (oltre il 90 %). Quindi posso dedurre che i 10 cm di differenza nella statura media delle due popolazioni siano determinati geneticamente ?
La risposta è no.
Se potessi trasferire le due popolazioni l'una nell'ambiente dell'altra, può darsi che gli abitanti dei villaggi poveri, magari con un'alimentazione più completa, raggiungano, nella generazione successiva, la stessa statura degli europei; oppure può darsi che diventino ancora più alti; oppure la differenza attuale potrebbe mantenersi inalterata. Molto semplicemente: non lo so. Conoscere le cause della variazione entro gruppi non mi permette di fare nessuna assunzione sulle cause della variazione tra gruppi.
La qualità principale di un esempio dovrebbe essere la semplicità, e quindi il caso presentato dovrebbe essere risultato lampante; tuttavia, si presentano spesso nella pratica schemi di variazione più complessi che possono rendere facile scivolare su quello che appare intuitivo a prima vista, inducendoci ad errori logici grossolani.
Però chiunque abbia un pò di pratica nella sperimentazione adopera quasi quotidianamente questo criterio fondamentale di distinzione della variazione tra ed entro gruppi (spesso in modo talmente routinario ed automatico da non rifletterci neanche troppo su), salvo utilizzarlo nella prospettiva inversa.
Tenterò ora l'impresa di fare un semplice discorsino di statistica senza utilizzare neanche una formula matematica.
Supponiamo che io stia per mettere in commercio la nuovissima crema anticellulite Leggiadry, a base di Olio di Fegato di Libellula. Con una presentazione così, sono già certo di avere code, ressa e sgomitamenti davanti a tutti i cosmeticivendoli, ma immaginiamo che io sia un produttore inusitatamente onesto e mi prenda lo scrupolo non necessario di verificare se funziona davvero.
Una volta stabilita una scala di misura dei sintomi di cellulite, in modo da poterli esprimere con un numero, prenderò due campioni sufficientemente ampi di persone, uno dei quali sarà stato trattato con il mio prodotto, e l'altro no (gruppo di controllo). Se trovo una certa differenza nella media dei sintomi fra i due gruppi, come faccio a stabilire se essa è insignificante, casuale, o dovuta all'efficacia dell'applicazione ?
In genere il sistema utilizzato si basa sull'analisi della varianza: si calcola la variazione esistente all'interno dei gruppi, e la si confronta con la differenza tra i gruppi. Se quest'ultima non si differenzia troppo dalla variazione entro, non posso sostenere di avere dimostrato che la mia crema funzioni.
Vale a dire: in questo caso, sono io che introduco artificialmente una causa di variazione tra gruppi; e solo se la variazione tra gruppi risulta chiaramente una cosa diversa dalla variazione entro, la mia suddivisione in gruppi sarà legittima. Altrimenti i gruppi (trattato e non) rimarranno indistinguibili, cioè Leggiadry non avrà funzionato (ma tanto la venderò lo stesso).
E' curioso che lo stesso principio (le cause di variazione tra gruppi sono diverse da quelle entro gruppi) venga dato per scontato quando viene applicato quasi quotidianamente a fini sperimentali, e poi diventi così inafferrabile ed invisibile quando si elaborano teorie razziali: ma vedremo che si tratta spesso di cecità volontaria.
E con questi appunti nel taschino, siamo finalmente pronti per affrontare Goddard e Terman, Jensen e Murray...
Giusto nel 1900 vennero scoperti i cromosomi, ed anche ri-scoperti e portati all'attenzione i lavori di Gregor Mendel sugli incroci di piselli odorosi (che penso tutti conoscerete ormai a memoria), pubblicati qualche decennio prima nell'indifferenza generale: la genetica è nata, ma finchè è nella culla, essa non ha ancora le idee molto chiare: i primi decenni del '900 furono quelli della clamorosa fiducia nelle rigorose leggi dell'ereditarietà, e si riteneva che tutta la variazione osservabile in natura fosse riconducibile alla semplice segregazione di determinanti mendeliani.
Si noti anche, come curiosità a margine, che le leggi di Mendel furono prese inizialmente come una secca smentita del darwinismo, poichè "apparve chiaro" che dovevano essere improvvise mutazioni a segregazione mendeliana a determinare cambiamenti evolutivi istantanei, e non la lenta, costante e graduale azione della selezione naturale.
In questo clima di confuso e frenetico entusiasmo, non deve stupire se H.H. Goddard ritenne di avere colto, nel 1914, nelle genealogie delle famiglie da lui esaminate, un gene dell'intelligenza (sic !), naturalmente a segregazione mendeliana semplice, il cui variante recessivo era il "debole di mente" che lui stesso aveva battezzato moron, l'ossessione di tutta la sua vita.
Come dire: se l'unico strumento che sai usare è un martello, tutto ti sembrerà un chiodo.
