E' possibile fare previsioni sul futuro dell'evoluzione biologica (umana o di qualsiasi altro gruppo vivente) ?
Il quesito è di per sè sicuramente affascinante, ma affrontare un tentativo di risposta può essere soprattutto l'occasione per dissipare alcuni luoghi comuni sull'evoluzione, alimentati da tante esposizioni divulgative che da una parte tendono a presentare in maniera troppo semplificata la teoria - un certo grado di semplificazione è certamente utile per rendere comprensibili a tutti i meccanismi di base, ma una semplificazione eccessiva può portare a costruire raffigurazioni fuorvianti -, e dall'altra sono un pò viziate da un certo provincialismo della specie umana, o meglio da un sottofondo di intento autocelebrativo per un presunto ruolo "speciale" dell'uomo nella natura, che tende a prevalere rispetto a ricostruzioni più distaccate della realtà storica.
Il luogo comune più diffuso ed evidente è quello della raffigurazione dell'evoluzione come una scala lineare di progresso. Direi che la maggior parte dell'iconografia "tipica" che si trova, ad esempio, sui libri di testo, tende verso questa raffigurazione: dal pesce all'anfibio al rettile all'uccello all'uomo (linea comportante, se si volesse essere precisi, un anacronismo tra l'origine dei mammiferi e degli uccelli, essendo questi ultimi più recenti; ma il provincialismo autocelebrativo non può prescindere dall'uomo in posizione terminale nella scala del progresso evolutivo); oppure: dalla scimmia, alla scimmia in posizione eretta, all'uomo dall'aspetto scimmiesco (di solito con clava), all'uomo seminudo con evidenti problemi di peli superflui, al professionista in giacca e cravatta (esponente della civiltà occidentale industrializzata, provincialismo autocelebrativo elevato al quadrato - ed invariabilmente maschio, provincialismo autocelebrativo al cubo).
Si tratta di un'iconografia che si presta molto bene a reinterpretazioni satiriche, ma questo tipo di visione dell'evoluzione trascina con sè una serie di conseguenze fuorvianti nell'interpretazione della storia naturale. Identificherei le più importanti di tali distorsioni nei seguenti concetti: innanzi tutto che l'evoluzione comporti una tendenza intrinseca al progresso, comunque esso venga inteso (di solito come un aumento della complessità); in secondo luogo che l'uomo sia il risultato ultimo, ineluttabile e prevedibile, di questa tendenza progressiva, cioè che tutta la lunga storia della vita sulla Terra sia stata una sorta di "preparazione" alla comparsa dell'uomo, fine predestinato ed inevitabile del processo evolutivo; ed infine, che gli eventi di estinzione e sopravvivenza siano manifestazioni di "colpe" o "meriti" o, per meglio dire, rappresentino sentenze sul valore: chi si estingue, soccombe per sue carenze, insufficienze o manchevolezze.
Da una parte si può avere qualche indulgenza verso verso questa specie di sciovinismo biologico: non vogliamo rassegnarci ad ingoiare il quarto "rospo intellettuale" nel breve volgere di quattro secoli: credevamo di essere al centro di un universo limitato, ma Copernico, Galileo e Newton ci hanno relegato su un satellite di una piccola stella periferca di scarsa importanza; ci siamo consolati pensando che Dio avesse scelto proprio quell'angolo sperduto per collocare l'unico organismo creato a sua immagine e somiglianza, ma Darwin ci ha palesato la nostra discendenza da un mondo animale; il conforto della fiducia nelle nostre rigorose menti razionali è durato solo finchè Freud non ci ha inchiodato al nostro inconscio; si può capire che quando infine la paleontologia ci indica la profondità abissale del tempo geologico, che la storia dell'uomo ne occupa solo una parte infinitesima, e non è affatto così pervasiva e necessaria nella storia della vita, e che la nosta esistenza è un "accidente cosmico" contingente ed irripetibile, la difficoltà ad accettare il concetto può essere comprensibile. (1)
Ma dall'altra parte, come per i tre rospi precedenti, varrà la pena di rassegnarsi e barattare il disagio per una migliore conoscenza.
Il primo passo che dovremmo fare è concettualizzare l'evoluzione nella nostra mente con un'immagine esemplificativa un pò più appropriata: non come una scala lineare, ma come un cespuglio fittamente ramificato: da un singolo tronco basale, due, poi quattro e via via una infinità di ramoscelli che continuano a ramificarsi. Ad ogni livello del cespuglio, ci saranno anche molti rametti che avvizziscono e lasciano spazio ad ulteriori ramificazioni di altri rami vicini.