La cieca fiducia nell'innatismo e nella determinazione strettamente genetica di tutta la variazione umana, compreso lo status culturale e sociale, conobbe (almeno negli Stati Uniti) un momento di parziale declino negli anni 30, con la Grande Depressione. Quando anche i professori universitari diventavano poveri e si trovavano a fare la coda per il pane, essi divenivano improvvisamente restii ad affermare che l'essere poveri fosse il risultato di innata stupidità determinata geneticamente.
Sic transit gloria mundi.
Cominciamo a mettere un pò di ordine.
Se io sono di gruppo sanguigno A, non esiste nessuna condizione ambientale che possa farmi diventare di gruppo B. I gruppi sanguigni sono determinati geneticamente e sono immodificabili. Ma un'espressione dei caratteri così univoca ed invariante è l'eccezione piuttosto che la regola. Sappiamo che in realtà le condizioni che incontriamo nella nostra infanzia, la nostra alimentazione, le nostre attività e tutto ciò che complessivamente chiamiamo il nostro ambiente, possono avere un ruolo più o meno pesante nel definire la nostra struttura corporea o, tanto per dire, il nostro tasso di colesterolo, sebbene essi siano soggetti a determinanti genetici. Tuttavia, anche affermazioni del tipo: "il peso corporeo è determinato per il 40 % dai geni, e per il 60 % dall'ambiente" sono semplicistiche e del tutto inadeguate. In primo luogo, in molti casi alcuni genotipi sono più suscettibili di altri alle variazioni dell'ambiente; e vicecersa, ci sono condizioni ambientali che appiattiscono le differenze fra genotipi, e condizioni che invece le esaltano. Quindi, in un certo senso, l'incidenza dell'effetto dell'ambiente è determinata dai geni, e quella del genotipo è determinata dalle condizioni ambientali: si tratta di un'interazione la cui complessità è in realtà irriducibile, e geni ed ambiente non sono trattabili come cause separate dell'espressione di ciascun carattere.
Inoltre, sebbene i miei vecchi compagni di scuola mi trovino identico ai bei tempi (fingendo benevolmente di non notare gli oltre 10 kg di me che a scuola non sono mai andati), quasi nessuna delle mie molecole di oggi è la stessa di quando ero sui banchi. Noi siamo in continua trasformazione e l'ambiente modifica nel tempo la sua interazione con i nostri geni; e lo stesso tipo di variazione nelle condizioni ambientali può produrre effetti molto diversi se si verifica in momenti diversi della nostra esistenza. La definizione della nostra individualità comprende anche una componente storica.
Le cose si ingarbugliano ulteriormente se si tenta di definire l'ereditarietà di tratti in qualche modo legati al comportamento. I bambini imparano molto per imitazione, ed i modelli che hanno più costantemente a portata di mano sono i genitori, o i nonni. Abbiamo quindi un'ulteriore componente ambientale e non genetica, che però, quando andrò a studiare la variazione di quel carattere, mi risulterà in effetti ereditaria, complicandomi maledettamente le cose.
Insisto molto su questi punti per due motivi: il primo è che il QI è una caratteristca estremamente sfuggente, essendo una misura di un qualche cosa che non si sa bene cosa sia, e probabilmente rappresenta una miscellanea di attitudini diverse, non si sa come e quanto correlate e/o interagenti fra di loro; quindi una stima della sua ereditabilità richiederebbe una prudenza estrema nella valutazione di tutte le variabili in gioco, in particolare l'eredità familiare culturale non genetica; e vedremo invece con quanta superficialità la questione sia stata affrontata nell'ultimo secolo. Il secondo è che dovremmo tenere sempre bene in mente che genetico non significa affatto immutabile o fissato una volta per tutte. Ci sono milioni di persone che hanno difetti della vista determinati geneticamente e vedono correttamente attraverso un paio di semplici lenti, così come altrettante persone correggono con appositi esercizi ginnici piccole disproporzioni del proprio corpo o imperfezioni della propria colonna vertebrale, tanto per fare qualche esempio a casaccio.
C'è però un ultimo argomento ancora da affrontare, che è fondamentale per le teorie razziali del QI (poi giuro che la smetto). Prendo pari pari un esempio di Gould.
Supponiamo che io mi metta a misurare la statura di due popolazioni, diciamo di una provincia europea e di un gruppo di villaggi poveri dell'Africa centrale. Diciamo che nella prima popolazione troverò una statura media di 1,75 m, e nella seconda di 1,65 m. Naturalmente all'interno di ciascuna popolazione ci sarà diversità di statura, presumibilmente con una elevata frequenza di individui vicini alla media e frequenze via via decrescenti di soggetti un pò più alti o un pò più bassi, fino all'estrema rarità di soggetti altissimi o bassissimi; se vado a controllare quanto la statura è ereditabile, troverò che genitori alti tenderanno ad avere figli alti e genitori bassi tenderanno ad avere figli bassi; e probabilmente troverò anche che il tipo di relazione che lega la statura dei genitori con quella dei figli è grossomodo la stessa nelle due popolazioni.
Avrò allora stabilito (sì, ho fatto il furbo: lo sapevamo già) che la statura è un carattere ereditario con forte determinazione genetica (oltre il 90 %). Quindi posso dedurre che i 10 cm di differenza nella statura media delle due popolazioni siano determinati geneticamente ?
La risposta è no.
Se potessi trasferire le due popolazioni l'una nell'ambiente dell'altra, può darsi che gli abitanti dei villaggi poveri, magari con un'alimentazione più completa, raggiungano, nella generazione successiva, la stessa statura degli europei; oppure può darsi che diventino ancora più alti; oppure la differenza attuale potrebbe mantenersi inalterata. Molto semplicemente: non lo so. Conoscere le cause della variazione entro gruppi non mi permette di fare nessuna assunzione sulle cause della variazione tra gruppi.
La qualità principale di un esempio dovrebbe essere la semplicità, e quindi il caso presentato dovrebbe essere risultato lampante; tuttavia, si presentano spesso nella pratica schemi di variazione più complessi che possono rendere facile scivolare su quello che appare intuitivo a prima vista, inducendoci ad errori logici grossolani.
Però chiunque abbia un pò di pratica nella sperimentazione adopera quasi quotidianamente questo criterio fondamentale di distinzione della variazione tra ed entro gruppi (spesso in modo talmente routinario ed automatico da non rifletterci neanche troppo su), salvo utilizzarlo nella prospettiva inversa.
Tenterò ora l'impresa di fare un semplice discorsino di statistica senza utilizzare neanche una formula matematica.
Supponiamo che io stia per mettere in commercio la nuovissima crema anticellulite Leggiadry, a base di Olio di Fegato di Libellula. Con una presentazione così, sono già certo di avere code, ressa e sgomitamenti davanti a tutti i cosmeticivendoli, ma immaginiamo che io sia un produttore inusitatamente onesto e mi prenda lo scrupolo non necessario di verificare se funziona davvero.
Una volta stabilita una scala di misura dei sintomi di cellulite, in modo da poterli esprimere con un numero, prenderò due campioni sufficientemente ampi di persone, uno dei quali sarà stato trattato con il mio prodotto, e l'altro no (gruppo di controllo). Se trovo una certa differenza nella media dei sintomi fra i due gruppi, come faccio a stabilire se essa è insignificante, casuale, o dovuta all'efficacia dell'applicazione ?
In genere il sistema utilizzato si basa sull'analisi della varianza: si calcola la variazione esistente all'interno dei gruppi, e la si confronta con la differenza tra i gruppi. Se quest'ultima non si differenzia troppo dalla variazione entro, non posso sostenere di avere dimostrato che la mia crema funzioni.
Vale a dire: in questo caso, sono io che introduco artificialmente una causa di variazione tra gruppi; e solo se la variazione tra gruppi risulta chiaramente una cosa diversa dalla variazione entro, la mia suddivisione in gruppi sarà legittima. Altrimenti i gruppi (trattato e non) rimarranno indistinguibili, cioè Leggiadry non avrà funzionato (ma tanto la venderò lo stesso).
E' curioso che lo stesso principio (le cause di variazione tra gruppi sono diverse da quelle entro gruppi) venga dato per scontato quando viene applicato quasi quotidianamente a fini sperimentali, e poi diventi così inafferrabile ed invisibile quando si elaborano teorie razziali: ma vedremo che si tratta spesso di cecità volontaria.
E con questi appunti nel taschino, siamo finalmente pronti per affrontare Goddard e Terman, Jensen e Murray...
venerdì 10 settembre 2010
Core de mamma
Interrompo per un attimo la saga dei test del Quoziente di Intelligenza, che riprenderà prestissimo, a favore dell'attualità.
Si ha una sensazione di strana sorpresa quando idee che si sono rimuginate spesso e senza particolare costrutto, nè intenzioni costruttive, si ritrovano come oggetto di ricerche scientifiche.
Avevo sempre avuto la sensazione che le donne tendessero ad assommare al loro proverbiale altruismo verso i membri della propria famiglia, una certa indifferenza, per non dire cinismo, nei confronti di tutto il resto del mondo qualificabile come 'estraneo', mentre gli uomini mi paiono più propensi a tenere conto di tutto l'insieme, se non dell'umanità, almeno della loro collettività in senso più generale; ed avevo anche idea che questa differenza fosse più o meno universale, e non legata al particolare substrato della cultura italica.
Io l'ho sempre considerata come una dimostrazione che nessuno di noi ha capacità illimitate: lo tsunami dell'amore materno comporterà aree di siccità da qualche altra parte, come una sorta di compensazione; per i figli ci si butta nel fuoco, ai vicini si presta il sale, quelli di un altro quartiere possono andare a morire ammazzati in blocco (più o meno: si tratta ovviamente di generalizzazioni che non possono essere altro che molto approssimative). Non mi sono mai interrogato troppo sulle possibili cause di tale (presunto) menefreghismo sociale delle gentili signore, ma sarei stato incline ad identificarle nella differente educazione che hanno bambini e bambine.