Come si può negare che l'evoluzione contenga intrinsecamente una sua propria tendenza a produrre esseri via via più perfezionati e complessi ? Il fatto che la storia evolutiva sia una storia di aumento di complessità appare evidente: da semplici batteri, a cellule eucariote con un nucleo ed organelli interni, a cellule che si aggregano in forme coloniali, anche piuttosto elaborate come le grandi alghe, ed infine formano organismi con anatomia dapprima semplice, spugne, meduse, e poi via via più complesse lungo ciascuna delle diverse ramificazioni principali del nostro cespuglio, dai muschi alle piante con fiori, dai lombrichi ai crostacei e ai vertebrati. Come si può non vedere in queste successioni una storia di aumento di complessità ? E come si potrebbe non concludere che tale spinta verso la complessità sia in qualche modo un principio fondamentale che dirige il cambiamento evolutivo ?
In realtà, se noi esaminiamo il nostro cespuglio dell'evoluzione, a partire dal tronco di base, un iniziale capostipite batterico della vita sulla terra, lungo le innumerevoli ramificazioni, troviamo infine ancora batteri in quasi tutti i ramoscelli terminali, e solo alcuni gruppi molto ristretti di ramificazioni conducono ad esseri più complessi.
Il modo di gran lunga più frequente di essere vivo sulla terra è sempre quello di essere un batterio, cioè presumibilmente il livello di organizzazione più semplice compatibile con una vita autonoma.
Se poi studiamo l'andamento del cambiamento evolutivo all'interno di ciascun clade (un clade è l'insieme di tutte le specie derivate da un'unica qualsiasi specie ancestrale; nella nostra metafora del cespuglio è tutto ciò che ci rimane in mano se eseguiamo un singolo taglio ad un qualsiasi livello del cespuglio. Spero che un esempio possa chiarire il concetto: i mammiferi sono un clade, poichè discendono tutti da un progenitore comune e ne rappresentano tutta la discendenza; i rettili NON sono un clade, poichè il clade che include i rettili comprende anche uccelli e mammiferi, in quanto da essi derivati), entro i cladi non si trovano particolari tendenze verso la complessità: da specie ancestrali si hanno discendenti dotati indifferentemente di caratteristiche anatomiche e strutturali più complesse o semplificate senza nessuna prevalenza rilevabile.
La conclusione a cui voglio giungere al termine di questo ragionamento, è che se la media della complessità (comuque la si voglia misurare) è sicuramente aumentata nel corso della storia della vita, questo è dovuto all'allungarsi della coda estrema della distribuzione delle anatomie, rappresentata dalle forme complesse, dovuto semplicemente all'aumento della diversità dei modelli anatomici. Poichè il punto di partenza è la struttura vivente più semplice possibile, c'è un limite fisico che impedisce la diversificazione in direzione di modelli più semplici, e quindi l'allargamento della distribuzione dei tipi strutturali può procedere solo nella direzione della maggiore complessità: l'aumento medio della complessità anatomica non rappresenta una tendenza intrinseca dell'evoluzione, è solo un effetto collaterale della diversificazione, da un punto di partenza posto in prossimità di un limite invalicabile, la moda (il valore più frequente) batterica rimasta costante dall'inizio ad oggi (non c'è stata un'era dei trilobiti, nè un'era dei dinosauri: dall'inizio della vita sulla terra, tre miliardi e mezzo di anni fa, viviamo nell'era dei batteri, e di lì non ci siamo mai mossi).
Qualche insolito evento di frane di fango su antichi fondali marini ci mette oggi a disposizione pochissimi e preziosissimi campioni fossili completi di intere faune primordiali straordinariamente conservate. Un sito in particolare, la cava di argilloscisti di Burgess, sulle Montagne Rocciose canadesi, ha favorito condizioni di conservazione eccezionali e risale all'epoca "giusta" (530 milioni di anni fa) per una visuale della fauna appena successiva all'inizio della vita pluricellulare (che si stima intorno a 570 milioni di anni fa). I concetti che si ricavano dallo studio di quella fauna degli esordi, riassunti veramente all'essenziale, ci dicono che:
1) c'era già tutto. Sono riconoscibili i precursori, se non i primi esponenti già ben differenziati, di tutti i principali gruppi animali: tutti i quattro grandi gruppi di artropodi: i trilobiti (oggi estinti), i crostacei, i chelicerati (oggi rappresentati da ragni e scorpioni), e gli unirami (che oggi includono gli insetti); e poi spugne, una varietà di "vermi" che va dagli onicofori ai priapulidi agli anellidi ai molluschi, fino a un piccolo esserino, neanche molto rilevante in quella fauna come frequenza numerica, simile ad un pesciolino appiattito e nastriforme, con fasce muscolari a forma di V come i pesci moderni, chiamato Pikaia, che è il primo cordato documentato, cioè noi. C'erano già tutti i principali gruppi animali, o comunque i loro progenitori riconoscibili come tali. Nessun nuovo modello anatomico principale ha avuto origine da quello stadio iniziale ad oggi.