Ora scopro che qualcuno ha studiato le origini del fenomeno e quindi questa differenza nell'identificazione di 'amici' e 'indifferenti' tra uomini e donne sembra reale (o quantomeno c'è un paio di altri tizi che la vede come me).
Stando ad un articolo recente pubblicato sulla rivista Evolution, di cui, al solito, è liberamente leggibile solo il riassunto, e quindi bisogna fidarsi un pò delle recensioni, saremmo di fronte nientemeno che al solito gene egoista in uno dei suoi più riusciti travestimenti.
Si tratterebbe di "imprinting genetico", un complesso meccanismo di regolazione per cui, a seconda del nostro sesso, siamo in grado (ovviamente inconsapevolmente) di attivare preferenzialmente la nostra copia di origine paterna o materna dello stesso gene. E le donne sarebbero portatrici di geni che inducono comportamenti egoistici nei confronti degli estranei della propria comunità, mentre gli uomini sarebbero più portati ad agire nell'interesse collettivo: dentro ciascuno di noi queste tendenze sarebbero in costante conflitto, ma con prevalenza della tendenza materna nelle femmine e di quella paterna nei maschi.
Ma perchè mai si sarebbero sviluppate queste differenze ?
Perchè, storicamente, le donne hanno avuto una maggiore mobilità sociale rispetto agli uomini (in senso orizzontale, ovviamente, giammai verticale: non sia mai detto che una donna possa diventare capo - villaggio): a seguito del matrimonio, erano di solito le donne a spostarsi da un gruppo familiare all'altro, da un clan all'altro, da una tribù all'altra; e quindi si trovavano a vivere un una comunità con la quale non avevano legami di parentela (e quindi l'astuto gene egoista le induce a concentrare gli slanci altruistici solo verso la ristretta cerchia utilitaria dei parenti e vicini più stretti, in primis ovviamente i figli). Viceversa gli uomini, spostandosi meno da un gruppo all'altro, tendevano ad essere, dopo un pò di generazioni, più 'imparentati' un pò con tutti e quindi ad avere copie dei propri geni sparse qua e là nella comunità.
Sulle reali cause genetiche vorrei vederci più chiaro (ormai avrete capito che di questi determinismi rigidi non mi fido un gran che); però la spiegazione storica mi pare affascinante.
E soprattutto è stuzzicante l'idea di avere sempre appollaiati sulle spalle, da una parte l'angioletto maschile che ti invoglia a fare il bene della collettività, e dall'altra il diavoletto femminile che ti induce ad infischiartene.
Stella
Marì - Stellina nostra che magari fossi nei cieli, che il Signore ti richiami a sè al più presto, ha annunciato oggi di volere eliminare una annosa piaga sociale: i precari.
Ah, eterna confusione tra sostanza (sostantivo) ed apparenza, attribuzione (aggettivo); tra essere ed apparire; tra causa ed effetto; tra faccia e specchio; tra essere un Ministro o una che passa di lì per caso.
La piaga sociale non sono i precari, è la precarietà. E adesso chi glie lo spiega ? Più difficile: chi glie lo fa capire ?
Bondi in versi ?
Capezzone con la logica ?
Marcegaglia con la pratica ?
Bonanni e Angeletti dietro lauto compenso ?
Il Partito Democratico (sempre coerente con se stesso) con l'assenza ?
sabato 4 settembre 2010
Uso e abuso dei test Q.I. - parte 1 - Genesi
L'avere nominato il professor Richard Lynn (Università dell'Ulster: si occupa principalmente di Quoziente di Intelligenza e differenze fra razze. Ha pubblicato nel 2002 QI e ricchezza delle nazioni, ed ha fatto un pò di rumore anche in Italia all'inizio di quest'anno pubblicando uno studio dal quale risultava che il QI nell'Italia meridionale è più basso che nel nord, e la causa era attribuita alla mescolanza con razze meno intelligenti, quali arabi ed africani: tanto per dare un'idea del personaggio) in un post precedente, mi ha fornito lo spunto per riprendere in mano Intelligenza e pregiudizio, senz'altro il mio libro preferito di sempre, e potere apprezzare ancora, a distanza di anni, il valore e la forza immutati delle argomentazioni di S.J. Gould su determinismo biologico e "razzismo scientifico". Il fatto che quel libro, la cui ultima edizione risale a una quindicina di anni fa, rimanga ancora così vivo ed attuale, nasconde in realtà anche qualcosa di triste e sconfortante: le cicliche ondate di popolarità di pubblicazioni tendenti ad ordinare i gruppi umani secondo una scala di valore, nella quale invariabilmente il posto più alto spetta al gruppo al quale appartiene l'autore della pubblicazione, possono essere affrontate e smontate sempre con le stesse, e del tutto adeguate ed efficaci, armi di logica e conoscenza. Eppure, invariabilmente, esse ritornano tali e quali a distanza di qualche anno. Non alla luce di chissà quali nuovi dati o clamorose svolte innovative, o di perfezionamenti procedurali mai messi in atto prima, ma sempre rimasticando gli stessi concetti e riproponendo sempre gli stessi errori metodologici ed interpretativi; e puntualmente ritornano a fare breccia nell'opinione pubblica.
Gould scrive, nell'introduzione: "Quale argomentazione contro la possibilità di mutamenti sociali potrebbe essere più cinicamente probante dell'affermazione secondo cui l'ordine sociale prestabilito, con alcuni gruppi ai vertici e gli altri in basso, esiste in quanto esatto riflesso delle innate ed immutabili capacità intellettuali degli individui così classificati ?"
Ci armiamo di logica, conoscenza e ragionamento e riusciamo molto agevolmente a spegnere il focolaio (poichè si mostra facilmente, per tornare alla citazione qui sopra, che quelle capacità potrebbero essere innate solo in piccola parte, non essere affatto immutabili, e che il metodo di misura e classificazione è improprio), ma l'incendio tornerà a divampare ancora tra qualche tempo chiamandoci di nuovo all'opera. Nel mio piccolo, non mi stancherò di contribuire a spegnere questi fuochi, ma riusciremo mai a costituire nella nostra società gli anticorpi che possano metterci definitivamente al riparo da queste cicliche eruzioni di pseudoscienza razzista ? Non sarebbe affatto difficile, eppure...
Eppure prevale, in primo luogo nei periodi di crisi, la spinta a conservare egoisticamente i propri privilegi, per quanto minuscoli essi possano essere: perchè dissipare risorse per favorire l'integrazione e tutelare i settori più deboli della società, se questi sono composti da individui intrinsecamente ed irrecuperabilmente peggiori, fatti con cervelli scadenti e geni cattivi ?
Un tempo era compito della Chiesa (e delle religioni in genere) quello di conservare e perpetuare lo status quo sociale: i nobili sono nobili ed i servi della gleba sono servi perchè Dio così vuole, e le fiamme dell'inferno accoglieranno chi volesse tentare di stravolgere l'ordine costituito. E che oggi sia la scienza ad assumersi lo stesso ruolo mi fa veramente cascare le braccia.
Come si vede l'argomento è vasto, e richiederà certamente diversi capitoli. Cominciamo quindi dalle origini.
Poniamo l'inizio della nostra storia al 1904, quando il Ministero della Pubblica Istruzione di Francia incaricò Alfred Binet, direttore del laboratorio di psicologia alla Sorbona, di studiare qualche tecnica per individuare precocemente bambini con difficoltà di apprendimento che potevano avere bisogno di percorsi educativi particolari. Binet aveva praticato la craniometria, scienza principe dell'antropologia ottocentesa, ricavandone frustrazione per l'inconsistenza dei risultati ottenibili e per il peso che il pregiudizio degli sperimentatori poteva avere nell'influenzare i risultati stessi (una volta o l'altra bisognerà parlare degli orrori dell'antropologia del XIX secolo, dai craniometristi a Cesare Lombroso: se ne ricaverà un bestiario persino spassoso - se non ci avesse lasciato una fastidiosa eredità di luoghi comuni che imperversano tuttora -).
Per questo incarico Binet scelse volutamente un approccio pragmatico e strettamente empirico: mise insieme una lunga serie di piccoli problemi, in sequenze di difficoltà crescente, legati a capacità di base come "direzione (ordinare), comprensione, capacità inventiva, critica (correggere)...", escludendo esplicitamente dal test tutte le capacità apprese, come la lettura o la scrittura. I livelli crescenti di difficoltà corrispondevano ad età teoriche alle quali un bambino normale dovrebbe essere in grado di risolvere quel tipo di problemi.
La serie di test permetteva di ottenere una "età mentale" (il livello oltre il quale il bambino non era più in grado di andare avanti a risolvere quesiti), che Binet sottraeva dalla reale età cronologica. Fu il tedesco Stern, nel 1912, che apportò la giusta correzione di dividere, e non sottrarre, l'età mentale per quella cronologica, varando il quoziente di intelligenza (che venne poi moltiplicato per 100 per eliminare i decimali, e diventò in realtà, a rigore di termini, una percentuale).
Il senso del lavoro di Binet fu quello di mettere insieme il maggior numero e la maggior varietà possibile di esercizi, per avere un'esplorazione ampia delle capacità generali del bambino, ma era ben cosciente che il numerino che otteneva come risultato del test non era espressione di un'entità reale e unitaria, ma solo un riassunto di una varietà di prestazioni diverse, utile solo per le finalità pratiche che il Ministero gli aveva richiesto. Rifiutò sempre in modo chiaro l'identificazione della misura dell'intelligenza con il risultato del suo test: "Parlando propriamente, la scala non permette una misurazione dell'intelligenza, perchè le qualità intellettuali non sono sovrapponibili, e quindi non possono essere misurate come può essere misurata una superficie..." (1905).