2) C'era molto di più. La maggior parte delle specie della fauna di Burgess Shale non è collocabile in alcun gruppo tassonomico attuale. Per rimanere agli artropodi, oltre ai quattro gruppi principali indicati sopra, le specie di artropodi di Burgess non incorporabili in alcun gruppo conosciuto sono almeno tredici (ma più probabilmente oltre venti: la revisione continua): oggi sono classificate molto più di un milione di specie di artropodi e tutte rientrano nelle quattro suddivisioni principali, ed un singolo giacimento fossile richiederebbe l'istituzione di una ventina di ulteriori gruppi diversi per classificare poche decine di specie ! Ed esistevano animali con strutture corporee generali che ora semplicemente non esistono più, e che potrebbero sembrare usciti da qualche film di fantascienza.
Per darvi appena un'idea, vi presento, nel suo status attuale di reperto fossile e nella ricostruzione che potete trovare anche su Wikipedia, la Opabinia, dotata di cinque occhi e di un singolo organo prensile simile ad una chela, posto all'estremità non di un arto, ma di un'appendice flessibile. Nulla di simile esiste oggi.
Si può stimare che le specie animali di oggi siano complessivamente più numerose di allora, ma comprese in un numero molto più ristretto di gruppi tassonomici (cioè di tipi di architettura anatomica); quesito insolubile: la biodiversità è dunque aumentata o diminuita ?
Tutta questa "esplosione" iniziale di diversità, in reltà non deve meravigliare. il fatto di essere i primi animali pluricellulari consentiva di adottare modi di vita mai esistiti fino ad allora, ed occupare spazi ecologici del tutto "vuoti": in questo senso si può dire che "qualsiasi cosa avrebbe funzionato", e l'evoluzione potè sperimentare le più varie modalità di costruzione anatomica.
Possiamo ipotizzare che siano sopravvissuti i tipi anatomici più funzionali e si siano estinti quelli da qualche punto di vista più carenti, anche se è difficile comprendere la sopravvivenza, tanto per dare un'idea, delle linee genealogiche A e C e l'estinzione della linea B ad esse intermedia. Aggiungiamo che estinzione o sopravvivenza tei tipi animali di quel mondo di oltre 500 milioni di anni fa non hanno alcuna relazione con la loro frequenza relativa in quella fauna (cioè con il successo conseguito fino a quel momento): alcune tra le specie più abbondantemente rappresentate non hanno lasciato discendenti, e gruppi allora molto rari oggi prosperano. Sappiamo inoltre che almeno due (ma forse più) eventi di estinzione di massa si sono verificati nel frattempo, presumibilmente causati da immense catastrofi naturali. Tutti ormai hanno imparato la storia dell'asteroide che impattò la Terra circa 65 milioni di anni fa, causando alterazioni climatiche che provocarono l'estinzione della grande maggioranza delle specie viventi, e la scomparsa dei dinosauri; ma un'estinzione ancora più completa si verificò intorno a 225 milioni di anni fa, quando ben oltre il 90% delle specie allora esistenti sparì; ebbene, se la causa principale delle estinzioni di linee filetiche fosse legata ad eventi di questo tipo, i pochi gruppi tassonomici superstiti, che avranno il privilegio di essere all'origine di nuove diversificazioni e ramificazioni, non potrebbero attribuirsi nessun valore, abilità, o capacità particolari superiori a quelle occorrenti per vincere una lotteria (la selezione naturale non può sviluppare adattamenti per sopravvivere a enormi catastrofi, non c'è la possibilità di "esercitarsi" prima).
Dunque, sappiamo a posteriori che la Pikaia, sulla quale, in base alla sua abbondanza nella fauna di 530 milioni di anni fa, sarebbe stato molto azzardato scommettere, sopravvisse e non si estinse, e che qualche particolare situazione contingente e imprevedibile fece sì che 225 milioni di anni fa qualche pesce suo discendente fu tra i pochi animali a trovarsi tra le pinne il biglietto buono della lotteria, e possiamo considerare molto plausibile che se 65 milioni di anni fa, alcuni mammiferi (in forma di piccoli insettivori notturni dediti più che altro a nascondersi in un mondo dominato da grandi rettili) furono in grado di sopravvivere all'impatto dell'asteroide e, dopo milioni di anni di "anonimato", colonizzare così tanti ambienti e diversificarsi nell'attuale varietà di forme, devono questa opportunità soprattutto alle loro piccole dimensioni, un effetto collaterale della loro marginalità di allora. Altro che marcia ineluttabile del progresso verso la perfezione inevitabile dell'uomo !