Ancor più importante era lo scopo: individuare i bambini con difficoltà per avviarli a percorsi formativi più adatti (ad esempio con esercizi specifici per migliorare le capacità di attenzione, o con la formazione di apposite classi di 15-20 alunni, contro i 60-80 che erano allora frequenti nelle aule scolastiche dei quartieri più poveri); la valutazione era finalizzata al miglioramento, non doveva diventare un'etichettatura dei bambini meno capaci: l'inventore del test dava per scontato che l'intelligenza (qualunque significato avesse) potesse essere migliorata da un'educazione adeguata, e non poteva essere una quantità fissa e innata, e si compiacque dei buoni risultati ottenuti dai suoi corsi speciali. Ma nello stesso tempo Binet stesso fiutò il pericolo del "marchio indelebile" e mise in guardia da insegnanti che avrebbero potuto trovare una buona scusa ber sbarazzarsi dei bambini che creano problemi, o dal test che diventa una di quelle profezie che si auto-avverano, modificando l'atteggiamento dell'insegnante e quindi dirottando il comportamento e i risultati del bambino.
Vedremo nelle prossime puntate che i suoi presagi nefasti non erano affatto infondati.
Principali fonti bibliografiche, per questo e i prossimi post su questo tema:
- Stephen Jay Gould: Intelligenza e pregiudizio. Il Saggiatore, 1996.
- Richard Lewontin: La diversità umana. Zanichelli, 1987.
Gould scrive, nell'introduzione: "Quale argomentazione contro la possibilità di mutamenti sociali potrebbe essere più cinicamente probante dell'affermazione secondo cui l'ordine sociale prestabilito, con alcuni gruppi ai vertici e gli altri in basso, esiste in quanto esatto riflesso delle innate ed immutabili capacità intellettuali degli individui così classificati ?"
Ci armiamo di logica, conoscenza e ragionamento e riusciamo molto agevolmente a spegnere il focolaio (poichè si mostra facilmente, per tornare alla citazione qui sopra, che quelle capacità potrebbero essere innate solo in piccola parte, non essere affatto immutabili, e che il metodo di misura e classificazione è improprio), ma l'incendio tornerà a divampare ancora tra qualche tempo chiamandoci di nuovo all'opera. Nel mio piccolo, non mi stancherò di contribuire a spegnere questi fuochi, ma riusciremo mai a costituire nella nostra società gli anticorpi che possano metterci definitivamente al riparo da queste cicliche eruzioni di pseudoscienza razzista ? Non sarebbe affatto difficile, eppure...
Eppure prevale, in primo luogo nei periodi di crisi, la spinta a conservare egoisticamente i propri privilegi, per quanto minuscoli essi possano essere: perchè dissipare risorse per favorire l'integrazione e tutelare i settori più deboli della società, se questi sono composti da individui intrinsecamente ed irrecuperabilmente peggiori, fatti con cervelli scadenti e geni cattivi ?
Un tempo era compito della Chiesa (e delle religioni in genere) quello di conservare e perpetuare lo status quo sociale: i nobili sono nobili ed i servi della gleba sono servi perchè Dio così vuole, e le fiamme dell'inferno accoglieranno chi volesse tentare di stravolgere l'ordine costituito. E che oggi sia la scienza ad assumersi lo stesso ruolo mi fa veramente cascare le braccia.
Come si vede l'argomento è vasto, e richiederà certamente diversi capitoli. Cominciamo quindi dalle origini.
Poniamo l'inizio della nostra storia al 1904, quando il Ministero della Pubblica Istruzione di Francia incaricò Alfred Binet, direttore del laboratorio di psicologia alla Sorbona, di studiare qualche tecnica per individuare precocemente bambini con difficoltà di apprendimento che potevano avere bisogno di percorsi educativi particolari. Binet aveva praticato la craniometria, scienza principe dell'antropologia ottocentesa, ricavandone frustrazione per l'inconsistenza dei risultati ottenibili e per il peso che il pregiudizio degli sperimentatori poteva avere nell'influenzare i risultati stessi (una volta o l'altra bisognerà parlare degli orrori dell'antropologia del XIX secolo, dai craniometristi a Cesare Lombroso: se ne ricaverà un bestiario persino spassoso - se non ci avesse lasciato una fastidiosa eredità di luoghi comuni che imperversano tuttora -).
Per questo incarico Binet scelse volutamente un approccio pragmatico e strettamente empirico: mise insieme una lunga serie di piccoli problemi, in sequenze di difficoltà crescente, legati a capacità di base come "direzione (ordinare), comprensione, capacità inventiva, critica (correggere)...", escludendo esplicitamente dal test tutte le capacità apprese, come la lettura o la scrittura. I livelli crescenti di difficoltà corrispondevano ad età teoriche alle quali un bambino normale dovrebbe essere in grado di risolvere quel tipo di problemi.
La serie di test permetteva di ottenere una "età mentale" (il livello oltre il quale il bambino non era più in grado di andare avanti a risolvere quesiti), che Binet sottraeva dalla reale età cronologica. Fu il tedesco Stern, nel 1912, che apportò la giusta correzione di dividere, e non sottrarre, l'età mentale per quella cronologica, varando il quoziente di intelligenza (che venne poi moltiplicato per 100 per eliminare i decimali, e diventò in realtà, a rigore di termini, una percentuale).
Il senso del lavoro di Binet fu quello di mettere insieme il maggior numero e la maggior varietà possibile di esercizi, per avere un'esplorazione ampia delle capacità generali del bambino, ma era ben cosciente che il numerino che otteneva come risultato del test non era espressione di un'entità reale e unitaria, ma solo un riassunto di una varietà di prestazioni diverse, utile solo per le finalità pratiche che il Ministero gli aveva richiesto. Rifiutò sempre in modo chiaro l'identificazione della misura dell'intelligenza con il risultato del suo test: "Parlando propriamente, la scala non permette una misurazione dell'intelligenza, perchè le qualità intellettuali non sono sovrapponibili, e quindi non possono essere misurate come può essere misurata una superficie..." (1905).
Ancor più importante era lo scopo: individuare i bambini con difficoltà per avviarli a percorsi formativi più adatti (ad esempio con esercizi specifici per migliorare le capacità di attenzione, o con la formazione di apposite classi di 15-20 alunni, contro i 60-80 che erano allora frequenti nelle aule scolastiche dei quartieri più poveri); la valutazione era finalizzata al miglioramento, non doveva diventare un'etichettatura dei bambini meno capaci: l'inventore del test dava per scontato che l'intelligenza (qualunque significato avesse) potesse essere migliorata da un'educazione adeguata, e non poteva essere una quantità fissa e innata, e si compiacque dei buoni risultati ottenuti dai suoi corsi speciali. Ma nello stesso tempo Binet stesso fiutò il pericolo del "marchio indelebile" e mise in guardia da insegnanti che avrebbero potuto trovare una buona scusa ber sbarazzarsi dei bambini che creano problemi, o dal test che diventa una di quelle profezie che si auto-avverano, modificando l'atteggiamento dell'insegnante e quindi dirottando il comportamento e i risultati del bambino.
Vedremo nelle prossime puntate che i suoi presagi nefasti non erano affatto infondati.
Principali fonti bibliografiche, per questo e i prossimi post su questo tema:
- Stephen Jay Gould: Intelligenza e pregiudizio. Il Saggiatore, 1996.
- Richard Lewontin: La diversità umana. Zanichelli, 1987.
domenica 29 agosto 2010
Scendo in campo
Ho deciso. Lo affronterò.
Ma per sbaragliare il CaiNano avevo bisogno di 5 punti programmatici tali da far impallidire i cinque suoi; un compito molto difficile, di fronte ad un simile Gigante della Politica (eh, va bè, voi ridete, però poi sono io che lo devo affrontare in campagna elettorale...). Infatti ho dovuto impegnare quasi un quarto d'ora in faticose elaborazioni, ma adesso li ho messi a posto. Ecco i 5 punti del mio programma di Governo:
- punto 1): Avete presente le magliette delle squadre di calcio che si vendono, credo a caro prezzo, proprio uguali a quelle vere, che hanno sulla schiena tanto di numero e nome del calciatore famoso ? Bene, il mio punto 1) è: divieto di indossarle per i bambini grassi (perchè un bambino ciccione con la maglia a righe rosse e nere con scritto dietro "7 - Shevchenko" è una cosa che non si può vedere).
- punto 2): Adunata della domenica mattina. Ci si organizza in turni, e la domenica mattina presto ci si trova e si va in giro a suonare i campanelli delle case dove abitano i Testimoni di Geova.
- punto 3): Abolizione della Svizzera.
- punto 4): Installazione obbligatoria, su tutte le selle e sellini di motociclette e motorini di ogni ordine e grado, di un dispostivo omologato che chiameremo, per chiarezza, "strizzatesticoli", da applicarsi al conducente. Lo strizzatesticoli agisce con forza direttamente proporzionale al rumore prodotto dal veicolo.
- punto 5): Tutte le stronzate inutili che si comprano le donne (scarpe con tacchi contrastanti le leggi della fisica, foulard autoimpiglianti, capi di abbigliamento sberluccicanti, creme modellanti all'estratto di jojoba del Paranà Occidentale, pitture ed intonaci facciali, ecc...) non potranno uscire dal negozio se la donnella acquirente non sarà in grado di calcolare la quantità di anidride carbonica rilasciata nei processi di produzione e distribuzione della stronzata medesima, e la riduzione di superficie di ghiacciai alpini ad essa ascrivibile.
Votate, votate, votate.
Al Tappone ha le ore contate.
sabato 28 agosto 2010
Libero
Sono 150 anni che l'Italia è uno Stato unitario.