Ritengo ora di avervi fornito un primo e grossolano servizio di pulitura dell'iconografia classica sull'evoluzione (la salutare "igiene iconoclasta" è una delle mie attività preferite) che permette di mettere in evidenza il ruolo fondamentale delle irripetibili situazioni occasionali nella costruzione degli eventi evolutivi: nulla è ineluttabile e predefinito, e se potessimo riportare indietro il film della storia della vita, per farlo ripartire, nelle stesse condizioni, da un punto qualsiasi del passato, non arriveremmo mai un'altra volta allo stesso fotogramma di oggi. La selezione naturale, il grande motore dell'evoluzione, non realizza progetti e non risponde ad aspettative; costruisce adattamenti immediati e locali per il "qui ed ora", ed il "qui ed ora" sono contingenze storiche mutevoli e spesso non prevedibili (ma vorrei anche sottolineare che "non prevedibile" è molto diverso da "casuale": tutto si svolge seguendo rigorosamente le leggi di natura, ma non possiamo mai sapere quale combinazione di eventi si realizzerà tra le molte possibili, ed ogni possibile svolgimento diverso della storia sarebbe altrettanto interpretabile a posteriori, se solo esistesse qualcuno in grado di farlo).
Ora, dovremmo essere abbastanza saggi da non sentirci sminuiti per il fatto di non essere l'apice inevitabile di una tendenza verso il progresso, ed anzi apprezzare la serie fortunata di circostanze che ha condotto proprio noi e non altri a poter indagare e meditare sulla nostra storia, le nostre origini ed il nostro ruolo del mondo, e dovremmo anche guardarci intorno, a contemplare la varietà della natura che ci circonda, con quel tanto di ammirazione che non guasta, per la lunga serie di vicissitudini storiche che ha portato tutti gli esseri viventi ad essere qui ancora oggi, tre miliardi e mezzo di anni (ed infinite ramificazioni, e ripetute drammatiche decimazioni) dopo un batterio progenitore.
Oggi probabilmente ci troviamo ancora ad uno di quei punti di svolta in cui il film della storia della vita potrebbe di nuovo cambiare completamente scenario. Una singola specie ha acquisito una enorme diffusione demografica ed una capacità mai vista prima di modificare il proprio ambiente, dissipando ad una velocità folle le stesse risorse su cui fonda la propria sopravvivenza.
L'uomo possiede la capacità di astrarre e progettare, e può utilizzarla, come finora ha fatto, per escogitare sistemi sempre più ingegnosi per sfruttare le risorse del pianeta più velocemente possibile. Può utilizzare la stessa capacità intellettuale per riconoscere che questo pianeta non è in grado di sostenere consumi così accelerati, e per definire una pianificazione su scala mondiale dell'utilizzazione delle limitate risorse della Terra, al fine di impiegarle solo per i fini essenziali di sopravvivenza, anzichè sprecarle per fabbricare fesserie inutili come motociclette e foulard. Questa capacità di pianificazione, ambiziosa ma necessaria, si scontra con la difficoltà di creare una comunità di intenti in tutta l'immensa popolazione mondiale, e sarà evidentemente difficile da raggiungere, ma è inutile sbrodolarsi in lodi per le straordinarie capacità del nostro cervello, se poi rinunciamo ad usarle nel modo appropriato. Se ne saremo capaci, riusciremo a slavaguardare mari, suolo, aria, foreste, acqua potabile e clima, dai quali dipende la sopravvivenza nostra e delle prossime generazioni. Se invece continueremo ad utilizzare la nostra intelligenza per sfruttare il pianeta oltre le sue possibilità, ai fini del nostro massimo profitto immediato, il film andrà comunque avanti senza di noi, e in un caso o nell'altro i batteri continueranno a rappresentare la moda della vita, del tutto indifferenti tanto alla nostra presenza quanto alla conclusione della strana e fuggevole parentesi dell'umanità, meno che un istante nella scala del tempo geologico.
Nell'estensione di questo post, già lungo, ho indegnamente ridotto ai minimi termini trattazioni di temi che richiederebbero centinaia di pagine. Per chi fosse interessato ad approfondire, consiglio:
Stephen Jay Gould: La vita meravigliosa - I fossili di Burgess e la natura della storia - Feltrinelli 1990
e, sulle distribuzioni asimmetriche che inducono false percezioni di tendenze generali, e molto altro ancora:
(1) Stephen Jay Gould: Gli alberi non crescono fino in cielo - Mondadori 1997
Nessun commento:
Posta un commento