Che bella cosa essere uno Stato.
I cittadini si costituiscono in una comunità, si danno delle leggi, lavorano, sfruttano le risorse disponibili, producono ricchezza, ed una parte di questa ricchezza viene utilizzata dallo Stato, cioè dalla collettività, per le sue funzioni di utilità sociale, a beneficio di tutti. Bello. Proprio bello.
Certo, la gestione dello Stato ha dei costi, che si riversano su tutti coloro che producono ricchezza, cittadini e imprese.
Le attività dello Stato non possono essere troppo dispndiose, altrimenti penalizzerebbero la competitività delle nostre imprese sul Libero Mercato Globale.
La gestione dei beni culturali costa. Non possiamo pretendere di coltivare la nostra cultura, perchè questo finirebbe per penalizzare la competitività delle nostre imprese sul Libero Mercato Globale.
Anche una scuola ben attrezzata e funzionante costa. Non possiamo pretendere che i nostri giovani ricevano un'istruzione troppo buona, perchè finiremmo per penalizzare la competitività delle nostre imprese sul Libero Mercato Globale.
Per non parlare dei costi della sanità. Perchè dissipare risorse per curare i nostri malati, se questo riduce la competitività delle nostre imprese sul Libero Mercato Globale ?
Anche assicurare la sicurezza dei cittadini nei confronti della microcriminalità costa. Costa addestrare le forze dell'ordine ed istruirle su ciò che possono e non possono fare; e costa mandarle in giro per le città. Meglio affidarsi a ronde di facinorosi che bastonano tutti quelli che hanno la pelle un pò troppo scura per i loro gusti: è un sistema un pò 'ndo cojo cojo, ma non grava sulla competitività delle nostre imprese sul Libero Mercato Globale.
E anche lottare contro la criminalità, quella vera, costa. Considerando che le attività illegali sono uno dei principali fattori di competitività delle nostre imprese sul Libero Mercato Globale, perchè dannarsi l'anima a perseguire le frodi fiscali, i traffici illeciti, la corruzione, l'esportazione di capitali e le collusioni con la criminalità organizzata ? Anzi, è meglio mettere a Capo del Governo il Campionissimo di tutte queste attività, e la competitività delle nostre imprese sul Libero Mercato Globale non potrà che beneficiarne.
Con tutti questi costi, se il territorio, anche nelle aree più preziose e particolari, offre delle risorse che possano produrre ricchezza, eh, bè, quelle bisogna sfruttarle. Non possiamo permetterci di tutelare l'ambiente nel quale viviamo, perchè questo penalizzerebbe la competitività delle nostre imprese sul Libero Mercato Globale.
E le attività che producono ricchezza producono anche rifiuti, a volte pericolosi. Non possiamo pretendere che le imprese li smaltiscano seguendo tutte le regole, perchè questo danneggerebbe la loro competitività sul Libero Mercato Globale. Che si portino illegalmente in Campania o in Nigeria, non possiamo mica stare lì a preoccuparci troppo della salute degli abitanti del luogo: ne va della competitività delle nostre imprese sul Libero Mercato Globale.
Le imprese devono mantenere le retribuzioni dei lavoratori al livello più basso possibile, per mantenere la loro competitività sul Libero Mercato Globale.
E' sciocco che i sindacati pretendano di tutelare i diritti dei lavoratori: non si rendono conto che così limitano la competitività delle nostre imprese sul Libero Mercato Globale ?
Di eventuali diritti superstiti, non si deve pretendere che essi vengano applicati proprio bene del tutto, altrimenti si danneggerebbe la competitività delle nostre imprese sul Libero Mercato Globale.
Anche pretendere misure adeguate per la sicurezza sul lavoro è un impedimento per la competitività delle nostre imprese sul Libero Mercato Globale.
Considerato che il tipo di rapporto di lavoro che meglio garantisce la competitività delle imprese sul Libero Mercato Globale è, senza possibilità di errore, lo schiavismo, il lettore faccia ora due più due e dica in quale direzione ci porta l'inseguimento della falsa religione del Libero Mercato.
Rimane la contropartita, più volte rimarcata in passato in questa colonna, che lo scarso potere di acquisto degli schiavi finirebbe per impedire alle imprese, rese finalmente pienamente competitive, di vendere i propri prodotti a chicchessia.
Quando infine questo assurdo crollerà su se stesso (e sono convinto che non manchi molto), io festeggerò nel seguente modo: la sera, ricondotte nel loro recinto le poche capre che a quel punto costituiranno il mio sostentamento, mi rinchiuderò nella mia baracca e tirerò fuori dal frigorifero (ovviamente spento e non più alimentato da lungo tempo) l'ultima bottiglia di champagne gelosamente conservata per lunghi anni. Me la scolerò fino all'ultima goccia, e finalmente potrò ruttare in faccia ad Adam Smith ed alle sue ridicole superstizioni.
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